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secolo di quasi continua guerra, cioè dalla morte di Gian Galeazzo Visconti suddetto al trattato di Lodi, le potenze d'Italia ritrovaronsi tutte, eccetto Venezia, pressappoco cogli stessi confini di prima. Cambiò Milano di principi, perchè la schiatta dei suoi antichi dominatori si estinse: crebbe la repubblica di Venezia, specialmente sotto il dogato del Foscari; ma Brescia e Bergamo, Padova e Verona furono i frutti, anzichè della virtù propria militare, dei disordini interni altrui. Del resto ognun sa, che le piccole signorie delle Marche e della Romagna si mantennero in vita soprattutto, perchè coloro che le occupavano erano condottieri, e vivevano alle spese dei maggiori principi; cosicchè le ricchezze di Milano, di Roma, di Napoli e di Venezia sostentavono le splendide corti dei Montefeltri, dei Baglioni e dei Manfredi.

III.

Ora codesto politico equilibramento durato circa due secoli fu egli essenzialmente vantaggioso alla italiana civiltà?

Fu già più volte ripetuto, e non senza qualche ragione, che la divisione dell'Italia in varii Stati ne affrettò il dirozzamento. Ma tal massima debb'essere ricevuta molto strettamente. Noi non crediamo che il favore dei principi basti a dar vita alle lettere ed alle arti creatrici e rivelatrici della civiltà di un popolo, come non basta a mutare alla natura l'eterno suo ordine. L'atmosfera, entro la quale spuntano e fruttificano quelle piante maravigliose, è tutto lo stato sociale, morale e intellettuale della nazione; e questo, per quanto possa il principe modificarlo, rite

nerlo e spingerlo avanti, ha sempre una parte indipendente affatto da esso lui. Potrà il principe promuovere opere di fatica, come di risuscitare lingue e codici ed illustrare autori; potrà ancora favorire l'incremento delle arti creatrici; ma non potrà mai far nascere a suo piacimento un poema, come l'Orlando, od un quadro, come la Trasfigurazione, quandochè il loro autore non trovasse nelle grandi passioni e credenze del suo paese del suo secolo l'esca propizia a cui accendere la propria immaginazione.

In fatti, se consultiamo la storia delle lettere e delle arti in Italia, troviamo stupende glorie dalla declinazione del xi alla metà del XIV secolo; poscia silenzio; quindi studii utili e faticosi; la favella letteraria ridiventata latina, gli alti affetti nazionali e cristiani muti o stravolti in grette imitazioni dell'antico: bensi alla fine del mille quattrocento il Colombo e l'Ariosto aprono il campo ai miracoli dell'ingegno italiano.

Esaminando parallelamente le condizioni politiche dei medesimi tempi, miriamo le grandi passioni dei Comuni italiani estinguersi alla metà appunto del xiv secolo, quando la tirannide si adagiava ne' suoi seggi di ferro, e le milizie cittadine cedevano il luogo alle mercenarie; quindi insieme cogli studii freddi dell'antichità succedere le monotone imprese delle compagnie di ventura; e intanto il popolo non vedere una causa per cui sospirare, non beni cui desiderare, e stringersi neghittoso nella sua inermità. Finalmente le grandi guerre e invasioni degli stranieri in Italia, l'introduzione di un nuovo diritto europeo, di nuove armi e di eserciti nazionali, i rapidi mutamenti di dinastie e di dominazioni, le incursioni dei

Turchi, i disordini religiosi, lo scoprimento di un nuovo mondo, risuscitano l'animo italiano e gli danno tale scossa, che ne sortono impareggiabili faville di lettere e di arti. Questi ne furono i veri incitamenti; non già la protezione dei principi, la cui parte in ciò fu, come sarà sempre, secondaria.

Bensì, se l'Italia, invece di obbedire alle voglie di infiniti signori e condottieri, si fosse verso il 1550 ordinata in pochi e vasti Stati, se quindi grandi guerre, grandi trionfi e grandi sventure avessero corroborato gli animi dei principi e dei sudditi, e portatili a forti cose, non sembra egli probabile che l'intervallo di preparazione trascorso tra la civiltà del 1500 e quella del 1500 sarebbe stato più corto, e più prestamente a Dante ed a Giotto sarebbero sottentrati Tasso e Michelangelo? A chi va adunque dicendo, avere la moltitudine dei principati italiani agevolato gli studii e favorito le lettere e le arti, si potrebbe replicare che codesto vantaggio fu conseguito in modo secondario, e tutto a discapito della letteratura viva e creatrice, e del morale della nazione; il qual morale si compone non meno dei privati affetti di odio e di amore, che dei pubblici sensi che uniscono cittadino a cittadino, e provincia a provincia.

