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Giambattista Vico, costretto dalla fortuna a fare il maestro di scuola, ad adulare e prosternarsi, a rinserrare per economia in brevi volumi le leggi della storia di tutti i popoli, conscio non meno della propria abbiettezza che dell' altrui ignoranza ed ingiustizia, fu il tipo di codesti infelici bersagli della sorte, ai quali l'ingegno è tormento, il vivere esiglio, la gloria povertà e pericolo.

III.

Fra queste contrarietà avrebbe irremissibilmente languito l'ingegno italiano, se non avesse saputo scoprire nuove ed inaspettate vie di uscirne ed espandersi. Quel Leonardo da Vinci, che colla mano medesima che gli serviva per rompere un ferro da cavallo o per trattare maestrevolmente la spada o per frenare feroci destrieri, coloriva il cenacolo, dissecava muscoli, suonava varii istrumenti, accompagnandoli con poesia improvvisa, gettava bronzi, scolpiva marmi, congegnava macchine, e scriveva i precetti delle arti belle, della medicina e dell'architettura civile, militare ed idraulica, fu il più vasto. modello di quegli individui italiani fecondi, grandiosi, acuti e perseveranti, quali si mostrarono dal 1500, quando tutti gli ambasciatori di Europa mandati al papa Bonifacio vi erano Fiorentini, infino al secolo xvII.

Quel Colombo poi, che per donare all'antico mondo un nuovo, scorse per molti e molti anni le corti di Europa, sempre ripulso o raggirato, sempre in preda alla miseria oppure all'invidia, ora alimentato con ciancie, ora ricompensato colle catene e coll'obblio,

ma pur sempre magnanimo, attivo e fermo nel suo grande proposito, fu il più sublime esempio di codesta magnifica individualità propria degli Italiani, e principale causa forse della loro grandezza, della loro disunione e della loro rovina.

Queste considerazioni, benchè quasi estranee al nostro soggetto, serviranno di spiegazione la più generale alle brevi notizie storiche che seguono. Esse riguardano quasi unicamente la vita militare di alcuni individui Italiani dei tre secoli or ora passati. Nel raccoglierle e riferirle, non fu già nostro scopo di raccontare le gesta dei maggiori capitani Italiani, e molto meno di tessere a modo di biografia la storia militare dell'Italia durante que' tempi. Collo scegliere alcuni tratti più vivi di essa, noi intendemmo solo di mostrare, come gl'Italiani, benchè privi di nazionalità, non cessassero di attendere tuttavia alla carriera militare, come moltiplicassero l'ingegno e le forze a superare gli ostacoli frapposti ai loro progressi, e come nella vita venturiera, a cui li spingeva la necessità delle cose, rinfrescassero quasi le orme dei condottieri dei secoli antecedenti.

Gian Giacomo de' Medici nacque in Milano nell'anno 1495 da famiglia già illustre, allora depressa. Sul fiorire dell'adolescenza fu bandito come reo di omicidio, e con tutta la famiglia si ricoverò presso il lago di Como. Era il tempo in cui i Francesi e gli Svizzeri, i Tedeschi e gli Spagnuoli si contendevano la Lombardia: le fazioni intestine sotto i fallaci titoli di Guelfi e Ghibellini appoggiavano ora l'uno ora l'altro invasore: Girolamo Morone congiurava per restituire il paese al duca Francesco Maria Sforza. Il Medici fu

spedito appunto dai partigiani ghibellini a Milano per concludere questa trama. Nel ritorno si abbattè in un corriere francese, l'uccise, lo svaligiò, e dalle lettere intercette trasse lume e regola. Ciò non pertanto la trama andò a vuoto: parecchi dei congiurati perirono fra i supplizii: la propria oscurità salvò il Medici, che entrò poco stante cogli Imperiali in Milano, e ottenne per ricompensa l'incarico di sottomettere il lago di Como. Egli se ne valse per rendervisi potente, e sfogarvi antiche inimicizie.

