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Se non che maestro Abramo aveva reciso la gamba tanto basso, che ne era rimasta ancora una parte offesa. Questa infradiciandosi si risolse in gangrena. Verse sera il marchese di Mantova, col quale Giovanni de' Medici teneva antica ruggine, entrò a visitarlo e siccome si espandeva in parole di conforto e di amicizia, « Di ciò solamente vi prego, gli rispose il condottiero, che, posciachè non mi voleste bene in vita, me ne vogliate dopo la mia morte ».

Poscia veggendosi approssimare l'ultima ora, fece dispensare alle sue genti molte migliaia di scudi, e chiese di vedere Cosimo, il figliuolo che egli aveva avuto da Maria de'Salviati, il quale poscia fu duca di Firenze. Poco dopo, sentendosi a crescere i tormenti, ordinò a Pietro Aretino, che gli leggesse qualche libro. Durante la lettura, essendosi già formata nell'interno la gangrena, si addormentò. Destossi in breve, e, volgendosi all'Aretino « Io sognava di combattere, gli disse: que' Tedeschi mi avranno bene da pagare la gamba, tostochè io sia guarito!» Ma bentosto perdè nuovamente il coraggio, recitò il Confiteor, e volle che questo bastasse per la salvezza dell'anima sua (1).

Fecesi allora venire innanzi i suoi capitani, e con brevi parole li confortò ad avere per raccomandato il suo onore, diportandosi nella guerra con quella fede e con quell'ardire, che avevano appreso sotto la sua disciplina. Dimandato, se voleva fare testamento, rispose, che le leggi e la propria povertà avevano

condottiero, gli fece levare la maschera da Giulio Romano, e la tenne presso di sè lungo tempo in grande venerazione. V. Mazzucchelli, Vita dell' Aretino.

(1) De' Rossi, Vita di Giovanni de' Medici, p. 53.

provveduto per lui. Proibi qualsiasi pompa funebre, asserendo di non volere approvare in morte ciò che aveva biasimato in vita.

Quindi si assopì di nuovo, e vaneggiò. Ma ad un tratto si riscosse, e «Non io voglio morire fra questi empiastri, esclamò »; e fattosi adagiare sopra un letto da campo, in un grave sopore trapassò. Era 30 noegli allora appena da sei mesi entrato nel ventottesi

mo anno.

Il corpo del morto condottiero fu per ordine del marchese di Mantova sepolto con bello ed onorevole accompagnamento nella chiesa di s. Francesco, ove fu portato tutto armato in quella foggia, colla quale egli soleva uscire alle battaglie, ritenendo ancora morto nel viso la terribilità e fierezza che aveva nei combattimenti. Infiniti versi latini ed italiani attaccati al suo sepolcro fecero testimonianza del sommo desiderio che la sua morte lasciava in tutta l'Italia. Sopra il sepolcro un breve titolo fu scritto: «Qui giace Giovanni de' Medici, duce di singolare virtù, che percosso da una palla di artiglieria presso al Mincio, piuttosto a sciagura d'Italia che propria, mori» (1).

IV.

vembre

Aveva Giovanni de' Medici comunale statura, viso pieno e pallido, breve e rada barba, naso piccolo e seguente, bella carnagione, voce terribile, tondo e grosso il braccio e così forte, che non trovava chi gli potesse resistere. Niuno l'eguagliava negli esercizii del corpo. Nel nuoto per esempio, al quale sovente (1) Ammirato, Opuscoli, t. III. 206.

esercitava i suoi soldati, fu di tale destrezza, che due volte traversò il Po colla corazza addosso. Fu parco di vitto e di vesti; e come spaventevole nei combattimenti, così tra le domestiche pareti lontano da ogni fasto e generoso: sicchè non gli faceva mestieri di denari per condurre i soldati dove voleva, sapendo ben essi che, quando ne aveva, era liberalissimo. Infatti Cosimo, di lui figliuolo, insieme con molta gloria molti debiti ne ereditò.

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Primo a montare a cavallo, ultimo a scenderne, Giovanni de' Medici proponeva ed eseguiva quasi nel tempo stesso. A tal proposito raccontano che, sentendo egli un giorno discutere nel campo francese della necessità e dei modi di espugnare non so quale castello << Sire >> esclamò rizzandosi in piedi e rivolgendosi al re di Francia, che era presente «qui parrebbemi meglio operare, che cianciare. Andrò un poco a vedere ». Detto fatto, corse colà colle sue genti, e se ne impadronì.

