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L'esercito spagnuolo nel veleggiare che fece da Napoli verso la Catalogna, aveva per capo il generale Pimiento, il quale fatto consapevole che la città di Oneglia era priva di fortificazioni, e di munizioni, pensò d'impadronirsene: sbarcò adunque a Porto-Maurizio, dentro il confine dei ge novesi, due mila fanti; e poi imbarcate le migliori soldatesche del presidio di Finale sulla sua flotta ch'era composta di ventisei vascelli e dodici galee, comparve, il 30 d'agosto, sulla spiaggia di Oneglia, e salutò con varii spari di artiglieria la città: un tale improvviso onore diede molto a sospettare di qualche sinistra intenzione del condottiero di quella flotta, nè fu vano il sospetto di una sorpresa: il governatore di Oneglia trovandosi colto all'improvviso e disarmato, andossene tosto a raccogliere genti e soccorsi nella valle, ove fece suonare a stormo: ma in quel frattempo giunse alle porte della città un uffiziale accompagnato da un tamburo, il quale chiese di manifestare al governatore della piazza gli ordini di Sua Maestà la Regina; e poichè il governatore trovavasi nella valle, due deputati del consiglio civico si presen› tarono al generale Pimiento per sapere quali ne fossero le risoluzioni; ed egli rispose loro in questi termini: «< la Maestà >> della Regiña mia Senora, mi ha comandato ch'io venghi » a lasciare guarnigione spagnuola in questo luogo per con» servarlo al Duca di Savoja vostro Senore, avendo inteso, » che li francesi vogliono occuparlo per poter più da vicino » far guerra a Finale ».

Non potendo l'inerme, e tuttora smantellata città ribattere un improvviso assalto, venne a patti onorifici, cui largamente concesse il generale spagnuolo, che subito alla custodia di questa piazza pose il governatore di Finale con settecento uomini.

Le milizie onegliesi furono vivamente addolorate di dovere per la terza volta sottoporsi all'odiato dominio di Spagna; ma se trovaronsi nella dura necessità di lasciare l'accesso alle numerose forze nemiche, in un paese che non si poteva difendere, non deposero per ciò quelle armi che avevano sempre generosamente impugnate a difesa dell'adorato loro Sovrano; e mentre da una parte entrava nella loro città colle sue truppe il Pimiento, uscivano esse dall'altra, ed

ivano frettolose ad occupare le circostanti alture d'accordo coi miliziotti dell'intrepida valle. Laonde il presidio spagnuolo badando alla propria sicurezza, tostamente si accinse a ben trinderarsi, ed a riattare il demolito castello, disegnando anche di trasformarlo in una forte cittadella, secondo l'avviso di abili ingegneri che vi furono a bella posta chiamati. Frattanto l'ispano governatore ordinò alle comunità di tutto il principato di sborsare ogni dì trecento doppie per le esigenze militari, ed al consiglio civico impose per le provvisioni necessarie al presidio una esorbitante quantità di farina, di vino, di olio e di carni salate.

Gli onegliesi in tal modo vessati si accordarono coi fuoriusciti per iscacciare un così prepotente nemico. I principali cittadini, per meglio ottenere il difficile scopo, mandarono fuori della piazza non pochi abitanti atti alle armi, e spedirono intanto il capitano Meriani a Villafranca ed a Nizza a chiedere uomini ed armi. I governatori di quelle due piazze, cioè il marchese di San Damiano ed il conte di Monasterolo, non potendo indebolirne le guernigioni senza un espresso comando di Madama Reale, in allora Reggente di Carlo Emanuele II, altro non fecero che spedire un drappello di volontarii con quattro tamburi: ma i cittadini di Oneglia non perdendosi d'animo per sì tenue soccorso, uscirono della città, si condussero al mare costanti nel loro disegno, ed unendosi alle valorose milizie del principato, si trovarono bensì nel solo novero di mille e seicento, ma tutti disposti a fare un estremo tentativo per sottrarsi all'ispana tirannide. Gli spagnuoli insospettiti dalla mancanza di molti cittadini, ed avvisati della loro disperata risoluzione si prepararono ad ostinata difesa: munirono tutti i posti più riguardevoli anche fuori delle mura, ed in particolare il convento di s. Agostino; il quale per essere situato sopra un monticello domina tutta la pianura; e per meglio discuoprire da lunge, e danneggiare gli aggressori, ne armarono la torre della chiesa, donde i più agguerriti moschettieri ed artiglieri con incessanti spari d'archibugi e di piccoli cannoni si posero, dopo il tramonto del sole, a intimorire i loro nemici, i quali non pertanto assalirono con grand'impeto la città verso le due ore della notte del dì 27 settembre; ed il presidio

