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e quando fu dato l'ordine di demolire i borghi e tutte le case distanti un miglio dalla città, i padroni medesimi accorsero ad eseguirlo, e dopo avere atterrato gli ulivi e i melaranci delle amene lor ville, ne facevano fascine, e sulle proprie spalle le portavano a difesa dei bastioni (1).

Tanta virtù sarebbe forse bastata a salvare Firenze, A. 1529 se fosse stato men cattivo il condottiero da essa eletto al comando supremo delle sue armi. Fu questi Malatesta Baglioni, fratello dell'Orazio mentovato poco sopra (2). La repubblica gli aveva affidato quel carico, sperando che la ricordanza della uccisione del proprio padre gli sarebbe stata di perpetuo stimolo ad odiare la casa de' Medici, servire fedelmente i nemici di questa. Ma il Baglioni era uomo da immolare qualsiasi cosa al suo particolare vantaggio. Aspettò dentro Perugia l'arrivo dell'esercito imperiale capitanato dal principe di Nassau, non già per difendere la città, ma, a quanto pare, per farsi merito coi Fiorentini di quella poca resistenza, col papa della resa. Colà sembra che egli mercantasse le sorti

(1) Nardi, lib. VIII. — Varchi, t. III. p. 185. — Giovio, XXVII. 120.

(2) Venne assoldato col titolo di governatore generale, e a patto che obbedisse ai commissarii generali e al capitano generale della repubblica : avesse la condotta di 1000 fanti in tempo di guerra, e il piatto di 2000 fiorini per la sua persona: in tempo di pace avesse 100 ducati d'oro al mese per intrattenere dieci capitani: dovendosi uscire in campagna, se gli raddoppiasse la paga: sia al primogenito, sia al nipote di lui si concedesse il comando di una compagnia di 50 cavalleggeri: la repubblica non facesse col nemico alcuno accordo, senza includervi anche lui.

Vermiglioli, Vita di Malatesta Baglioni, docum. XII.

di Firenze. Ciò non pertanto seppe di modo tessere tutta la trama che ancora adesso si potrebbe dubitare della sua perfidia, se sopra a tutte le prove materiali non esistesse un intimo criterio, che riempie le la- ' cune tra i fatti, e giudica inappellabilmente le azioni degli uomini.

Ceduta Perugia agli imperiali, Malatesta colle sue genti si ridusse in Firenze; dove parlando ai popolani di libertà, ai malcontenti del papa, ai neutrali laudando la quiete, agli ambiziosi il governo dei pochi, si studiò di guadagnarsi tutti gli animi. Ma ciò appunto svegliò la città a sospettare di lui; perchè il contentare tutte le fazioni in tempo di discordie, se può talora in un uomo altamente collocato venire come dappocaggine compatito, o come imparzialità riuscire accetto, il più sovente è indizio di frode, e porta in castigo la diffidenza e il dispregio. Bentosto si aggiunsero sospetti a sospetti intorno la fede del condottiero; ma i nemici si avvicinavano a grandi giornate, e bisognò chiudere gli occhi e rassegnarsi.

Tutti gli altri capitani in numero di 80, dei quali ben 17 erano cittadini del miglior sangue, e avevano militato nelle bande nere (1), essendosi radunati spontaneamente nella chiesa di s. Niccolò, dopo una messa solenne, giurarono una seconda volta fedeltà e obbedienza alla repubblica fino all'estremo spirito.

III.

L'arte del difendere le piazze fu condotta a com- A. 1530 pimento molto più presto che quella dell'offenderle. Gli imperiali, dopo avere tentato invano di sorpren(1) Segni, lib. III. 202. — Varchi, t. III. 203.

dere la città, convertirono l'oppugnazione in assedio. Vivevasi perciò dentro Firenze, narra uno storico, il quale vi militava nelle ordinanze cittadine «non solo <«< senza paura e sospetto, ma nè più nè meno, come <«< se non vi fosse stato persona, eccettochè la notte <«< non si sonava campana nessuna, e in quello scam<«< bio si sentivano i tiri delle artiglierie, i quali per << la spessezza del trarre si conoscevano l'un dall'al<< tro, infino dalle donne, quasi come le campane...: <«<le botteghe stavano aperte, i magistrati rendevano «< ragione, gli uffizi s'esercitavano, le chiese s'uffizia<«< vano, le piazze e il mercato si frequentavano, non <«< si facevano tumulti tra' soldati, non quistioni tra' << Fiorentini: perciocchè, sebbene erano tra loro di << molte gozzaie e di cattivissimi umori, essendo di <«< tanti pareri e in tante parti divisi, eglino nondi<«<< meno s'astenevano non che dal manomettersi l'un « l'altro co' fatti, ma d'ingiuriarsi colle parole, di«< cendo: questo non è tempo da far pazzie; leviamci « costoro da dosso, e poi chiariremo questa partita tra « noi. Avevano scritto in su tutti i canti principali, <«< a lettere grandi e con gesso o carbone: poveri « liberi. Fra Benedetto e fra Zaccaria seguitavano «<le lor prediche con infinito concorso di popolo del<«<l'un sesso e dell'altro........» (1).

