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nel far guerra erasi spietati per calcolo; chè impiccavansi i difensori delle terre per ottenerle col terrore, abbruciavansene le messi per soggiogarle colla fame. Al contrario oggidì fra i popoli europei, generalmente parlando, le messi si rispettano, nè si impiccano che le spie; perchè poche sono le fortezze, e fisso è il termine della loro resistenza, sicchè qualunque crudeltà tornerebbe inutile e perniciosa.

Se nei giorni nostri si rinnovassero le vicende del conte di Carmagnola, il suo principe lo farebbe arrestare, lo sottoporrebbe ad un consiglio di guerra, permetterebbegli la difesa, e, quando ne uscisse reo, lo manderebbe al supplizio. Venezia, priva di armi sue proprie, sospettosa delle assoldate, che fece ella per assicurarsi del famoso condottiero? con inescusabili simulazioni, con subdole indagini, con barbare torture diede forma di turpe tradimento a ciò, che in essenza poteva essere giusto e necessario. Poco stante elevaronsi uguali sospetti circa al Colleoni (1). Ma fu egli forse accusato, processato e giudicato formalmente? Mai no. Appagandosi di lontani indizii, la repubblica ordinò al Piccinino di avvicinarsegli fintamente colle proprie squadre, assaltarlo all'improvviso, svaligiarlo, ucciderlo, e sperperarne le genti. Il caso impedì, che il disegno avesse pieno successo. Bartolomeo Colleoni, fuggito per miracolo dalle mani dei suoi assalitori, protestò della propria innocenza: il sinistro procedere della repubblica, mentrechè privolla di avere chiara conoscenza del fatto, la coperse dell'onta di un vano tradimento.

Il mezzo che con qualche successo s'impiegava dai (1) V. parte IV. cap. V. §. 1. pag. 160. t. III.

principi in simili casi, era di rivolgere l'un capitano contro l'altro: ma ognun vede a quanto poco onore e vantaggio del governo ciò dovesse riuscire. Oltrecchè non si poteva abbattere un condottiero senza innalzare l'altro, nè innalzare questo senza deprimere se stessi. Perciò fanno pena e schifo le umiliazioni e le condiscendenze, alle quali si sottoponevano i principi per impetrare obbedienza dalle proprie soldatesche. Consumate le ricompense dei titoli, dei denari e dei feudi, donavasi ai condottieri il proprio nome e stemma: quindi ogni nuova condotta, ogni leggiero servigio serviva loro di occasione per domandare e conseguire nuovi privilegi e favori. Alfine quando gli erarii erano esausti, e le spoglie ostili mancavano, davansi loro in preda le proprie terre, e i beni e l'onore dei proprii sudditi.

Avresti allora non senza meraviglia veduto spietati principi, avvezzi a punire nei sudditi con orribili supplizii perfino i sogni e i pensieri, piegarsi umilmente dinanzi a guerrieri di ventura, e lusingarli per venire serviti, e ringraziarli di non essere stati disserviti. «E se mai avete risoluto di farci cosa accetta «<e grata, vi supplichiamo strettissimamente, affinchè <«< colla consueta vostra prudenza disponiate la vostra <«< compagnia a qualche onorata impresa, o a tornare «< nel patrimonio di s. Pietro, o ad entrare nella Marca, « o come piacerà a voi. E di ciò una e due volte sup« plichiamo la magnificenza vostra » (1).

(1) Lettera della repubblica di Firenze a Giovanni Acuto, 16 novembre 1377.- Alla nota XXXI abbiamo riferito alcuni brani di lettere scritte nel XIV secolo dalla detta repubblica ai proprii condottieri. Essi serviranno di prova al lettore.

<< Certi Spagnuoli venturieri, siccome ei mi viene <«<< scritto, sono scorsi a Rivalta di Bornia . . . onde io <«< ne prego la S. V. con quella istanza ch'io posso «< maggiore, che voglia esser contenta d'adoperarsi... <«< che siano restituite le cose rapite . . . e s'Ella pensò <«< mai di farmi cosa, la quale mi debba oltre misura << essere grata, de' venturieri ne prenda quel partito, <«< che le parrà degno a'loro misfatti . . . perchè la <<<< dimostrazione, che in ciò ne farà la S. V., la recherò « a singolarissimo favore. . . .

<< Quando la S. V. potesse ridurre la detta compa« gnia (cioè quella di Giovanni di Preda, che aveva rovi«< nato Capriata luogo amico) altrove, affine che quei «< sventurati terrazzani fossero alleggeriti da que' cari<«< chi, io me lo torrei a piacere particolare, e a ciò « fare prego la S. V. come posso più » (1).

