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la cui universalità teneva luogo dell'antica grandezza di Roma, perdette la Germania, l'Olanda, l'Inghilterra e qualche porzione della Francia e della Svizzera: niuna patria bandiera sventolò più nel centro della penisola, sotto la quale conseguire onore o morte: ai più risoluti appena fu lecito militare sotto insegne e capi tedeschi, spagnuoli o francesi: à questi furono serbati gloria, gradi e potenza, a noi fatiche, servitù, rimproveri e per ultimo premio, se non persecuzioni, un poco di denaro e titoli vani, non potere, non contentezza di cuore.

Modena, Ferrara, Parma e Mantova furono per qualche tempo gli asili, nei quali l'ingegno italiano, scacciato da Napoli e da Milano e quasi premuto da due opposte forze, si ricoverò. Ma non durovvi a lungo l'influenza straniera invase pure quegli asili, e, quasi fatale necessità, tutti gli involse in una comune dipendenza. Rimasero tre campi meno offesi, Venezia, Firenze e il Piemonte.

Due glorie aveva Venezia coltivato: le armi marittime e il commercio. Ora questo, benchè a suo malgrado, era per tramontare: le armi a stento bastavano contro i Turchi quasi piuttosto per vendere a più caro prezzo la propria caduta, che per ottenere vittoria. I propugnacoli di Rodi, Cipro, Negroponte e Candia dopo straordinarii sforzi di virtù venivano superati: combattessi nella Morea; ma quanto più si avvicinavano le armi ostili, tanto più manca7 ottobre vano le forze per rintuzzarle. A Lèpanto si raccolsero, per così dire, ad estremo conato, i più generosi Italiani. Contro il parere degli Spagnuoli, Marcantonio Colonna stette col Serbelloni risoluto a voler dar

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battaglia; e il suo trionfo fu l'ultimo che si celebrasse

in Roma (1).

L'anno dopo, trattandosi di rinnovare la spedizione contro i Turchi, accorrevano di nuovo sulle navi i gentiluomini italiani; sicchè soltanto da Napoli ne esciva una schiera di 500 (2). Tomaso Morosini poi periva difendendo vittoriosamente la sua nave da quaranta nemiche. Salito sul tavolato, mostrò alla sua gente i Musulmani, che a voga ed a vela si appressavano, e «< amici, sclamò, qui bisogna che moriamo tutti colle armi in pugno: dal combattere ricaveremo, se non vittoria, vendetta; dall'arrenderci, vergogna, schiavitù e forse anche morte ». Detto fatto un'ora non bastò a 40 navi per impadronirsi di quella del Morosini, e due galeazze sopraggiungendo la salvarono (3).

Tomaso Costanzo aveva 17 anni, e capitanava una compagnia di venturieri sopra una nave veneta, quando questa incappò nella flotta turca. Era il resistere pressochè pazzia, ma gli Italiani deliberarono di resistere. Un colonnello Buonagiunta, che si trovava a bordo ammalato, si fece portare fra i combattenti per morire con loro: un capitano Antonio, messasi sopra l'armatura una camicia per venir meglio riconosciuto, si lanciò con due spade nella mi

(1) Nella battaglia di Lepanto il numero degli Italiani combattenti sommava a 12,000, oltre a 3000 venturieri di nobile stirpe, fra i quali Alessandro Farnese principe di Parma, e Francesco Maria della Rovere principe d'Urbino. V. Adriani, Storie, lib. XXI. p. 350-354. - Muratori, Annali, AA.

(2) Adriani, Storie, lib. XXII. p. 367.

(3) Crasso, Elogi d'illustri capitani, p. 220 (Venezia 1683).

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schia. Gli Italiani respinsero tre assalti: al quarto, essendo già fracassato l'albero e la nave piena di acqua, vennero sopraffatti dal numero ; sicchè, dopo avere difesa a palmo a palmo la piazza, si ridussero nel casseretto, risoluti a farvisi uccidere tutti. I Turchi voltaronvi contro le artiglierie, e si innoltrarono. Soltanto allora il Costanzo, ferito per tutto il corpo, collo scudo imbracciato, colla spada ignuda, con tutte le armature sanguinose, fra i corpi morti dei compagni, fu oppresso e rimase prigioniero.

