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Salvestra e morta conobbero. Di che tutte le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà, ricominciarono il pianto assai maggiore. Sparsesi fuor della chiesa tra gli uomini la novella, la quale, pervenuta agli orecchi del marito di lei, che tra loro era, senza ascoltare o consolazione o conforto da alcuno, per lungo spazio pianse. E poi ad assai di quegli che v'erano raccontata la istoria stata la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si seppe la cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolse. Presa adunque la morta giovane, e lei così ornata come s'acconciano i corpi morti, sopra quel medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente pianta, in una medesima sepoltura furono spelliti amenduni: e loro, li quali amor vivi non aveva potuto congiugnere, la morte congiunse con inseparabile compagnia.

NOVELLA NONA.*

Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui et amato da lei: il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita.

Essendo la novella di Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne, il Re, il qual non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi altri a dire, incominciò: Émmissi parata dinanzi, pietose donne, una novella alla qual, poi che così degli infortunati

* Prova autentica della verità di questo successo del Rossiglione e del Guardastagno si legge nella vita che di questo ultimo ha tradotta dal Provenzale il Crescimbeni, dove si trova narrato poco meno che parola per parola. Era questo Guardastagno famoso poeta provenzale, e chi lo chiama Capestain, chi Cabestain, e chi Casteign, e il Crescimbeni lo nomina italicamente Cabestano. I suoi bei versi innamorarono la moglie del Rossiglione, e cagionarono la sua morte; ciò che il Petrarca spiega dicendo: e quel Guiglielmo

Che per cantar ha 'l fior de suoi di scemo.

casi d'amore vi duole, vi converrà nonen mo di compassione avere che alla passata, per ciò che da più furono coloro a' quali ciò che io dirò avvenne, e con più fiero accidente che quegli de' quali è parlato.

Dovete adunque sapere che, secondo che raccontano i Provenzali, in Provenza furon già due nobili cavalieri, de' quali ciascuno e castella e vasalli aveva sotto di sè, et aveva l' uno nome messer Guiglielmo Rossiglione, e l'altro messer Guiglielmo Guardastagno; e per ciò che l'uno e l'altro era prod'uomo molto nell' arme, s' amavano assai, et in costume avean d'andar sempre ad ogni torniamento o giostra o altro fatto d'arme insieme, e vestiti d'una assisa. E come che ciascun dimorasse in un suo castello, e fosse l' un dall' altro lontano ben diece miglia, pure avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non ostante l'amistà e la compagnía che era tra loro, s'innamorò di lei, e tanto, or con uno atto et or con uno altro, fece, che la donna se n'accorse, e conoscendolo per valorosissimo cavaliere, le piacque, e cominciò a porre amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, nè altro attendeva che da lui esser richiesta: il che non guari stette che avvenne, et insieme furono et una volta et altra, amandosi forte. E men discretamente insieme usando, avvenne che il marito se n'accorse, e forte ne sdegnò, in tanto che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio convertì; ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevano saputo tener il loro amore, e seco diliberò del tutto d'ucciderlo. Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si bandì in Francia, il che il Rossiglione incontamente significò al Guardastagno, e mandògli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse, et insieme diliberrebbono se andar vi volessono e come. Il Guardastagno lietissimo rispose, che senza fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui. Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser venuto di poterlo uccidere; et armatosi il dì seguente, con alcuno suo famigliare montò a