La gioventù, gareggiando di diligenza coi soldati, come li superava di valore, aveva in ispecial guardia il monte di s. Miniato; e benchè la repubblica sotto gravi pene le avesse vietato di uscire, non passava di in cui qualcuno di essa, o calandosi dalle mura, o sfuggendo per le porte, o mescolandosi ai soldati, (1) Varchi, t. III. 280.

non sortisse a scaramucciare. «Perchè vuoi tu esporre questo innocente a tanto pericolo?» chiese un cittadino ad un vecchio, veggendolo con un fanciulletto a mano accorrere alla difesa delle mura: << perchè scampi o muoia con me per la salute della patria » rispose il buon vecchio (1). Al principe di Nassau, che instava presso Bernardo da Castiglione, oratore di Firenze, affinchè essa si sottomettesse di nuovo alla stirpe de' Medici: «In Firenze? rispondeva questi: piuttosto in carcere, che sotto i Medici». I paesani si lasciavano martoriare ed uccidere dagli Spagnuoli, anzichè rinnegare il marzocco ossia leone, emblema della repubblica: una giovanetta, arrovesciatisi i panni in capo, lanciavasi nell' Arno, e rituffandovisi tante volte quante risorgeva a galla, fuggiva con volontaria morte le carezze di un soldato nemico (2).

Con questi animi si difendeva Firenze. Se non che Malatesta Baglioni ora con un'astuzia ora coll'altra perveniva sempre o ad impedire o a mandare a vuoto qualsiasi forte risoluzione. Non voleva permettere le sortite grosse sopra il nemico; e quando a suo dispetto se ne fece una, e già la vittoria era in mano de' Fiorentini, egli col suonare a raccolta la tronco. Altre circostanze avevano oramai mutato in certezza i sospetti intorno la sua fede; pure non si poteva più nè mandarlo via, nè levargli il potere.

Intanto nella misera città alla guerra la fame, alla fame la peste erasi soprapposta. Restava un'ultima speranza, e questa era di aprire ai viveri la strada di Prato e Pistoia. A tal uopo i cittadini investirono (1) Varchi, t. III. 230.

(2) Varchi, t. III. 183. 165. 179.

Francesco Ferrucci, il quale era a Pisa commissario, di un'autorità uguale a quella di tutta la repubblica, e gli mandarono l'ordine di partirsi di colà con tutte le sue genti, ed assalire il campo degli assedianti nel medesimo tempo che tutta Firenze sboccherebbe sopra di essi a fare un estremo sforzo.

IV.

Era Francesco Ferrucci uno di quegli uomini austeri, i quali nei tempi ordinarii, piuttostochè innalzarsi a forza di anni e di usuali servigi, si annientano nella solitudine, per potervi, se non comandare, evitare almeno il peso della dipendenza. Povero e plebeo, sebbene di antica famiglia, visse alcun tempo oscuramente prima nel suo fondaco, quindi in villa, sempre solo e a caccia. Per amicizia verso Giambattista Soderini, l'aveva accompagnato nella infelice spedizione di Napoli, e vi si era intertenuto come pagatore delle bande nere. Posciachè la spedizione sorti l'esito altrove narrato, la repubblica, non credendo che fossero virtù guerriere in un mercatante plebeo e pagatore di esercito, lo destinò ad adempiere uguale ufficio nella valle di Chiana (1).

Alla fine di codesto incarico, il Ferrucci ritornò a Firenze, ed obbliato vi si rimase, finchè la repubblica, non sapendo chi mandare per compagno al commissario di Prato, si sovvenne di lui. Da Prato il Ferrucci passò poscia commissario ad Empoli. Stando in questo ufficio, aveva egli espugnato s. Miniato, sconfitto un grosso corpo d'imperiali, ricuperato Volterra, e con istraordinaria bravura difesola contro a dieci(1) Gianotti, Vita del Ferrucci. - Busini, Lettere cit., p. 119.

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