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quei Comuni era troppo o troppo poco incivilita, per sottomettersi al peso di difendere personalmente la patria; troppo, perchè le industrie e gli agi loro erano pervenuti a tal segno da rendere quel peso grave e dannoso; troppo poco, perchè esso non si poteva ancora distribuire in giusta misura col minore incomodo privato.

Coll'andare del tempo a queste ragioni se ne aggiunse un'altra, e fu, che i venturieri si erano digià riuniti in compagnie, e che codeste compagnie erano diventate tanto potenti, che pareva impossibile farne senza. D'altra parte la diffidenza e la tema continuarono a contaminare le signorie del xv secolo, come avevano contaminato quelle del secolo antecedente. Se i successori di Gian Galeazzo Visconti o di Francesco Sforza avessero avuto vera ambizione, ben avrebbero potuto consolidare ed accrescere in modo certo il principato, cioè sciogliendosi a poco a poco dalla necessità delle soldatesche mercenarie, e rimettendo le armi nelle mani del popolo e della nobiltà.

Ma affinchè una nazione si rechi di buon grado alla guerra, vuole esservi eccitata dall'affezione o dall'utile. Vi andrà altresì costretta a forza; ma la profusione delle pene e dei premii non basterà a rendere vittoriosa una folla di schiavi. Allorchè un popolo da lunga pezza intorpidisce, potrà un tiranno trascinarlo sotto le bandiere, e trattenervelo altresì con una certa disciplina; ma farlo buon guerriero non potrà mai, finchè non gliene inspiri le passioni. Ora queste passioni sono l'amore della patria, della gloria, e delle ricchezze. Di essè le due prime insieme prese fanno di un cittadino un eroe; l'ultima, come mezzo a sti

molare l'uomo di guerra e fargli superare alcune noie, può servire; come fine, è al postulto esiziale.

Nell'amore della patria sovente si raggruppa l'affetto particolare verso la persona o la schiatta, che la regge e rappresenta: nè mai avrà un principe acquistato tanto quanto allora che avrà saputo accordare bene negli animi dei suoi sottoposti l'amore verso la persona sua propria coll'affezione verso il tutto constitutivo della patria. Quanto più il principe avrà saputo interessare i suoi sudditi al pubblico vantaggio, tanto più caldi e più numerosi li troverà alla difesa dello Stato e di se medesimo. Al contrario il caricare di doni e di privilegi una parte od un ceto della nazione per averla fedele ad ogni cenno, e tener queta con essa l'altra parte, è un distruggere le une colle altre le forze naturali dello Stato, per non serbarne poi alcuna contro i nemici esterni. La vera sapienza sta nello sviluppo innocuo e generale di tutte quelle forze, e nel concentrarle naturalmente alla difesa ed all'incremento non meno del trono che della nazione.

Pure a codesto principio, cui l'esperienza di tutti i tempi ha suggellato, non volevano piegarsi i principi italiani del xiv e del xv secolo. Venuti al seggio supremo a forza di usurpazioni, timorosi mai sempre di quelle fazioni da loro a mano a mano lusingate e depresse, dei tre incitamenti testè accennati soffocarono ↓ i due primi, e dell'ultimo ricavarono solo il peggio, abbandonandosi in braccio alle milizie mercenarie, e rivolgendole, non tanto a danno dei nemici, quanto ad oppressione dei popoli. Stolto consiglio, benchè nè

nuovo, nè ultimo pur troppo! (1) avvilire e depravare i sudditi, per timoneggiarli più alla sicura. Così seccarono spontaneamente le sorgenti del proprio potere, così troncaronsi le vie a veraci ingrandimenti; e paghi di comprare a prezzo d'oro e di umiliazioni una stentata esistenza, non dubitarono di preparare ai popoli infiniti mali, ed a se stessi, dopo la perdita dell'onore, quella dello Stato.