cavallo, e forse un miglio fuori del suo castello in un bosco si ripose in guato, donde doveva il Guardastagno passare: et avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due famigliari appresso disarmati, sì come colui che di niente da lui si guardava; e come in quella parte il vide giunto dove voleva, fellone e pieno di mal talento con una lancia sopra mano gli uscì addoso gridando: Tu se' morto; et il così dire et il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa. Il Guardastagno, senza potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia, cadde, e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi ciò fattó s'avesse, voltate le teste de' cavalli, quanto più poterono si fuggirono verso il castello del lor signore. Il Rossiglione smontato, con un coltello il petto del Guardastagno aprì, e colle proprie mani il cuor gli trasse) e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia, commandò ad un de' suoi famigliari che nel portasse; et avendo a ciascun comandato che niun fosse tanto ardito che di questo facesse parola, rimontò a cavallo, et essendo già notte, al suo castello se ne tornò. La donna, che udito aveva il Guardastagno dovervi esser la sera a cena, e con disidéro grandissimo l'aspettava, non vedendol venire si maravigliò forte, et al marito disse: E come è così, messere, che il Guardastagno non è venuto? A cui il marito disse: Donna, io ho avuto da lui che egli non ci può essere di qui domane; di che la donna un poco turbata rimase. Il Rossiglione, smontato, si fece chiamare il cuoco e gli disse: Prenderai quel cuor di cinghiare, e fa che tu ne facci una vivandetta, la migliore e la più dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in una scodella d'argento. Il cuoco presolo, e postavi tutta l'arte e tutta la sollicitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone spezie assai, ne fece uno manicaretto troppo buono. Messer Guiglielmo, quando tempo fu, con la sua donna si mise a tavola. La vivanda venne, ma egli per lo malificio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò. Il cuoco gli mandò il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sè mostrando quella sera svogliato, e lodògliele molto. La donna,

che svogliata non era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il mangiò tutto. Come il cavaliere ebbe veduto che la donna tutto l' ebbe mangiato, disse: Donna, chente v'è paruta questa vivanda? La donna rispose: Monsignore, in buona fè ella m'è piaciuta molto. Se m'aiti Iddio, disse il cavaliere, io il vi credo, nè me ne maraviglio, se morto v'è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque. La donna, udito questo, alquanto stette; poi disse: Come? che cosa questa che voi m' avete fatta mangiare? Il cavalier rispose: Quello che voi avete mangiato, è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno, il qual voi, come disleal femina, tanto amavate; e sappiate di certo che' egli è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco avanti che io tornassi, del petto. La donna, udendo questo di colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da domandare; e dopo alquanto disse: Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare; chè se io, non sforzandomi egli, l' avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli, ma io ne doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d'un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada. E levata in piè, per una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si lasciò cadere. La finestra era molto alta da terra, per che, come la donna cadde, non solamente morì, ma quasi tutta si disfece. Messer Guiglielmo, vedendo questo, stordì forte, e parvegli aver mal fatto; e temendo egli de' paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via. La mattina seguente fu saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata: per che da quegli del castello di messer Guiglielmo Guardastagno, e da quegli ancora del castello della donna, con grandissimo dolore e pianto furono i due corpi ricolti, e nella chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur posti, e sopr' essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti v'erano, et il modo e la cagione della lor morte.

NOVELLA DECIMA.*

La moglie d'un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usuraj se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla Signoria sè averlo messo nell' arca dagli usurieri imbolata, laond' egli scampa dalle forche, et i prestatori d' avere l'arca furata sono condennati in denari.

Solamente a Dioneo, avendo già il Re fatto fine al suo dire, restava la sua fatica, il quale, ciò conoscendo, e già dal Re essendogli imposto, incominciò: Le miserie degli infelici amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno già contristati gli occhi e 'l petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne venisse. Ora, lodato sia Iddio che finite sono (salva se io non volessi a questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Iddio mi guardi), senza andar più dietro a così dolorosa materia, da alquanto più lieta e migliore incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che nella seguente giornata si dee raccontare.

Dovete adunque sapere, bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un grandissimo medico in cirugía, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna, il quale, già all' ultima vecchiezza venuto, avendo presa per moglie una bella e gentil giovane della sua città, di nobili vestimenti e ricchi, e d'altre gioje e tutto ciò che ad una donna può piacere, meglio che altra della città teneva fornita; vero è che ella il più del tempo stava infreddata, sì come colei che nel letto era mal dal maestro tenuta coperta. Il quale, come messer Ricciardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, così costui a costei mostrava che

*Maestro Mazzeo della Montagna vien creduto quello stesso che da Scipione Mazzella, istorico napolitano, dicesi che visse in Salerno, e che tra il 1309 e il 1342, ad istanza del re Roberto, scrisse le Pandette della Medecina, le quali furono in più lingue tradotte; e che Pasquale Gallo e Pietro Castellano nelle Vite dei medici illustri dicono Matthæus Sylvaticus Mantuanus; avvertendo che Matteo e Mazzeo era in quei tempi lo stesso, e che Mantuanus sia errore, e debba dirsi Montanus.

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