Immagini della pagina
PDF
ePub

posa. Taci. Ma intanto la persecuzione aguzzava contro lui i ferri.

Era venuto a governare Milano il signore di Lautrec, uomo prode di mano, debole di testa, salito in alto pel favore della propria sorella. A tal uomo gli aspri modi, la gloria e le ricchezze del vecchio maresciallo, lo stesso ossequio usatogli universalmente, dovevano riuscire intollerabili, tanto più quanto che il Triulzio, stante il suo grado, era in certa guisa indipendente e sicuro da qualsiasi colpo diretto. In conseguenza il Lautrec si appigliò ad altre armi. Persuase il re che la lega ed amicizia testè contratta dal Triulzio cogli Svizzeri era nociva alla Francia; magnificò l'ambizione e la potenza di lui, e rappresentollo come uomo bramoso d'insignorirsi della Lombardia. Insomma a codeste ragioni avendo la sorella aggiunto le sue molto più efficaci, in breve si accese nell'animo volubile ed impaziente del re di Francia una mortale diffidenza verso il maresciallo.

Conobbe tosto questi a più segni il colpo, e deliberò di ripararvi andando a discolparsi personalmente dinanzi al re. Invano gli si opposero gli amici con allegargli il contrario parere degli astrologhi, la grave età, i suoi acciacchi, il rigore della stagione. Sclamando che nè anche la morte il riterrebbe dall'accorrere alla difesa del proprio onore, prese in lettiga il cammino della Francia.

Era allora il re occupato a visitare la Brettagna. Il Triulzio si avviò per raggiungervelo. Ma giunto ad Ancenis, chiese invano alla regina ed alla duchessa di Angoulême la grazia di venire loro presentato. Esse gli fecero dire di attendere l'arrivo del re; e a tal

effetto gli fu assegnato un alloggio in un villaggio vicino. Furongli altresì sotto specie di onore deputati a compagni tre gentiluomini della guardia reale; però col segreto incarico di custodirlo e riferirne ogni detto ed ogni azione.

Finalmente il re ritornò ad Ancenis; ma indarno il vecchio capitano supplicò di presentargli a voce le sue discolpe. Allora egli, non scorgendo altra via per favellare al re, s'introdusse nella sala, ove questi pranzava, e inginocchiossegli accanto sclamando: «< Ah sire! ah sire! almeno una parola di udienza! » Il re, fattogli appena cenno di rialzarsi, continuò a discorrere cogli altri convitati. Terminato il pranzo, si ritirò con lui presso una finestra, e con manifesto impeto e turbamento gli parlò alla lunga.

Altri colloquii non furono più tra essi : il Triulzio si mise a seguitare di alloggiamento in alloggiamento la corte, sempre ritentando, e sempre vanamente, di ottenere udienza, se non dal re, almeno dalla duchessa o dalla regina. Aggiungevansegli per maggiore strazio la freddezza e il dispregio dei cortigiani, e le acerbità del Lautrec, che ne faceva in questo mentre arrestare il nipote, ed intercettava tutte le lettere dal Triulzio scritte in Lombardia o di colà a lui indirizzate. Ad un luogo distante quattro miglia dalla città di Chartres gli fu mestieri di mettersi a letto. Riavutosi alquanto, prosegui il viaggio fino a Chartres: ma quivi, sentendosi esacerbare il male «< Voi andrete senza capitano, disse a coloro che gli erano attorno, ed io senza esercito >>.

Allora il re, sia per rispetto umano, sia per rimorso o bontà di cuore, si mostrò dolente della sua

infermità, e spedi a visitarlo quattro medici e non so quanti gentiluomini. « Ohimè! non è più tempo, sclamò il maresciallo: i torti fattimi e il mio cordoglio hanno già conseguito il loro effetto. Io son morto ». Nè altra parola soggiunse per essi. Tuttavia il re lo obbligò a ritrattare, benchè moribondo, con apposito codicillo la convenzione stipulata cogli Svizzeri.

Ciò fatto, il maresciallo si riconciliò con Dio, e sorretto da due famigli ricevette a ginocchia ignude l'eucaristia. Quindi fece mettere accanto a sè sopra il letto la spada sguainata, e tenendosi stretto nelle mani il crocifisso, spirò (1).