Per siffatto modo l'esistenza delle Compagnie di ventura in Italia rimase legata all'esistenza politica di essa; sicchè la storia di quelle è, per così dire, la faccia esterna della Storia d'Italia durante i due secoli summentovati. Che se altrimenti fosse, se l'apparizione delle compagnie di ventura in Italia fosse stato un fatto materiale, come è l'acquisto o la perdita di una battaglia, come è un tremuoto od una pestilenza, il racconto delle loro vicende formerebbe bensi argomento di curiosità, ma non di scienza: e tale esso sarebbe rispetto alla Francia; dove, benchè le compagnie durassero molto tempo ed arrecassero gravi mali, pure tanto poco influirono sopra l'andamento generale delle cose, che, come al loro apparire le forze dello Stato erano o feudali o comunali, feudali o comunali rimasero al loro dileguarsi. Ma in Italia la comparsa delle compagnie di ventura segnò la disfatta della libertà e delle milizie cittadine nei

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(1) « Primus ipse (imperator Gallienus), metu socordiæ suæ, ne imperium ad optimos militiæ transferretur, senatum militia vetuit; etiam adire exercitum......» Aur. Victor, De Cæsarib. cap. XXXIII.

« Clarum inde inter Germanos Frisium nomen dissimulante Tiberio, ne cui bellum permitteret ». Tacit. Annal. lib. IV. cap. LXXIV.

Comuni, segnò la decadenza del sistema feudale nel regno di Napoli, segnò l'innalzamento di nuove signorie, segnò infine un'era novella, dentro la quale il carattere degli Italiani fu grandemente modificato.

II.

Ciò posto, è evidente che le compagnie di ventura non possono avere generato effetti morali e politici tanto loro proprii, che nella generazione di questi non sieno entrate anche molte di quelle cause, le quali determinavano uno stato sociale corrispondente alla esistenza di esse compagnie. Premessa tale avvertenza, che fu già da noi altrove ricordata in un caso simile (1) imprenderemo a svolgere i principali effetti, o risultati, o conseguenze, o vestigia (comunque si vogliano denominare) morali e politici, nella produzione dei quali le compagnie di ventura avrebbero potuto avere qualche parte.

Disse un filosofo, che i popoli sono dapprima governati colla forza materiale, dipoi coll'oro e colla magnificenza, e che per l'ultimo l'ingegno e la virtù ne terranno l'impero. La ferocia dei Barbari soggiogò l'Italia, piantovvi uno Stato, e aperse il campo alla forza individuale. Questa trionfò sotto gli imperatori e nei primordii dei Comuni; finchè Milano, Venezia, Napoli e Firenze, rese dalla felicità del suolo o dalla potenza del traffico o dall'operosità dell'industria riechissime sopra tutta l'Europa, si affezionarono alle ricchezze, e pensarono esser meglio immolarne una parte per comprarsi un vivere tranquillo e fecondo di nuovi guadagni. Assoldaronsi allora le bande di (1) V. parte I. cap. VIII. §. 2. p. 173.

ventura. Che ne avvenne? Quell'attività, che sarebbe stata impiegata nell'esercizio delle armi, si rivolse ai viaggi commerciali, ed alla fabbricazione dei panni e delle sete, si rivolse alle tele ed ai marmi, a investigare codici, a trapiantare in patria la sapienza greca e latina, ed, attendendo che le squadre mercenarie tornassero in città coll'avviso di vittoria e di ingrandimento, levò il velo alla civiltà cresciuta tacita fra le tempeste del medio evo, e viva e splendente mostrolla all'attonita Europa.

Mentrechè adunque i popoli vicini dall'uopo di vegliare alla propria difesa venivano come rinserrati dentro un'angusta cerchia di materiali bisogni, gli Italiani, sciolti mediante un poco d'oro da quella obbligazione, giravano da padroni il Mediterraneo e l'Eusino, facevansi mediatori tra l'Oriente e l'Occidente, e con immenso utile e lustro proprio spingevano avanti la civiltà europea. E veramente se l'Italia avanzò le altre nazioni in questo grande ufficio, pel quale le rimarrà la lode e la gratitudine di tutti i secoli, fu opera senza dubbio di molte cagioni, di essere cioè stata essa medesima sede dapprima della romana civiltà, e quindi della cristiana religione; di essersi di buon'ora sciolta dal sistema feudale e ridotta a Comuni; di avere una postura opportunissima al commercio mediterraneo, ed altre molte che taciamo: ma una di esse fu l'uso sopraccennato delle milizie stipendiarie.

Però codesto splendore di gloria e di ricchezze fu egli tutto ad augumento della felicità dell'Italia in allora e dipoi? Non sarebbe egli stato intrinsecamente più vantaggioso il non assoldare mai compagnie di

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