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scritta di Venetia, a lì (sic) di Apr. MDXLIIII; vengono, poi le 147 Stanze de la Viola (da c. Aiij fino a Giij); l'occhietto « Stanze di Messr (sic) Pietro Aretino in lode di Madonna Angela Serena » (1) sul verso della Giij, precede la dedicatoria di Francesco Marcolini, (noto incisore e stampatore, e compare dell'Aretino) « Al Signore Sperone Reputatione de la nobiltà Padovana et delitia de la gloria de le Muse >> le 60 Stanze de la Serena » vanno dalla c. H fino alla c. kiij. Seguono due sonetti, uno della Signora Veronica Gambara, Contessa

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IN VINETIA AL SEGNO DE LA

VERITA

Per Francesco Marcolini Con priuileggio

M. D. X X X X IIII

di Correggio e uno di Messer Pietro Aretino, a Madonna Angela Serena. Al recto dell'ultima carta l'impressus.

Della « Quartana ladra » che, come dice Messer Pietro stesso, nella sua

(1) Le Stanze di Messer Pietro Aretino, precedute dalle parole « In lode di Madama Angela Sirena » uscirono per la prima volta in Venetia per Francesco Marcolino da Forlì, appresso la Chiesa della Trinità negli anni del Signore 1537 a li XXII di Zenaro. In fogl. << Sotto al titolo è un bell' intaglio in legno rappresentante in alto fra le nuvole una Sirena contornata da stelle e al basso un Pastore sul lido del mare che la sta rimirando » dice il Casali a pag. 37 del suo Catalogo qui addietro citato. (V. nota 12, p. 29). La dedicatoria che segue il frontespizio, << Alla Sacra Imperatrice Augusta », colla data « di Venetia alli XV Gennaro MDXXXVII » e la lettera che precede l' ultima carta « A lo illustre S. Don Lope Soria prudente et valoroso esecutore de le gran Faccende Cesaree » fruttarono all'Aretino il dono di una collana di 300 scudi d'oro, che l'Imperatrice gli fece mettere al collo dal medesimo D. Lope de Soria.

Queste Stanze, che non furon mai più di sessanta, ristampate poi più volte, costarono molto lavoro a M. Pietro « ho penato sei mesi nell'opera della Sirena » si legge in una sua lettera del 1537 (Lib. I, c. 99) e sappiamo ch' egli le aveva principiate nell'estate del 1536. « Le quattro stanze per principio delle cento mi scrivete voler fare in onore della vostra Sirena »>, gli scriveva Veronica Gambara alli 19 di settembre di quell'anno, « sono al giudizio mio bellissime » (Rime e lett. di V. G. racc. da Felice Rizzardi. Brescia, Rizzardi, 1759, p. 290). La prima contiene l' invocazione e incomincia :

Aure o Aure che ui raggirate.

Per questo disuelato Ciel fereno....

e nella quarta si legge :

Ne le superbe e fortunate arene
Nel cui cerchio fi fta quel Paradifo
Che il LEON facrosanto alza e foftene,

Di pace empiendo ouunque uolge il uiso,

Il Thofcano Paftor, che il uero tene

Sculto nel fronte, fopra un tronco affifo

Gli occhi al ciel uolti, a la fua Dea il pensiero
Cofì a dir moffe in fuon piano et altero:

In seguito alle Stanze è stampato un sonetto della Signora Veronica Gambara Contessa di Coregio a la Sirena : « Ben si può dir che a voi largo e cortese », il medesimo che si trova

lettera « Al facetissimo Trippa » alla data della pubblicazione degli Strambotti, nell'aprile del 1544, lo aveva già « concio otto mesi alla fila », che nel maggio

poi qui dopo gli Strambotti a la Villanesca, e anche in Rime e lett. di V. G. cit. p. 34, e di cui è menzione in una lettera della Gambara da Correggio allì 26 d'Agosto 1536: « Ritornò Girolamo mio figliuolo di Venezia, divino Messer Pietro mio, Mi ragionò di voi molte cose, ma fra l'altre mi pregò in nome vostro ch' io fossi contenta di far un sonetto in lode dell'avventurosa donna

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novellamente amata da voi. Io stei in forse un pezzo, poi mi risolsi a farlo ». (V. Rime e lett. cit. p. 280). Segue un Sonetto di Messer Pietro Aretino a Madonna Angela Serena : « Questa del Ciel Sirena ha nei bei chrini » anch'esso ristampato poi in seguito agli Strambotti, e altre volte.