Gian Iacopo Triulzio, secondochè si vede nelle medaglie e in un dipinto di Leonardo da Vinci, fu di piccola, ma ben complessa corporatura, di fronte spaziosa, di naso rilevato, con molta zazzera al capo. Ciò quanto all'esterno. Di animo fu superbo, iracondo, violento, parziale, più atto a conquistare stima e morale preponderanza, che a conservarsela. Ma questi difetti rattemperava egli con molte virtù, non meno grandi e prepotenti; posciachè il Triulzio era uomo da non volere e proseguire sia il bene sia il male, se non se sempre con foga e pienezza. Generoso, liberale, amico dell'ordine, prode, attivo, severissimo, sovente soccorreva i soldati col proprio denaro, sovente colla propria spada li castigava. Perdonò la vita a un sicario, che stava appiattato per ucciderlo: mandò inesorabilmente alla morte un parente della regina di Francia, convinto di sacrilego stupro. Nel 1508 comandava egli fra le altre una banda sfrena

(1) Brantôme, Vie de J. J. Triulce, t. II, p. 244. — Rosmini, Vita del Triulzio.

5 dicembre 1518

tissima di Spagnuoli. Costoro, non potendo più tollerare la tardanza delle paghe e la sua severità, congiurarono di rivoltarsegli. Andato a male il disegno, tutti in ginocchio gli domandarono misericordia. Il Triulzio li rialzò, li perdonò, e distribuì fra essi molto denaro suo proprio, affinchè se ne servissero fino all'arrivo di quelle; nè, arrivate che furono, permise che glielo restituissero.

Del resto ebbe egli comune co'suoi contemporanei l'amore verso le lettere, e la credulità all'astrologia. Fu appassionato dei Commentarii di Giulio Cesare, e, benchè vecchio e carico di onori, frequentava nei giorni d'ozio le scuole del Parisio, del Paciolo e di Giorgio Valla, forse cercando nella lettura e nella meditazione quello sfogo alla propria attività che i tempi gli negavano. Un motto sfuggito al duca Galeazzo Maria Sforza procurò al Triulzio il soprannome di Grande, che i posteri gli confermarono: e forse egli sarebbe veramente stato tale, se fosse nato in tempi, in cui avesse potuto servire, anzichè lo straniero, la propria patria.

II.

Alla narrazione degli ultimi momenti del famoso Triulzio terrà ora dietro quella dei primi fatti di un altro non meno illustre capitano. Così la natura ritrova in se medesima perpetui compensi, e trasporta dall'una all'altra persona, dall'una all'altra gente la gloria e i doni suoi più preziosi, per pareggiare poi forse nello spazio dei secoli tutte le nazioni a uguale misura di favori.

Da Giovanni de'Medici e da Catterina Sforza nacque

nel dì 6 di aprile 1498 Giovanni, che più tardi ebbe il soprannome delle Bande Nere. Il padre di lui discendeva per diritta linea da Lorenzo fratello di Cosimo padre della patria; la madre aveva sposato in prime nozze Girolamo Riario, signore di Forli, e di lei si narrava che, trovandosi assediata nella rocca di questa città, a chi la minacciava di ucciderle i figliuoli se non rendesse la rocca, aveva risposto che avrebbe saputo farne degli altri (1). Poco dopo la nascita del piccolo Giovanni, Catterina perdette il secondo marito; onde, sospettando di qualche perfidia da parte di Lorenzo Riario, suo figliuolo del primo letto, confidò il bimbo a non so quali monache. Ciò non pertanto Lorenzo trovò modo di levarlo di colà: essa allora glielo contese davanti ai tribunali, e tanto accanitamente, che questi, dicesi, mori dal dispetto.

Da fanciullo Giovanni de'Medici dimostrò inclinazioni terribili e sanguinarie: sventrar cani e gatti, battere balia e maestro, battagliar coi compagni, e pestarli, e graffiarli, e ritornare a casa tutto livido e sporco di sangue. Divenuto più adulto, ebbe per quotidiano studio e sollazzo gli esercizii del corpo, maneggiare le armi, lanciare il palo, stancare al corso feroci cavalli, saltare, fare alla lotta e al nuoto. Nè la voglia del sangue gli passava cogli anni; sicchè alla fine venne bandito per 20 miglia dalla città di Firenze, Tornovvi ad interposizione di alcuni amici; ma non andava guari che feriva in rissa un Boccaccino Alamanni, e si faceva uccidere ai piedi un famiglio del signor di Piombino, che gli aveva detto contro alcune villanie.

(1) Machiavelli, Storie, 1. VIII. p. 133.

« IndietroContinua »