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ma neppur qui nulla approdando, da capo il ritrasse alla mercatura e mandòllo a Napoli, quando era in su' venti anni. Colà regnava il re Roberto, principe accortissimo, la cui fama non sarebbe venuta a noi tanto bella, se a forza di onorare e beneficar gli scrittori e di protegger le lettere le arti non fossesi comprato lodi ed encomj. In Napoli ebbe familiarità co' più famosi letterati e scienziati di quel tempo, e questa fu a lui ottima scuola. Veduta poscia la tomba di Virgilio, sentì vie più infiammarsi all' amor delle lettere, e tutto in quelle si diede e vie più ancor infiammòvvelo l'assister all'esame del Petrarca, fatto dal re Roberto in persona, prima che esso Petrarca fosse coronato poeta nel 1341. In quel torno si innamorò di Maria (cui egli chiama Fiammetta) discesa da' conti di Aquino e tenuta figliuola dello stesso re Roberto; il qual amore alienòllo in tutto dalla mercatura, tanto che in quell' anno scrisse a petizione di essa Maria il Filocopo, e cominciò la Teseide, che pure a lei dedicò. La prima di queste due opere è in prosa, e non è altro che il racconto de' casi di due amanti, Florio e Biancafiore: essa è lavoro giovanile, e da persona tuttora inesperta: vi è abusata stranamente la mitología: vi ha di gravi errori geografici, ed è lunga e nojosa; ma con tutto ciò non sono in essa rari que' lampi d'ingegno, e que' tratti di splendido dettato, che ti fanno già sentire lo scrittor del Decameron. La Teseide è cosa più bella e di assai maggior conto: essa è un poema in ottava rima, dove sono descritte, non tutte le imprese di Teseo, ma la sola guerra contro le Amazzoni, e il rapimento di Ippolita. Se questo poema non è il primo che si scrivesse in ottava rima (como per molto tempo si è creduto), perchè il Febusso e Breusso è di esso più antico assai, va però molto innanzi a tntti gli altri poemi di quel tempo, e per la bella disposizione, e per la eleganza, e per lo stile, e per le immagini poetiche: anzi dirò che è il solo degno di esser chiamato poema, e che per questo lato è il primo che possa vantare l'Italia; e se non aggiunge neppur a mille miglia alla perfezione dell' Orlando e della Gerusalemme, può ben dirsi essere stato il lor precursore.

In questo mezzo il padre di Giovanni, ormai vecchio e cagionoso lo rivolle a Firenze; e non si può dire quanto la Fiammetta se ne addolorasse: com' ella si rodesse di gelosía, lui lontano: come, disperata per il suo abbandono, odiasse la vita, e si lasciasse ire ad ogni eccesso di dolore. Nè il Boccaccio funne men dolente di lei; se non che poscia, a distrarlo alquanto dagli amori valsero le commozioni civili accadute sotto la tirannía del Duca di Atene, alla cui cacciata il Boccaccio trovossi presente, e ne scrisse il racconto nel libro IX degli Illustri infelici. Ma ben poco restò sopito il suo amore, e quel breve sonno gliel fece ridestare più fiero che mai. A divertire per tanto la noja e il dolore dell' esser lontano dalla sua Fiammetta, diessi a comporre l' Ameto o Comedia delle ninfe fiorentine, ove, sotto colore di parlar degli amori d' Ameto rozzo cacciatore con Lia vaga ninfa, ragiona di amori fiorentini, e più che di altri dell' amor suo con la Fiammetta. L'opera, come opportunamente nota il Salvini, è una gentile allegoría, dacchè per le cinque ninfe sono figurate cinque virtudi, che l'una appresso l' altra penetrando nel cuore di Ameto, di rozzo lo fanno gentilissimo. Affine di render più vaga la narrazione la compose di versi e di prosa, facendosi egli imitatore di Petronio e di Boezio, come di lui si feron poscia imitatori il Bembo negli Asolani, il Sannazzaro nell' Arcadia, e il Menzini nell' Accademia tusculana. Tale sfogo per altro non bastò al nostro Giovanni, al quale pareva sempre più grave lo stare in Firenze; per forma che se ne tornò a Napoli nel 1345, quando suo padre, vedovo e oggimai vecchio, prese la seconda moglie. Colà trovò cambiata ogni cosa: morto il re Roberto, il regno era nelle imbelli mani di Giovanna, che l'amò e il protesse, e di Andrea suo marito, il cui tragico fine si trovò a vedere Giovanni, e si trovò in mezzo a tutti i gravi scompigli di quella terra infelice. Par probabile che di poco tornato a Napoli, si mettesse a scrivere, per rendersi più amorevole la sua donna, l' Amorosa Fiammetta, dove, con infiammate parole, e con accesissime immagini, descrive la dolente istoria della loro separazione, e le smanie e i dolori della abbandonata amante. Ma trasferitasi ella in Baja,