L' intaglio del frontespizio, fu più tardi, nel 1552, inserito dal Marcolini nei suoi Mondi del Doni, a pag. 70, di dove è qui riprodotto, e sta a dichiarazione di quel passo del Dialogo fra Momo

dell'anno medesimo ancor non lo « lasciava » lui così ghiotto ! < gustar sapore di cibo veruno » (1), che nel luglio lo aveva << tenuto dieci mesi più

e l'Anima, nel Mondo Misto: « Mo. Ma che Serena è questa che entra nelle nubi ? — Ani. O Momo, vedi bel Pastore, senti come egli canta bene in lode di questa Serena. O quanto sei felice, bella Serena ! Mo. O Anima salita in questa altezza, sì bella, sì gentile, et sì pulita, chi t'ha svelto del Mondo, certo tu dovevi essere il più bel fiore che vi fosse et che Phebo facesse nascere mai. Ani. Donna fui io, et hebbi nome Serena, et il Pastor che in terra è rimasto, manda il grido delle mie bellezze insino alle stelle, et la fama della mia acerba morte spiegherà l'ali per tutto l'universo. Mo. Se ti piace ritornare in quei bassi gradi tu puoi a ogni tuo volere; per haver vita anchora. Ani. Assai ho io della vita da colui che ha dato la vita a mille ne suoi scritti, quello non mi lascierà spegnere in tutti i secoli che verranno: il grado l'essere, la bellezza e 'l nome » p. 69.

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Guardando bene questo intaglio, non vi pare che esso corrisponda perfettamente al disegno di quell' incisione di cui si legge nel Vol. XII dell'opera del Bartsch: Le Peintre-Graveur (Leipsic et Vienne, 1808-54), sotto il titolo Arétin chantant la Sirène? « Arétin vêtu en pélerin, assis sur le bord de la mer, et chantant son poème de la Sirene, dont la constellation lui apparoît à la gauche d'en haut. Clair-obscur de deux planches, gravé par un anonyme d'après un dessein que quelques uns attribuent au Parmesan, d'autres au Titien. Hauteur 6 pouces. Largeur 4 p. 8 lignes. (La riproduzione che se ne è fatta qui, è riuscita un poco più piccola, ma la misura dell'originale è precisa). On trouve, quoique très rarement, une épreuve de ce morceau, accompagnée en bas de trois sonnettes imprimées avec des lettres d'impression, dont celle du milieu est intitulée: M. Pietro Aretino alla Sirena, les deux autres: Il Bevazzano al Aretino ». (Cap. X, Inventions, p. 144, n. 5). Sappiamo che il Tiziano era compare dell'Aretino e a Venezia nel 1537.

Molto è stato scritto sull' amore di Messer Pietro per Angela Tornimben, moglie di Gian Antonio Sirena, bergamasco, della quale alcuno crede ch' egli volesse far la sua Laura, e che, forse infelice nel matrimonio, mori in giovane età nel 1538. (V. Mazzuchelli G. Vita cit., pag. 88 e segg. ; Quadrio F. S. op. cit. vol. II, p. 238 ; Tassini G. Arch. Veneto 1886, T. 31, p. 208). (1) Il terzo libro delle Lettere di Messer Pietro Aretino. Al Magnanimo signor Cosimo dei Medici Principe di buona volontade. In Vinegia. Appresso Gabriel Giolito de Ferrari MDXLVI. Con Gratia et privilegio. Lett. a M. Titiano p. 47. Credo interessante riportar qui tutta la lettera : « Havendo io Signor Compare con ingiuria della mia vfanza cenato folo, ò per dir meglio, in compagnia dei fafiidi di quella quartana, che più non mi lafcia gufiar' fapore di cibo veruno, mi leuai da tauola fatio della difperation con la quale mi ci pofi. Et cofi appoggiate le braccia in sùl piano della finefira, e fopra lui abbàdonato il petto, e quafi il refio di tutta la perfona, mi diedi a riguardare il mirabile fpettacolo che faceuano le barche infinite, le quali piene non men' di forefiieri, che di terrazzani ricreauano non pure i riguardanti, ma effo canal grande ricreatore di ciascun' che il folca, e fubito che forni lo fpaffo di due gondole, che con altrettanti barcaiuoli famofi fecero a gara nel vogare, traffi molto piacere della moltitudine, che per vedere la gratia fi era fermata nel ponte del Rialto, nella riua dei Camerlinghi, nella Pescaria, nel Traghetto di Santa Sophia, e nel da Cafa da Mofio. E mentre quefie turbe e quelle con lieto applaufo fe ne andauano alle fue vie; ecco ch' io, quafi huomo che fatto noiofo a fe fieffo non sà che farsi della mente, non che dei penfieri, riuolgo gli occhi al cielo, il quale da che Iddio lo creò non fu mai abbellito da cofì vaga pittura di ombre e di lumi. Onde l'aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno inuidia a voi, per non poter effer' voi e che vedete nel raccontarlo io: in prima i cafaměti, che bĕche fien' pietre vere pareuano di materia artificiata et di poi fcorgeasi l'aria, ch' io comprefi in alcun' luogo pura, e viua; in altra parte torbida e fmorta. Confiderate ancho la marauiglia ch'io hebbi dei nuuoli còpofii d'humidità cōdensa, i quali in la principal' veduta mezzi fi fiauano vicini ai tetti degli edificii, e mezzi nella penultima, peroche la diritta era tutta d'vno sfumato pendente in bigio nero. Mi fiupii certo del color vario, di cui effi fi dimofirauano, i più vicini ardeuano con le fiamme del foco folare et i più lontani roffeggiauano d'vno ardore di minio non cofi bene accefo. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingeuano l'aria in là, difcofiandola da i palazzi con il