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Qual fosse la sua disciplina già narrammo. Le soldatesche divenivano valorose quasi per forza sotto tale maestro; posciachè egli non diceva loro andate innanzi, ma venitemi dietro; nè si partiva dalle zuffe senza andarne, come l'ultimo de' suoi fanti, sporco del proprio sangue e dell'altrui. Una volta a Guido Rangoni, che il riprendeva perchè inutilmente consumasse le genti nelle scaramuccie, rispose, che se disfaceva i soldati, li sapeva anche fare; ma ch' egli nè farli nè disfarli sapeva. Voleva i soldati alti di statura, affermando che dei Niccolò Piccinini se ne erano veduti pochi. Odiava in essi le lunghe barbe e capellature; ma sì fu dei primi a dar loro comode

sopravvesti, e celate alla borgognona, e cavalli piccoli; posciachè la milizia leggiera era il suo fatto. Anzi, per condurre più celeremente le fazioni di guerra, soleva trasportare i suoi archibugieri dall' uno all'altro sito sopra ronzini di poco pregio, da cui smontavano, tostochè occorreva di venire alle mani. E di qui forse la prima idea dei Dragoni, sorta di milizia a cavallo e a piè, della quale si fece molto uso nei due secoli scorsi (1).

Narransi di Giovanni de' Medici infiniti motti e accidenti, alcuni dei quali serviranno a farne conoscere perfettamente l'aspra e risoluta natura. Invitato a dire chi a suo parere fosse il più grand'uomo del mondo: <«< Un soldato, rispose, ben armato e bene a cavallo, dopo aver vinto un avversario ». Quando egli militava nell'esercito della Lega, essendo nata disputa tra lui e Prospero Colonna, capitano generale, questi gli escì a dire, che in un bosco non gli avrebbe parlato così: «< In un bosco, gli replicò Giovanni, quella berretta nera che avete in capo, ve la la farei parere rossa »: nè mai più fu armonia tra loro. Essendosi per la ferita riportata sotto Pavia recato ai bagni di Abano, e di quivi a Venezia, venne dalla Repubblica accolto con grandi onori: però a taluno che l'instigava a passare ai servigi di questa, « Nè a me ciò si conviene per essere troppo giovine, rispose, nè ad essa per essere troppo attempata ». Al marchese di Mantova che lo minacciava di farlo uccidere; « Voi lo comanderete, disse, ed io il farò ». Infatti, sapendo che il marchese usciva sovente di

(1) De' Rossi, Vita cit., p. 21.-Foscolo, Nota al Montecuceoli intorno ai Dragoni.

città per andare a caccia, si tenne per ben tre giorni nascosto con trenta soldati presso Mantova, col deliberato proposito di sorprenderlo e tagliarlo a pezzi (1).

Ad esempio del condottiero si educavano le squadre: nè egli, purchè le trovasse all' uopo brave ed obbedienti, si dava pensiero di tenerne le mani a freno. Ondechè, dice uno storico contemporaneo, <«< se le bande nere erano la migliore è più riputata << fanteria e la più temuta che andasse attorno in quei <«< dì, erano anche la più insolente e la più rapace e « fastidiosa » (2). Ma guai se avessero osato disobbedirgli! Quando egli stava a Fano in riposo, quasi ogni giorno nasceva rissa fra i suoi soldati. Giovanni, dopo averli invano ammoniti, aspettò che ciò succedesse fra due dei più valorosi. Erano questi Amico da Venafro e Giovanni da Torino, i quali poscia salirono a non mediocre riputazione. Il condottiero li chiuse in una camera bene armati, ed essendosene messa la chiave alla cintola, dichiarò che un solo di essi ne uscirebbe, ma non prima di avere ucciso il compagno. I valenti uomini continuarono a battersi, finchè ne ebbero le forze; poi caddero a terra semivivi. Non si sentiva più alcun rumore, e tuttavia Giovanni de' Medici ricusava di aprire: finalmente le preghiere di Luigi da Gonzaga lo ammollirono. Schiavato l'uscio, trovarono il pavimento coperto di sangue e di maglie, e i due competitori più vicini alla

(1) Varchi, Storia, t. I. p. 52. — Castiglione, Lettere, p. 126. 131. - De' Rossi, Vita cit., p. 54.

(2) Varchi, Storia, t. I. p. 213.

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