Di questo modo trasmettevano gli ordini ad un soldato loro, capitano di poche centinaia di uomini, la repubblica di Firenze, il doge di Genova, e il duca di Milano.

Non vorremmo però che il lettore si inducesse ad imputare tutti questi disordini immediatamente all'esistenza delle compagnie di ventura. I principi si avvilivano e si pervertivano, perchè erano deboli: erano poi deboli, perchè non sapevano, o non volevano unire l'interesse proprio a quello dei sudditi. Ecco la ragione precipua di tutto ciò. Le compagnie di ventura poi vi avevano la loro parte, come quelle che erano il necessario strumento col quale i principi mantenevano la loro falsa autorità.

(1) Lettera del doge di Genova al Vitelli (Lettere a Vitello Vitelli, p. 82, Firenze 1551).

Del resto le condiscendenze di questi procedevano tant' oltre, che il giacco da venturiero bastava talvolta a ricoprire enormi operazioni. Nel centro di Milano, sotto gli occhi del duca Francesco Sforza, un uomo d'arme del Sanseverino rubava un leggiadro giovinetto, nipote di Francesco Filelfo, letterato celebratissimo ed accettissimo al principe; nè solo lo rubava ma ai suoi piaceri se lo teneva di forza in casa prigioniero : eppure nessuna giustizia si elevava alle grida dei congiunti, all'infamia del fatto (1). Un Francesco Maria della Rovere uccideva di sua mano il cardinale di Pavia, legato pontificio, e la prima persona dopo il papa: eppure rimanevane ai servigi. Un Orazio Baglioni scannava a sangue freddo Gentile e Galeotto suoi congiunti arresisi alla Lega, di cui egli era capitano: eppure non ne aveva altro che un leggiero rabbuffo. Gridavane il Machiavelli, gridavanne gli storici ed i filosofi (2), strillavano i popoli: ma la

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(1) Rosmini, Vita del Filelfo, t. II. doc. 29.

(2) « Nè s'accorgono le repubbliche e i principi moderni «< che così fatte perfidie e scelleraggini, che a' loro soldati «< comportano, ciò altro non essere che invitargli a far con<«<tro di loro, ogni volta che n'abbiano occasione, il me<< desimo o peggio: e se dicessero che, o per la debolezza loro, o per la potenza de' generali, avendo essi l'arme in <«< mano, nelle quali ogni cosa consiste, bisogna che, vogliano « o no, soffrano queste e mille altre indignità, direbbono << vero; ma come questo conoscono, così conoscere ancor « dovrebbono, che nè principati chiamare, nè repubbliche <«< si possono quelle, le quali dell'una mancano di quelle due principali parti, delle quali tutti i reggimenti politici ne<«< cessariamente composti sono. E di vero non è senza gran<«< dissima meraviglia, che gli uomini tanto da una corrotta << usanza trasportare si lascino, ch'eglino si facciano a cre

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piaga era fatta. Che se qualche esempio di giustizia fu dato, fu dato specialmente dalle repubbliche, dove la massa del popolo vedeva e seguitava senz'altri fini direttamente il giusto come avvenne, quando Firenze condannava a morte il Puccini, imprigionava Otto da Montauto, e confinava Girolamo d'Appiano, tutti e tre convinti di gravi eccessi (1).

Del resto niuno dei principi italiani riassunse sia nella vita interiore sia nell'esterna codesti miserabili risultati più pienamente di Ludovico il Moro duca di Milano; sotto il quale il bel corpo dell'italiana indipendenza restò rotto e guasto irremissibilmente. Nacque da Francesco Sforza: assistè in gioventù alle sregolatezze del fratello Galeazzo Maria, e quindi al meritato di lui scempio. Morto Galeazzo, cospirò cogli altri fratelli e con Roberto da Sanseverino (2), per rapire le redini del governo alla vedova duchessa Bona. Andato a male il disegno, fuggì, fu rilegato, ritornò armata mano, e rientrò in Milano abbandonando i compagni: quindi perseguitò chi gli era stato avverso, rimosse chi gli era stato favorevole, tolse la reggenza alla duchessa, e regnò sotto il nome di un nipotino.

Pervenuto così al potere, rivolse l'animo ad assodarlo ed estenderlo, senza però smettere mai le solite arti d'uomo subdolo e debole. Sotto colore di assicurare il dominio al nipote, si impadroni delle fortezze

«< dere di potere o miglior fede trovare, o maggiore amore « negli strani che nelli proprii cittadini.... » (Varchi, Storie, t. I. 247).

(1) Varchi, Storie, t. II. p. 284.

(2) V. sopra, parte IV. cap. VI. §. IV. t. III.

p. 218.

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