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LETTERA DELL'AUTORE

AL MARCHESE GINO CAPPONI

Signore,

Fino dallo scorso settembre per vostro suggerimento e consiglio io aveva intrapreso a scrivere della Sovranità e del Governo temporale dei papi, essendomi dovuto persuadere per la lettura dei diversi scritti pubblicati nei giornali stranieri, che se la questione politica del Papato era la maggiormente connessa colle nostre sorti italiane, era nel tempo stesso la meno studiata e forse anche la meno universalmente compresa.

L'incalzare degli eventi, la nuova direzione presa anche in Italia dallo spirito pubblico, l'interesse che da vario tempo pigliavano gli stranieri pubblicisti alle cose nostre, la discussione proseguita, sull'esempio di Gioberti e di Balbo, da voi e dall'Azeglio, la cadente età del pontefice, lo sfacello del quale dicevasi minacciato il governo pontificio, i danni che dall'abbassamento del Papato voi ed io temevamo per la cattolicità non solo, ma altresì per la civiltà europea e per l'Italia; erano altretante cagioni che mi spronavano ad ultimare il lavoro, non per offrire risoluzioni dogmatiche, il che dalle mie forze non sarebbe consentito, non per desiderio di fama letteraria, a conseguire la quale non mi avrebber soccorso nè la novità dei

pen

sieri, nè lo splendore della forma, ma per tener viva la discussione, e tutti esporre al tempo stesso gli elementi più importanti del gravissimo problema.

Il libro dovea esser pubblicato senza nome, non perch'io volessi sottrarmi a quella onesta e leale professione dei principi politici di cui voi con altri valentissimi avete dato nobile esempio, ma perchè il mio nome, noto soltanto a quei pochi che mi onorano della loro amicizia, avrebbe recato per la sua oscurità più danno, che giovamento all'efficacia del libro stesso, il quale volevasi da me affidato esclusivamente all'importanza del subietto ed al valore dialettico degli argomenti.

La sollecitudine ch'io poneva nello scrivere fu vinta anche questa volta dalla rapidità degli eventi; e dal di che io terminava il libro, al momento della pubblicazione, un'epoca nuova parmi già surta nella Storia del Papato, e nei destini della soeranità temporale della Chiesa.

La morte improvvisa di Gregorio XVI, la maravigliosamente instantanea elezione del cardinale Mastai Ferretti, i buoni augurii che ne furon presi fin dalle prime ore del pontificato, e poi la generosa arditezza del perdono politico, più desiderato che sperato, la novità del linguaggio usato nel proclamarlo, l'entusiasmo col quale esso è stato accolto e salutato dai sudditi non solo, ma da tutti gl'Italiani, i nuovi modi assunti dal pontefice, le parole dette e ripetute, le riforme sperate, e perfino dai nostri pubblici fogli annunziate e discusse, l'improvviso riscuotersi e trasformarsi dell'opinion pubblica; tutti questi fatti nuovi hanno in parte avvalorata, in parte meglio determinata la condizione del mio libro. L'hanno avvalorata, si perchè hanno posto in evidenza le forze sempre giovanili e vivificanti del Papato, da taluni rivocate in dubbio o impugnate, si perchè hanno fatto sparire quell'antagonismo che pochi mesi or sono pareva esistesse tra i principi di civiltà da me difesi, e quelli che dicevansi praticamente seguiti dal governo pontificio: l'hanno meglio determinata, poichè proclamato una volta dal trono il bisogno di una riforma, i motivi del disordine antico, ed i principi critici da me enunciati, saranno vie meglia apprezzati e discussi al confronto dei mezzi pratici, e neces

sariamente graduati dell'esecuzione governativa, che già si annunzia ai bisogni veri del tempo corrispondente.

Queste considerazioni mi hanno indotto a pubblicare il mio libro quale era stato da me concepito ed ultimato, senza tenere in conto cioè i fatti nuovi coi quali il regnante Pio IX, ponendo ad un tratto all'opinione pubblica in faccia al papato nuove condizioni ed insolite da molti secoli, ha iniziata per esso, e forse anche per l'Italia tutta, un'êra novella.

Se i nuovi fatti non mi fecero cambiar consiglio sulla sostanza e sulla forma del libro, mi fecero però sentire il dovere di tosto assumere la intera responsabilità di esso, togliendo volontariamente un anonimo che forse non avrei potuto serbare inviolato. All'effetto pertanto di supplire alla povertà del mio nome, permettetemi, carissimo marchese Gino, di confortarlo coll'autorità del vostro; ed in questa tenue offerta vogliate altresi ricevere un attestato di gratitudine per la vostra benevolenza, di stima per le vostre virtù, e di quell'affetto rispettoso che mi permette di segnarmi per sempre,

Firenze, 10 agosto 1846.

Vostro amico

LEOPOLDO GALEOTTI.

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