L'ultima di quelle terre ad arrendersegli fu la rôcca di Musso, fortissimo propugnacolo, quasi sospeso sui precipizii a vedetta del lago. Il Medici intendeva di tenerla per sè: essendo rimasto deluso, corse a Milano a farne istanza presso il duca Sforza e presso il Morone, che allora guidava ogni cosa. Ora è chi dice che il Medici venne esaudito dal duca, e con licenza di lui entrò senza impedimento in Musso, e ne divenne signore: altri afferma, ed egli medesimo vivendo lo raccontava, che il Morone finse bensì di concedergliene la investitura, ed anzi gliene diede il diploma, ma insieme col diploma gli consegnò una lettera suggellata pel castellano di Musso, nella quale era l'ordine di metterlo a morte. Per viaggio, così almeno si soggiunge, Gian Giacomo de' Medici, come uomo che conosceva a fondo se stesso e il Morone, aperse in bel modo la lettera senza infrangerne il suggello. All'aspetto dell'imminente pericolo impallidi: pure, essendosi consigliato col fratello, che fu poi papa, trovò modo di ricavar bene dal male, ed imitando alla meglio il carattere del Morone sostitui alla prima lettera un'altra, nella quale si coman

dava al castellano di Musso di aprirgli le porte (1).

Comunque sia andata la cosa, tostochè il Medici fu padrone di quel fortissimo sito, lo fece ricetto a tutti i più arrischiati uomini di guerra. Fu il numero loro dapprima di 70, poi crebbe a molti più, e questi lo resero in breve tempo padrone del lago di Como. Pensò egli allora a consolidare la sua potenza. Si fece dare titoli ed investiture dal duca di Milano, costrusse navi, impose tributi, creò due consigli sopra l'amministrazione delle finanze e della giustizia, ravvivò la zecca di Musso, ed essendosi alla perfine congiunto scopertamente agli Spagnuoli, ne ricevette in dono Lecco e il titolo di marchese di Musso.

Codesti vantaggi infiammarono la sua ambizione: armò barche sul lago di Lugano, aprì intelligenze in Arona, in Bellinzona, in Bergamo; nè per altro trattenevasi dall' invadere la valle Levantina, se non pel rispetto degli Svizzeri, ultimo strumento che egli si proponeva di adoperare per insignorirsi di Milano. Sottile indagatore delle cose e degli uomini, come egli era, mediante una certa bonarietà nel parlare e nel trattare gli affari, si conciliò gli animi dei signorotti vicini; e a chi prestando denari, a chi protezione, se li rese devoti. Aveva in tutte le parti spie, disegni ed amici: aveva rimedii per ogni accidente, vincesse Cesare o la Francia. Seminava con alacrità così pei guadagni prossimi, come pei più lontani: e

(1) P. Jovii, Larii descriptio, p. 1217 (ap. Græv. Thesaur. t. III. pars postrema). — Heryci Puteani, Hist. cisalp. lib. I (ap. Græv. vol. cit.). Missaglia, Vita del marchese di Marignano (Milano 1605). Chiabrera, Vita del marchese di Marignano, MS. presso il cav. Gazzera,

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mentre l'animo suo ingigantivasi tanto da aspirare ad una corona, non trascurava il più leggiero profitto, il riscatto, per esempio, di un viandante, il dazio di qualche pesce, oppure l'obbedienza della più solitaria bicocca.

La pace gli interruppe i suoi progressi: il voler troppo lo precipitò. Un corpo di 14 mila tra Svizzeri e Grigioni si unirono col duca Sforza, ad oggetto di atterrare codesta straordinaria potenza, che dal dirupo di Musso li minacciava digià tutti. In breve, tranne Lecco e Musso, ogni cosa fu da essi ricuperata. Tuttavia Gian Giacomo de' Medici non si perdette di animo: anzi colle navi armate scorreva il lago in cerca di vittovaglie e di danaro, sorprendeva il campo ostile sotto Lecco, lo disperdeva, e rintanavasi in Musso con molta preda in viveri, in artiglierie e in prigioni (1). Finalmente la fame lo costrinse a cedere. Il Medici uscì da Musso in forza di un accordo, segnato il 13 febbraio 1532, nel quale il duca di Milano gli assecurava un capitale di 35 mila scudi e il marchesato di Marignano (2).

Diventato di padrone servo, il nuovo marchese di Marignano passò ai servigi degli Spagnuoli in Piemonté. Quivi non tardò ad assumere la boria, la gravità e la cupidigia loro: perlocchè in capo a tre anni veniva eletto mastro di campo, col favore specialmente di Antonio di Leyva governatore della Lom

(1) Capella, De bello Mussiano, p. 1236 (ap. Græv. Thesaur. t. III. pars postr.). - Contile, Vita di Cesare da Napoli, lib. II. p. 74 (Pavia 1564). — Adriani, Storie, IV. 326.

(2) V. il testo del trattato nel Molini, Docum. di storia ital. no 396.

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