La Bibliofilia anno XI, dispensa 1*-2*

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nell' altro mondo che in questo » (1), che nell'agosto aveva in lui << riprese le sue giuriditioni lasciate » (2), che nel settembre pare fosse più mite, perchè avendo egli ricevuto in dono delle pesche del dottor Cavallino gli scriveva: << et • benchè hoggi sia il dì che mi tocca con la febre solita non mi son potuto tenere di non assaggiarne due, - frutti la cui bontade mi farà gustare quel poco che mangio (3), ma che nell'ottobre, quando « più d' uno anno gli ha dato persecutione » gli fa ancora aggiungere « dispiacere alla noia con ch'ella lo tormenta, » non rendendogli possibile di andare a Padova per « conoscere per compare il medesimo dottor Cavallino « nella cerimonia pia del fonte sacro » (4), è ancora altre volte menzione in lettere di lui, e in lettere di altri a lui nel 1543 e nel 1544. In una sua a M. Titiano, in data di Venetia 1543, vediamo come egli « freneticasse » anche altri versi durante la Quartana: « Signor compare » gli dice « acciò che voi vediate che le laudi che deste alla Magnifica Madonna Isabetta Massola mi penetraro il petto anchor ch' io l'ascoltassi dal letto con la febre addosso, vi mando il sonetto, il quale con tanto affetto desideravate ch' io componessi sopra il mirabile ritratto che di lei creatura miracolosa havete fatto, nè vi maravigliate che tali versi non siano secondo l'alto merito di lei e sì come io gli soglio fare, ma stupitevi del quale sia possibile che la fantasia di me habbia potuto tanto stando io sì male » (5).

Verso la fine del gennaio 1544 pare che avesse trovato un rimedio alla sua malattia, e ne avesse dato notizia a Cosimo Medici, Duca di Fiorenza, «Messer Pietro carissimo » gli scrive Cosimo « da Fiorenza, alli IIII di Febraro 1544 » Il remedio che ci avete mandato per la Quartana (ancora che non sia stato bisogno di usarlo in noi per averci trovato già libro di essa) ci è stato molto grato e come cosa provata in voi potrà servire per qualche nostro creato quando mai alcun cascasse in tal malattia, e ne mandiamo un altro a voi notato ne la qui aggiunta carta, che è buono a tutti i mali. Godetevelo per nostro amore » (6).

Ma in un'altra lettera al Cavalier Da Porto, con data « Del letto in Vinetia 1544 », Messer Pietro si duole ancora della perdita del gusto. « Ho ricevuto » scrive, il gallo, la gallina et i francolini, corone in quanto alla gola di tutti gli altri animali e perche sono carni rade volte prese e cibo più che singulare, non pure la mia tavola sobria, ma le mense regie si farieno sontuose per si

modo che la difcofia il Vecellio nel far' de i paefi. Appariua in certi lati un' verde azurro; et in alcuni altri un' azurro verde veramente compofio dalle bizarrie della natura mafira de i maefiri. Ella con i chiari e con gli fcuri sfondava e rileuaua in maniera ciò che le pareua di rileuare e di sfödare, che io, che so come il vofiro pènello è spirito dei suoi spiriti, e trè e quattro volte esclamai : O Titiano doue fete mò? Per mia fè, che fe voi hauefie ritratto ciò ch'io vi cōto, indurrefie gli huomini nello stupore che cõfuse me, che nel contemplare quel' che v'ho contato ne nutrij l'animo che più non durò la marauiglia di sì fatta pittura. Di Maggio in Vinetia 1544.