Un utile però venne prodotto senza dubbio da quella divisione del potere politico, e fu, che la impotenza dei principi giovò non di rado alla indipendenza del pensiero. Talora infatti lo Stato vicino servi di asilo al poeta perseguitato, talora il disordine delle pubbliche instituzioni presso certe signorie valse allo scrittore molto più che la tirannica libertà presso certe repubbliche; quantunque tutto ciò non iscam

passe il Galileo della tortura, nè il Tasso dal carcere, né Pandolfo Collenuccio dal laccio.

Del resto gli svantaggi degli Stati piccoli sono troppo noti al mondo, perchè noi ci arrestiamo qui ad enumerarli. Questo è il principale motivo, per cui la storia politica d'Italia riesce non meno difficile a scriversi che arida ad apprendersi; imperciocchè in essa nè la rarità dei fatti alleggerisce il racconto, nè la varietà e grandezza loro gli concilia interesse. Carlo Botta trovò maggior copia di lettori, narrando le imprese degli stranieri nell'Italia del 1500, le brighe del Concilio, e i quasi privati fatti dei Farnesi e dei Medicei, che non lo storico delle repubbliche italiane, raccontando le guerre combattute sotto Gian Galeazzo e Filippo Maria Visconti. Ma quegli aveva per sè, oltre il proprio pregio di scrittore facondo ed italiano, da una parte la importanza delle quistioni religiose che si trattavano a Trento ed echeggiavano sino alle Indie; dall'altra la grandezza delle nazioni che in Italia venivano a cimento con forze considerabili, e la possibilità di internarsi nei misteri delle corti e narrarli drammaticamente. Al contrario lo storico ginevrino premuto dalla moltitudine dei fatti, e impossibilitato a vestirli di quelle particolarità che la lontananza dei tempi velò per sempre, deve, come il nocchiero della favola, rivalicare molte volte lo stesso guado, traghettando alle rive della storia uomini più diversi di nome che di carattere e di gesta.

Noi pure sentimmo questa fatale necessità, e con tanto maggior terrore, quantochè il Sismondi aveva in suo favore la potestà di mescolare alle confuse e fredde narrazioni politiche e guerresche la storia del

l'italiano incivilimento: mentrecchè a noi spettava l'ufficio di descrivere specificatamente le azioni e l'indole dei condottieri, epperciò di rintracciare le particolarità militari dei tempi, col tacere le quali trascureresti l'essenza del tuo subbietto, e col narrarle correresti rischio di venire, come tedioso, ributtato.

IV.

Restringeremo in poche pagine le cose più importanti che ci restano a dire rispetto alle vestigia e conseguenze morali e politiche delle compagnie di ventura: molte altre cose tralascieremo, sia perchè di minor momento, sia perchè tali che il seguito stesso della nostra narrazione debb'essere bastato a metterle, senz'altro ragionamento, in evidenza.

Abbiamo già altrove notato la ferocia, colla quale conducevansi le guerre ai tempi dei Comuni italiani. <«< Tutti quelli ch'erano presi (narra un cronista << parlando dell'assedio posto a Lucca dai Pisani << nell'anno 1341) erano dimozzicati, così femine co<«<< me uomini e fanciulli innocenti: a cui tagliavano <«<le mani, a cui li piedi, a cui cavavano gli occhi, « facendone maggiore strazio che far si poteva » (1). Ciò dalla natura dei tempi, ciò dagli odii reciproci, ciò dalla necessità medesima delle cose era inspirato. Infatti era tutta una città che contro un'altra insorgeva; e, siccome ai vinti erano preparate le estreme miserie, così con estremo ardore, e sovente sino all'ultimo sangue si combatteva, senza dare nè ricevere misericordia: i pochi prigionieri maceravansi nei tormenti.

(1) Istorie pistolesi, p. 482 (R. I. S. t. XI).

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