e preso il Boccaccio da fiera gelosía, cercò di lusingarne la vanità presentandole un suo poema amoroso titolato il Filostrato, cui esso accompagnò con lettera amorosissima: e non guari di poi compose, mosso pur da amore, due altri lavorì poetici, l' Amorosa visione cioè, e il Ninfale fiesolano, come di questi anni aveva composto gran numero di poesíe liriche. Nel Filostrato racconta la storia degli amori di Troilo figliuolo di Priamo con Briseide figliuola di Calcante', ed anch' esso, come la Teseide, è in ottava rima, ed è venuto anche in minor fama che quella. Nell' Amorosa visione finge il Poeta che una intelligenza celeste il guidi in sogno nel tempio della mondana felicità, dove prima vede il trionfo della sapienza; poi quel della gloria, della ricchezza, della fortuna; e finalmente entra nel giardino d'amore, e ammiravi le belle donne che erano a quel tempo in Firenze, in Napoli e nel rimanente d'Italia, facendone il novero con molta compiacenza. Le lodi maggiori, com'è facile l'indovinare, vanno alla Fiammetta; e quasi ciò non bastasse, fe tal poemetto a modo di acrostico, nascondendo nelle prime lettere de' capi versi di ogni terzetto (chè l'opera è in terza rima) due sonetti ed una canzone, che servono come dedicatoria. Nell' Amorosa visione il Boccaccio si porge versificatore più leggiadro e più efficace che altrove; e vi si vedono continue imitazioni dalla Divina Commedia, e dalle altre opere di Dante, delle quali egli avea già cominciato a far sua delizia. Versificatore franco e leggiadro non solo, ma anche elegante e immaginoso poeta si mostra il nostro Autore anche nel Ninfale fiesolano, poemetto amoroso, pur esso in ottava rima, stimabile sopra gli altri due per ricchezza di lingua, per eleganza di stile, e per quella schietta semplicità che è il vero cinto di Venere ad ogni opera letteraria. Nelle poesíe liriche il Boccaccio fu men che mediocre, e lasciando stare il Petrarca, non possono senza arrossire stare accanto nemmeno a quelle di messer Cino da Pistoja.

In questo mezzo venne la peste d' Oriente in Italia, sopra ogni altra città della penisola disertò la belle Firenze. Passato il flagello, venne in animo al Boccaccio di raccorre quelle novelle che già aveva composte, di aggiungerne altre