(1) Op. cit. Lett. a M. Claudio Tolomei, c. 54.

(2) Op. cit. Lett. al Duca d'Urbino, c. 57.

(3) Op. cit. Lett. al Dottor Cavallino, c. 61. Altra Lett. al Dottor Cavallino, c. 61.

(4) Op. cit. Lett. al Dottor Cavallino, c. 63.

(5) Op. cit. Lett. a M. Titiano, c. 34 v.

(6) Lettere scritte al signor Pietro Aretino, da molti Signori, Comunità, Dame di Valore, Poeti, et altri Ecceellentissimi Spiriti, Divise in due libri, sacre al Rever.mo Cardinal di Monte. In Venetia per Francesco Marcolini. Nel mese di Ottobre MDLI. Lib. II, p 8.

pregiate vivande, talche ve ne ringrazio, come s' io fussi un principe che si havesse visto presentar ciò. Duolmi bene che il male, che mi tiene in letto dal dì che difinammo insieme nella illustre casa del Magnifico M. Marco Zeno fino a mo' non me lo lascia godere peroche ho perduto di modo il gusto, che nè anco la forza ch'io faccio a me stesso per rihaverlo, può farmi torre solo un boccone, nè credo che si possa trovare cosa che la natura produca in questi paesi che non mi sia stata posta innanzi, eccetto il capretto, per non nascerne in cotesta stagione » (1).

E nella lettera che Guidobaldo Duca d' Urbino gli dirige da Castel Durante il VI settembre 1544, firmandosi: « Il vostro come figliolo Duca d'Urbino », in risposta alla sua dell'agosto qui sopra citata : « Magnifico Messer Pietro » gli scrive,« M'è molto dispiaciuto intendere che il male vi molesti ancora di quel modo che per la vostra de' XXIII m'avete scritto, dil che mi doglio con esso voi, confortandovi ad avervi buone cure, attendendo a guarire così bene dalla vostra Quartana, come son guarito io molti giorni sono della mia Terzana, preparandovi di venire a Pesaro questo Carnevale, che non potrete se non ricevere giovamento dalla mutatione dell'aria » (2).

Ecco la lettera « Al facetissimo Trippa » che non si trova fra le altre dell' Aretino raccolte nei sei libri delle sue Lettere, e quella, che credo pure non mai ristampata, del Marcolini « Al Signore Sperone », le quali potranno servire a ulteriore spiegazione del titolo del volumetto.

Al Facetiffimo Trippa,

Patritio Cantianenfe Staffieri et ogni cosa,

Del fenza Mendo Duca d'Urbino.

lo mi credo fratellin caro, che tu habbia intefo nel modo che otto mesi a la fila m' ha concio quella Quartana ladra, che per vedermi continuamente innanzi di quante forti vivăde si imaginò mai la gola, mi fa effere qualche cofa peggio che nō è ser tantalo. Imperò chegli alzarebbe il fianco da maladetto fenno cafo che poteffe dar di becco nel manicare, che per istigation del Diavolo gli aranca gli fcarpina e gli tralipa da la bocca come nel tentarla il Demonio tralipò fcarpinò et arancò la riformata coforte di Don Atanafio. Hor per intrare nel mio prepofito Dico, che la mattana, che per via e de la fua fastidiofa dapocaggine, e per mezzo di cofì beftiale infirmită tiemmi afaffinata la fantasia, mi ftrasginò l'altra notte el penfaměto ne la ricordanza di certe canzoneffe còtadine biscantate in Verona (3), nel chiostro di San Mathio

(1) Il terzo libro delle Lettere etc., cit. c. 44. (2) Lettere scritte etc. cit. Lib. II, c. 221.

(3) L'Aretino era a Verona « con il buono d'Urbino Duca » nel luglio del 1543 « per basciare il ginocchio sacro alla mirabile Maestade di Cesare » (V. Il terzo libro delle Lettere, ecc. cit. Lett. al Signor Montese, c. 60), quando il Duca, Governatore Generale della Repubblica, vi era andato per incarico di essa ad accoglier l' Imperatore Carlo V nel suo passaggio. Pare che Messer Pietro vi si trattenesse poco, perchè in una Lettera a M. Titiano « insopportabile è il martello » egli scrive, « ch'io ho del Canal Grande; nè metto mai piede in la staffa che non sospiri il riposo dell'agio delle gondole. Et pero, s'io ci ritorno, s'io mi c'imbuco, s'io mi ci ripianto, Imperatori a lor posto, che io per me in quanto al mondo non iscapperò così in fretta. Forni capanne et spelunche mi paiono l'altre terre a petto all'alma, inclita et adorabile Venetia....

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