sostenne in sul principio valorosamente l'assalto col favore dell'oscurità e dell'opportunità del sito; ma dopo lungo e sanguinoso combattimento, rinforzati gli onegliesi da altri valorosi concittadini, s'impadronirono del convento, dei borghi superiori; a tal che gli spagnuoli prima dell'aurora dovettero abbandonare le trincee delle mura, feriti in faccia da grossi pallottini e da piccoli quadretti di piombo, che in vece di palle usarono i miliziotti a ciò ammaestrati da un certo Pasquale Piano, che molto si segnalò in quella terribile fazione. Tentarono allora gli spagnuoli di difendere le porte, mettendosi al coperto, e sparando frequenti colpi di moschetti; ma gli aggressori opposero a quel codardo modo di difendere un nuovo stratagemma di assalire, mercè del quale venne loro fatto d'incendiare le palizzate, onde intimoriti i difensori si diedero in parte alla fuga per ritirarsi nel vicino castello non ancora stretto d'assedio. Gli onegliesi frattanto, atterrata la porta col fuoco e colle scuri, vi entrarono rabbiosamente: ingaggiossi quindi una fiera mischia, e stava in dubbio la vittoria, quando la fece piegare alla parte degli aggressori un Nicola Gazzano, il quale uscito dalla sua casa con alcuni de' suoi famigliari bene armati, assalì così intrepidamente i nemici, che li costrinse a ritirarsi, e a lasciare libero il passo ai vincitori, i quali impadronitisi da molte parti della città, si rivolsero al castello, che tosto si vide inalberare una bandiera bianca, chiedendo pace.

Gli onegliesi che anche nei loro nemici hanno sempre saputo apprezzare il valore, si mostrarono generosi verso di essi, ed acconsentirono che se ne potessero uscire colle loro spade, e li scortarono anzi sino al territorio di Diano.

In così rilevante fazione gli spagnuoli perdettero settecento uomini tra morti e feriti, nel novero dei quali furono il prode capitano Pascares, nobile spagnuolo, i capitani Silva e Massa, ed altri uffiziali. Dalla parte degli onegliesi vi rimasero estinti alcuni cospicui cittadini, fra cui si notarono i due fratelli Garrone, Orazio Cardese, Giovanni Brunengo, Giambattista e Leonardo Riccardi, e molti altri ricevettero gravi ferite.

Il Duca Carlo Emanuele con sovrane patenti del 24 di

cembre del 1649 manifestando che così glorioso trionfo era dovuto al valore de' suoi fedeli onegliesi, concedette alcuni privilegii a Gerolamo e Giacinto fratelli Amoretti, i quali a proprie spese non avevano cessato di raunare milizie, di animarle col loro esempio a combattere colla massima intrepidezza; ond'è che il Francesco Amoretti ebbe poi, in virtù di patenti del 19 marzo 1695, il titolo di nobile, trasmissibile a' suoi discendenti.

Fu tanta l'allegrezza prodotta da sì segnalata vittoria, che per più giorni ne fecero festa gli onegliesi, e chiesero, ed ottennero la permissione di rovinare il castello, ch'era stato eretto dai loro nemici. Una contemporanea relazione storica di questa vittoria fu fatta da Francesco Cavanna, e Marc'Antonio Bachilieri, membri del consiglio civico, e venne poi riportata in ottave, e renduta di pubblica ragione nel 1837 dal ch. cavaliere Marsucco distinto patrizio onegliese, da cui fu anche pubblicata un'altra operetta col titolo: La fedeltà d'Oneglia a' suoi Reali Sovrani di Savoja.