fino al numero di cento, e di formarne un volume, immaginandole essere state raccontate da una brigata di giovani donne e di gentili uomini usciti da Firenze e riparatisi in amena campagna per fuggir la pestilenza, la cui eloquente splendida descrizione mise innanzi al volume da esso intitolato Decameron. Questa è l' opera a cui il Boccaccio va debitore principalmente della sua gran fama. La descrizione delle deliziose campagne di Firenze, ove si erano riparati questi allegri eremiti, come pur quella delle lor passeggiate, de' loro sollazzi, de' loro banchetti, diedero, come ben osserva il Sismondi, dieder agio all' autore di mostrar tutte le ricchezze dello stile più nobile e più grazioso. Le novelle, continua esso Sismondi, che sono variate con arte infinita, in quanto al subjetto e al modo di trattarlo, dalle più commoventi e più tenere sino alle più facete, e sventuratamente sino alle più licenziose, sono splendido e certo testimonio del suo mirabile ingegno, e della sua eccellenza nello scrivere. Egli sa acconciarsi ad ogni genere di subjetti anche i più diversi, appropriando a ciascuno lo stile e il colore che più gli conviene. Qui è comico, qua tragico: ora è popolare e familiare al tutto: ora si inalza alla più sublime eloquenza: narra, ragiona, descrive; e il suo stile è sempre vario, sempre vivo, sempre naturale; e da queste Novelle si è spesso attinto o la maniera di raccontare o il soggetto a' proprj lavori dai grandi uomini stranieri, come fecero Molière, La Fontaine e molti altri.

Nel tempo che il Boccaccio dava opera alla pubblicazione del Decameron, sopravvenne che la regina Giovanna fuggì di Napoli, quando mosse al conquisto del Regno Lodovico di Unghería, correndo alla vendetta di Andrea suo fratello. Egli per altro tra per il suo aspro e grave procedere, e per il suo spogliar degli ufficj i grandi e gli affezionati di Giovanna, venne ben presto in odio a' Napoletani, che richiamaron lei riparatasi in Provenza, la qual tornata fu accolta con giubilo, ed uno de' primi suoi atti fu il creare suo Gran Siniscalco l' Acciajuoli. Il Boccaccio fu presente a queste avventure tutte, e come accettissimo alla Regina ne pianse gl' infortunj nella quarta e quinta delle sue ecloghe, e mostrò nella sesta il suo

giubilo per il ritorno di lei. Ma non andò guari che la morte di suo padre gli diè cagione di tornare a Firenze, e ciò fu nel 1350, nel qual anno strinse amicizia col Petrarca, e per questa si sentì confortato a studj più gravi. Da qui innanzi lo troviam parimente onorato di pubblici e gravissimi ufficj, e caldo amatore del buono stato della sua patria: propagatore di ogni sua gloria, era innamoratissimo del divino Alighieri, a cui non potendo alzare nè statue nè monumento, lasciò un degno monumento di affetto scrivendone la Vita, che è una elegantissima prosa, e che spira da ogni parola amore e venerazione al sommo Poeta, se non quando vi ha mescolato senza troppa critica tutto quello che se ne raccontava di più maraviglioso. Ma ciò che più d'ogni altra cosa onora l'autore di questa Vita è la eloquente invettiva ch' egli fa ai Fiorentini, rampognandoli della loro ingratitudine verso la memoria di tanto uomo. In questo mezzo fu mandato ambasciatore in Romagna per trattar lega con gli Ordelaffi, co' Malatesti e co' Polentani: tornato dalla sua ambasciata fu operatore che il Petrarca venisse chiamato a legger nello Studio fiorentino, e che ricompratogli il patrimonio de' suoi maggiori, gli fosse dal Comune restituito. Al Boccaccio medesimo fu dato il carico di recargli il decreto in Padova, ed il Petrarca parve accettare; per che tutto lieto esso Boccaccio tornava a Firenze: ma poco di poi l'amico suo mutò proposito, o fosse per natural mobilità, o per animo tuttor avverso a Firenze.

I Fiorentini frattanto, minacciati dal Visconti, mandano Giovanni a sommuovere in loro ajuto Lodovico di Baviera marchese di Brandeburgo, figliuolo di Lodovico il Bavaro, il qual mandò un suo capitano a trattar co' Fiorentini, e non approdò nulla per soverchie pretensioni. Tuttavía al Visconti non venne fatto di vincergli, tenuto in rispetto come fu tal Papa e da Carlo IV imperatore: il qual Carlo IV mandò poi, nel 1354, ambasciata a Firenze che sarebbe calato in Italia; della qual venuta mal contentandosi i Fiorentini, mandarono al Papa Innocenzio VI il Boccaccio per indurlo ad attraversarla. Ma Carlo pur venne, e giunto in Pisa, gli ambasciatori

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