Il suo valore gli fu di danno; perchè i Turchi stabilirono di appropriarselo. Tentarono pertanto il giovinetto con promesse, con minacce, con torture, con una lunga prigionia, affinchè rinnegasse; ma l'animo invitto del Costanzo resistè a tutto. Condusserlo al ceppo colle mani legate per decapitarlo; ed egli non si mutò dal suo proposito: il circoncisero a forza, quindi il vestirono di una casacca d'oro, dicendogli ch'era diventato turco; ed egli stracciò le vesti, e gridò: credo, credo nella fede di Cristo (1). Infine quattro anni di schiavitù e di persecuzione non bastarono a domare quell'anima grande, militando per una parte la tenera età, le alte offerte e i tormenti enormi, per l'altra il sentimento religioso e la costanza, virtù non dinegata agli Italiani nemmeno dagli stranieri (2).

Ma Venezia non era Italia: la guerra contro i

(1) Lettere de' principi, t. III. p. 248-259.

(2) << Quant à l'Italien il est plus accoustumé à patir que

<<< nous ».

Montluc, Commentaires, p. 210 (ap. Petitot, Recueil de mém. t. XXI).

Turchi non bastava a dare un pieno sviluppo a tutte le specie d'ingegni e di pubblici affetti. Il Piemonte, piccolo Stato, chiuso e straziato da due potenze nemiche, mostrò la sua fortezza piuttosto nel soffrire e perseverare, che nell' offendere e fare. La Toscana coltivò secondo il suo potere le armi, specialmente le marittime; e, quando le cagioni sopraccennate seccavano i grandi fonti delle lettere e delle passioni nazionali, e le gonfiezze del seicento sorgevano a ricoprirne il vuoto, essa modesta e semplice serbava intatti i semi della letteratura, e li corroborava colle severe discipline delle scienze esatte.

Però, mentre che colà una eletta schiera sotto l'austerità dei proprii studii trovava (e pure tra gravi ostacoli) un discreto sfogo alla propria attività, quanti ancora infiammati di amor patrio sudavano sotto le bandiere di qualche principe nazionale od anche straniero, coll'intento di ritornare l'Italia al primitivo splendore! Quante ingiustizie, quante fatiche e spesso quante calunnie e quanto detrimento della propria fama e sostanza sopportavano eglino coraggiosamente nella speranza di arrivare a tal grado da poter giovare alla patria! La libertà di Genova era stata il prezzo dei servigi prestati da Andrea Doria a Carlo v chi sa quanti sforzi di virtù e di costanza destò tale esempio! E codesti sforzi la storia ignora e tace, perchè si compivano nel più segreto dei cuori, ed essa pur troppo narra solamente ciò che si opera alla scoperta, non ciò che si disegna e si patisce e muore in noi. Oh! dovremo noi tratteggiare il miserando stato di un animo generoso rinchiuso in una troppo piccola sfera di attività? Vorrebbe uscirne, e non può: sente Vol. IV.

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in sè forze straordinarie per effettuare nobili cose; eppur vili impedimenti lo sospingono addietro. Tuttavia si rinfranca; restringe, acconcia, modifica i proprii disegni, li abbassa al livello altrui tanto che si possano mettere ad esecuzione: ma questa esecuzione, dopo tanti sagrifizii, non dà, nemmeno a un di presso, la misura della mente che l'ha prodotta. Per misurarla esattamente converrebbe riunire tutte le idee soffocate, tutti i divisamenti mutati, tutti quei tremendi soliloquii, sotto i quali l'animo si curva e si stringe. Talvolta pare a lui di scorgere una via per operare alcuna cosa a beneficio pubblico, che è pure il supremo scopo della sua vita. Allora il suo affetto si allarga meravigliosamente e quasi di un colpo invade tutti i vuoti del cuore. Fatale illusione! dalla quale il misero ripiomba atterrato; e ciò che più lo accora, non è tanto il proprio danno, quanto il veder macerarsi nell'ozio quelle forze colle quali egli sarebbe certo di recare utile e onore al suo paese.

Chiudesi egli allora dentro se stesso, e ben sovente il suo silenzio gli viene di giunta imputato a vizio. Ma guai se in tale abbandono le dolcezze di una famiglia o la importanza degli studii o un alto sentire religioso non aprono uno sfogo alla veemenza dell'affetto! Guai se codesti animi grandi e grandemente infelici rivolgono in se stessi a propria distruzione quella sovrabbondanza di vitalità, che non possono applicare a degne intraprese! Chi può noverare le nobili vite che il dolore oppresse, o il vizio deviò? Una splendida attività le avrebbe forse rese gloriose, utili, eccellenti: l'oscurità le trasse ad immaturo termine, più misere che colpevoli.

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