Questa città stette poi tranquilla sino all'anno 1672, in cui scoppiò di bel nuovo la guerra tra Savoja e Genova per causa de' confini di Cenova e Rezzo, ed anche per le differenze insorte sulla intelligenza della decisione cui diede l'abate di Servient. In quell'anno il generale Durazzo accompagnato da molti nobili genovesi, venne a stringere d'assedio con truppe di terra e di mare, e con numerose artiglierie la piazza d'Oneglia. Si levarono in massa tutti i cittadini atti alle armi; ma il governatore, che era il conte di Castelgentile sapendo di non avere nè mezzi, nè forze sufficienti per resistere al poderoso esercito genovese, e disperando di avere soccorsi dal conte Cattalano e da D. Gabriele di Savoja, dei quali non erano prospere le imprese, dopo avere sostenuto molti giorni d'assedio, e fatto prova di valore in alcuni fatti d'armi, stimò che fosse cosa prudente il scendere a patti. Il corpo delle milizie della città, e lo stesso civico consiglio non erano per anco disposti ad accettare una capitolazione; ma vi accondiscesero, quando il generale Durazzo promise ai loro deputati che si sarebbe fatta una salve d'artiglieria, innalzando per tre volte lo stendardo di Savoja, e si sarebbero lasciate loro le armi.

Ciò non pertanto le onegliesi milizie unitesi ai valleggiani mossero in sulle alture circostanti, e non cessarono dal fare scorrerie, e la popolazione sdegnossi poi altamente quando il generale Durazzo le impose una contribuzione di cinquanta mila pezzi da otto reali pagabili fra otto giorni, ed altri balzelli per le provviste dei magazzini: le milizie d'Oneglia per vendicarsene colsero l'opportunità, in cui il marchese di s. Giorgio, il 19 ottobre, si mosse verso la Colla del Pizzo per Pian di Latte col suo corpo di truppa di linea, ingrossato dagli accorsi miliziotti della valle, i quali posero in fuga ducento armati villici, e trecento soldati, che d'ordine dei generali della repubblica marciavano per rinforzare le truppe condotte dal maggiore Restori, e ne fecero molti prigionieri. Nel giorno successivo i genovesi spingevano nuove forze, allorchè all'alba del dì 21 seppero la rivolta dei terrazzani, e lo ingresso dei savoini nella medesima valle: stimarono perciò non solo di ritirarsi, ma ben anche di abbandonare Oneglia, di cui prese il comando il colonnello delle milizie. Indi a non molto, per la mediazione dell'anzidetto abate di Servient, cessarono i dissidi tra le due potenze, e si conchiuse tra esse la pace, della quale gli onegliesi godettero sino al l'anno 1692, in cui il Re Cristianissimo assalito avendo il Piemonte, ed il Duca di Savoja, per difendersi, essendosi unito alle potenze alleate contro la Francia, comparve sulle、 acque d'Oneglia la squadra francese composta di molte galere e di altri legni da guerra. Un parlamentario fu spedito dal comandante di questa squadra a chiedere la resa della città. Ma gli abitanti ricusarono di scendere a patti, e nè le lusinghe, nè le promesse, nè le minaccie, e nè anco il fulminare delle artiglierie pemiche poterono far vacillare la loro costanza ed abbattere il loro coraggio: sostennero essi fuor delle mura un'orribile zuffa: la loro città fu a più riprese invasa e sgombrata dai galli, i quali sebbene combattessero con maraviglioso valore, si videro alfine costretti a rimbarcarsi. Le più minute particolarità di questa memoranda fazione vennero descritte in un poema latino che fu attribuito ad un certo Pellegrini di Chiusavecchia, ed ha per titolo De Classe Gallica Vallis Uneliae Triumphus.

Dopo così glorioso trionfo gli onegliesi per lunga pezza

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