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menti tutto infiammato e sanguinoso, scontrava l'ammiraglio di Bonnivet, e da lui richiesto gli raccontava l'ingiuria ricevuta e la vendetta sfogata. Però, mentrechè a segni gli andava dichiarando i siti del combattimento, veniva colpito da una palla di archibugio nella gamba destra. Ciò lo costrinse a ritirarsi dalle fazioni della guerra, e farsi condurre a Piacenza.

Questa fu perdita gravissima alla Francia, per testimonianza de'medesimi Francesi (1); e tanto maggiore, quanto che le bande medicee, trovandosi senza capo, in pochi giorni si dispersero.

Del resto è noto, come Francesco I venisse sotto Pavia a cimento cogli alleati, e vi perdesse, oltre la battaglia, la libertà. Gli Spagnuoli, i quali fino allora avevano intrattenuto i principi italiani colla fallace lusinga di rispettarne la indipendenza, presero dalla vittoria ardire per comandare da padroni. Allora quelli, i quali non avevano osato confederarsi per impedire la venuta dello straniero, congiurarono per discacciarlo. Il marchese di Pescara dapprima aderi alla trama; poscia si fece merito di manifestarla e mandarla a vuoto. Gli Spagnuoli ne trassero argomento per ispogliare dello Stato il duca Francesco Maria Sforza, e cingere di assedio il castello di Milano, unico luogo che si tenesse a nome di lui.

(1) « Ce qui fut une grande perte pour nous us; car c'estoit un grand homme de guerre ». M. du Bellay, Mémoires, p. 483. — « Pour achever le malheur, Dieu envoya la blessure au seigneur Jean, lequel à la vérité entendoit plus à faire la guerre, que tous ceux, qui estoient aupres du Roy ». Montluc, Comment. p. 371 (Collect. Petitot, t. XX).

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Queste ultime ingiurie costrinsero finalmente i 17 mas principi d'Italia a confederarsi tra loro e colla Francia. Ma fin dal principio sarebbe stato ben facile prevedere la vanità di codesto sforzo. Primieramente Francesco I non vi aveva acconsentito, se non se per impetrare migliori patti da Carlo v: in secondo luogo il papa ne volle escluso il duca di Ferrara a causa delle antiche querele tra essolui e la Chiesa : in terzo luogo i collegati medesimi non ebbero il coraggio di stabilirsi uno scopo e pubblicarlo; ma, mentre che tutto il mondo sapeva che la lega di Cognac era stata fatta contro l'imperatore, nei capitoli di essa si era lasciato all'imperatore stesso il luogo di entrarvi.

Però la disgrazia maggiore fu quella di affidare il comando supremo della guerra a Francesco Maria della Rovere, già duca di Urbino. Ricordavasi questi che un papa della casa de' Medici, cugino a quel Clemente che allora regnava, lo aveva dispossessato e perseguitato come un colpevole: ondechè naturalmente si trovava inclinato a riputare proprio danno qualsiasi vantaggio del sommo pontefice, e proprio vantaggio qualsiasi danno di esso.

Era bensì venuto a militare nell'esercito della lega Giovanni de' Medici, col grado di capitano generale di tutte le fanterie italiane; ma nè i suoi esempi, nè i suoi consigli valsero mai a trascinare il duca di Urbino a veruna onorata risoluzione. Erano nella città di Milano pochi cavalli e 8000 fanti tra Tedeschi e Spagnuoli. Con questa gente i generali imperiali dovevano e continuare l'assedio al castello, e tenere in freno i cittadini, e difendere le mura della città,

che, oltre alla intrinseca debolezza, erano molto più soggette al pericolo di venire superate, perchè i confederati si trovavano padroni del castello, e i borghi, parte principalissima di Milano, eransi lasciati in abbandono (1).

Noveravansi per lo contrario nell'esercito della lega 20,000 fanti con una corrispondente quantità di cavalli. Questa gente sarebbe stata più che bastante a liberare dall'assedio il castello di Milano, e forse anche sgombrare la Lombardia dagli stranieri. Pure il duca di Urbino seppe mettere in opera tante dilazioni e tanti sutterfugi, ora avanzandosi ora ritraendosi, ora protestando di volere aspettare nuovi soccorsi, ora dichiarando l'impresa impossibile, che sotto i suoi 24 luglio occhi il castello capitolò. Giovanni de' Medici, che solo in tutta questa infelice guerra aveva colle sue prodezze mantenuto l'onore d'Italia, volle essere l'ultimo a levarsi di sotto le mura di Milano; e chiamando a nome gli altri capitani, e gridando: chi ci caccia? ritenne l'esercito dal partirsene a modo di fuga (2).

