Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente. Supplemento 1. La Nike di Samotracia tra Macedoni e Romani. Un riesame del monumento nel quadro dell’assimilazione dei Penati agli Dei di Samotracia

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SAIA - Scuola Archeologica Italiana di Atene, 20 dic 2018 - 70 pagine
Malgrado la sua enorme fama, la Nike di Samotracia resta un’opera di non chiara interpretazione. Si discute ancora, animatamente, sulla sua cronologia, sulle motivazioni della sua dedica, sulla struttura che la conteneva, sul suo rapporto con il santuario dei Theoi Megaloi. Purtroppo gli scavi archeologici non hanno potuto risolvere buona parte di questi quesiti. Mi sembra comunque certo che la Nike fosse ricoverata in uno spazio chiuso, molto probabilmente un naiskos, entro il quale la statua sul suo basamento in forma di prua si rivolgeva verso il cuore del santuario. Come è avvenuto in molti altri casi quando si discute sui modi di percezione di un’opera d’arte nel mondo greco e romano, si avverte la distanza con il moderno sistema visuale, che poggia su differenti parametri, forgiati durante il Rinascimento italiano. La Nike, molto probabilmente, non era visibile dall’esterno, e comunque non dominava l’ambiente circostante, come tanto spesso si è ipotizzato immaginando che fosse visibile persino dal mare: il suo rapporto con la natura era inesistente. In quanto alla motivazione della dedica, l’ipotesi che al momento mi sembra più persuasiva è quella offerta da Olga Palagia, che si tratti di un donario romano a seguito della cattura di Perseo, re dei Macedoni, della sua famiglia e di parte del suo tesoro proprio a Samotracia, dove si era rifugiato. È ipotizzabile che la dedica fosse dovuta a Gneo Ottavio che, per la sua vittoria su Perseo, celebrò un trionfo navale a Roma, il giorno seguente al sensazionale trionfo di Emilio Paolo, che durò tre giorni. La Nike era collocata su una collina dove erano ubicati alcuni importanti monumenti dedicati dai sovrani macedoni, tra i quali un neorion realizzato probabilmente da Antigono Gonata per la sua vittoria navale sulla flotta tolemaica a Kos, e un’alta colonna con statua onoraria, dedicata a Filippo V. La Nike sembra volgere le spalle a questi monumenti dichiarando così la definitiva sconfitta degli Antigonidi. Nella seconda parte di questo lavoro sono prese in esame le motivazioni per le quali i Romani mostrarono in età tardo-repubblicana un interesse speciale per il santuario di Samotracia, divenuto in breve tempo uno dei principali nel Mediterraneo, pari per importanza a Delfi. Il comune denominatore è il culto dei Penati che, secondo la tradizione, erano di origine samotrace, e quindi trasferiti da Dardano a Troia, e da Enea in Italia, oppure erano rimasti a Samotracia, dove Enea, fuggito da Troia in fiamme, li ottenne durante la sua sosta nell’isola lungo il suo tragitto verso le coste laziali. Naturalmente l’identificazione dei Penati con i Theoi Megaloi di Samotracia è frutto di una lunga gestazione che passa attraverso una precedente identificazione dei Dioscuri con i Theoi Megaloi, e quindi dei Penati con i Dioscuri. È verosimile che la leggenda abbia cominciato ad assumere la sua veste definitiva verso la seconda metà del III secolo a.C., quando la seconda guerra punica prese una piega favorevole ai Romani. Essa avrebbe avuto origine nella stessa Samotracia per valorizzare politicamente il rapporto con Roma attraverso i sacra recati nel Lazio da Enea, e quindi per reclamare un’autonomia dalla Macedonia e dai sopraggiunti interessi seleucidi. Roma, assumendo il ruolo di difensore dei luoghi dai quali derivavano i suoi oggetti sacri più preziosi, potrebbe aver recepito la leggenda in chiave anti-macedone e anti-siriana.
 

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