Cotesto fine ebbero gli ultimi sforzi fatti dai principi italiani per iscampo della propria indipendenza.

III.

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Quattro mesi dopo la resa del castello di Milano, Novemcalavasi in Lombardia un Giorgio Frundsberg con un corpo di circa 14,000 Tedeschi. Erano costoro per la maggior parte luterani, e tutti ferocissimi : (1) Guicciard. lib. XVII. 71.

(2) Varchi, Storia, t. I. p. 40 (si cita sempre l'edizione di Milano, 1803).

Giorgio, vecchio soldato di ventura, già noto nelle guerre d'Italia, li aveva radunati al doppio scopo di soccorrere il proprio figliuolo, ch'era chiuso in Milano, e di tentare qualche gran colpo sopra Roma. A tal effetto l'efferato vegliardo portava all'arcione capestri di seta e d'oro, coi quali tratto tratto vantavasi di voler impendere la corte papale (1).

Il campo della Lega stette qualche tempo incerto intorno al partito da prendersi contro questo turbine. Finalmente dopo molte discussioni fu approvata la sentenza proposta da Giovanni de' Medici, cioè di lasciare il grosso dell'esercito in un campo trincierato a Vaprio presso l'Adda, e colle genti più spedite straccare e consumare i nemici. Costoro, dopo aver fatto mostra di avviarsi pel Bresciano e Bergamasco a Milano, si erano rivolti verso il Mantovano con evidente intenzione di traghettare il Po a Borgoforte. Quivi presso li raggiunse Giovanni de'Medici, al quale era stata d'inciampo la solita tardità del duca di Urbino; e in quattro giorni diede loro tale travaglio, che ne acquistò il soprannome di Gran Diavolo.

Ciò faceva egli tanto più arditamente, quantochè sapeva di certo che i Tedeschi del Frundsberg mancavano affatto di artiglierie. Ma sciaguratamente, quando essi furono a Borgoforte, ve ne ritrovarono alcuni pezzi, che il duca di Ferrara aveva loro inviato segretamente. Giovanni de' Medici, ignorando tal cosa, prosegui ad incalzarli con eguale ardore. È tra Mantova e il Po una pianura circondata di acque, che da tempo immemorabile si chiamava il

(1) M. du Bellay, Mémoires, t. II. p. 23. - Guicciard. lib. XVII. p. 155. 163,

Serraglio. In questo luogo si introdussero i Tedeschi, e dietro loro Giovanni de' Medici: ma mentre egli col solito coraggio li perseguita, fu da loro dato fuoco a quattro falconetti, ed una palla di questi 24 noandò a ferirlo nella coscia destra alquanto sopra il ginocchio (1).

Tosto le soldatesche dolenti portaronlo a Mantova nella casa di Luigi da Gonzaga suo intrinseco. Vennero i chirurghi, e giudicarono di recidergli la gamba. Perciò proposero di chiamare otto o dieci uomini, affinchè lo tenessero saldamente durante l'operazione. «<< Nè anche venti mi terrebbero» selamò Giovanni sorridendo «se io nol volessi »; e presa dalla mano di un servo una candela, fece lume all'operatore. Era questi un ebreo, per nome maestro Abramo. Durante l'amputazione il condottiero non cambiò volto nè voce: soltanto nel sentirsi segare l'osso mandò due gridi. Terminata che fu ogni cosa, si fece recare innanzi la gamba in un bacino di argento, e mirandola (dice il suo biografo) sospirò, più per vedersi troncata la via della gloria, che per conoscersi vicino alla morte: poscia « Ecco, soggiunse amaramente, papa Clemente mi ha donato Fano!» (2)

(1) Filippo de' Nerli, Commentarii, lib. VII. p. 144. Era questo autore cognato di Giovanni de' Medici. M. du Bellay, Mém. p. 24. — P. Jovii, Vita Pompæi Columnæ, p. 160. — Gal. Capella, De bello Mediol., lib. VI. p. 1313. Ammirato, Storie, XXX. 363. -Guicciard., lib. XVII. 165. — Varchi, Storie, t. I. p. 52. Segni, Storie, lib. I. p. 10. (2) Ammirato, Opuscoli, t. III, p. 200. Pietro Aretino, Lettere, t. I. p. 6-11.-L'Aretino, che fino dal 1524 dimorava al servizio di Giovanni de' Medici, e n'era famigliarissimo, poteva testimoniare queste particolarità di veduta. Morto il

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