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serilla in greco, se però è vero che i due frammenti scoperti facciano parte di una lapide sola, come non senza fondamento si crede. V'ha chi vuole interpretare la parola Roma per Domo Roma; ma assai inelegantemente avrebbe termine con queste parole un così preclaro elogio; epperciò noi amiamo meglio dar loro un'interpretazione più consentanea al vero, cioè Romanorum Patrono; del qual titolo venne forse decorato per acclamazione da tutto l'esercito in occasione di qualche bellica impresa da lui condotta a buon fine.

Ora chi porga mente allo stato morale di Roma in quei tempi, non istupirà vedendo come un torinese, condottosi in quella gran capitale, ed ivi non protetto che dall'acquistarvi cittadinanza, e non raccomandato che dalle sue proprie virtù, abbia potuto salire alle più alte cariche civili ed ai sublimi gradi nella milizia solto tre cesari, senza incontrare efficaci contrasti nella sua luminosa carriera per parte della sempre orgogliosa e prepotente nobiltà romana. Chè, non si tosto le vittorie delle guerre sannitiche e cartaginesi avevano assicurato a Roma da prima il principato d'Italia, e poi una maggioranza non dubbia sopra tutte le potenze del mondo, anche i cittadini particolari, qual per un modo e qual per un altro, avevano avuto opportunità d'arricchire. Le ricchezze dovettero di necessità sbandire da Roma quelle virtù che l'antica povertà vi aveva introdotte e mantenute alcun tempo. Tra gli altri vizi che seco menarono le ricchezze uno si fu la delicatezza, l'amor dell'ozio e dei piaceri, il rallentamento della militar disciplina, la quale ancora i piu nobili e riputati romani parvero abbandonare. Al riparo di un disordine così rilevante, il quale avrebbe presto rimenato al basso la romana possanza, si recarono opportunamente a Roma nuovi uomini dai municipii e dalle colonie novellamente ascritte alla cittadinanza, ai quali, per poter salire in credito ed agli onori, fu necessaria quella stessa industria e quel sollecito travaglio, che nelle passate elà aveva accresciuto lo stato dei Romani. I forestieri, cioè gli Italiani, i quali, o avanti la guerra sociale, o dopo, furono renduti capaci delle dignità e degli uffici di Roma, valsero grandissimamente a ravvivare le virtù dei Quiriti, e li ritennero da quella più rapida e più grave decadenza, in

cui sarebbero rovinati senza lo stimolo di nuovi emuli. Ol-
trecché, se il concorso de' provinciali d'Italia fu solamente
utile in sul primo nascere del lusso di Roma, essi furono
vieppiù necessarii coll'andar del tempo, allorchè, oltre ai vizi
dei principali di quella gran città, anche la plebe vi si era
incáttivita nell'ozio, nelle brighe del foro, e negli spettacoli,
e nelle feste, e nei pubblici banchetti che i grandi solevano
'dare in varie occasioni. Per la qual cosa tutta la soldatesca
che si potea scegliere da quell'immensa moltitudine di plebe
urbana omai era di ben poco rilievo. Quindi il nerbo delle
legioni, che prima componevansi d'uomini di Roma e del
romano contado, si vide formato di soldati Marsi, Apuli,
Vestini, Lucani, i quali tutti tanto erano di fatto migliori
soldati, quanto una volta erano stati più feroci e terribili
nemici di Roma. E si fu allora, che fiorirono capitani di
non romane famiglie, i quali, dagli ultimi gradi della mi-
lizia ergendosi ai primi uffizi ed al comando generale, li so-
stennero per difesa e ingrandimento dello, stato. Diffatto
Mario e Sertorio, due chiarissimi generali ed utilissimi, finchè
T'ambizione loro propria e l'altrui gelosia non li ebbero so-
spinti alla ribellione, ambidue nacquero in piccole città ita-
fiche, le quali da poco tempo avevano ottenuto i privilegi
'della cittadinanza. Al tempo di Cicerone già si contavano
́parecchi altri insigni generali delle armi romane venuti,
così di abbietta come d'illustre nazione, da' municipii e dalle
colonie. E Cicerone egli stesso può darci coll'esempio di
sè una nobile prova, che non solo nelle cose di guerra, ma
in tutte le altre arti della pace novelli cittadini furono a
'Roma di grandissimo vantaggio. E discorrendo col pensiero
'gli annali di Roma, dopo che in lei ebbe fine il governo
́repubblicano, talmente troveremo gli uomini nuovi, usciti
́da ogni città e da ogni borgo d'Italia, travagliarsi utilmente
'nelle cose dell'imperio, ch'essi sostennero quasi soli la di-
sciplina militare, la dignità del senato, lo splendore e la col-
'tura delle lettere; oltre ele rinnovarono e restituirono, per
quanto fu possibile, l'antica modestia e gravità di costumi;
mentre i discendenti delle antiche e più nobili famiglie di
'Romia marcivano neghittosi nell'ozio, si consumavano nelle
dissolutezze e si avvilivano bruttamente nelle più sordide

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adulazioni verso dei cesari. Mecenate toscano, Marcello Eprio di Capua, Vibio Crispo di Vercelli, Trasca. Peto padovano, Cassio Severo e Pomponio Secondo veronesi, Cecina di Vicenza ebbero nel primo secolo dell'impero romano pochi eguali nel senato e negli eserciti tra le più cospicue e numerose famiglie di Roma. Ed oltre questi e parecchi altri, de' quali difficil opera sarebbe di rintracciare l'origine, Vespasiano, che fu poi così utile principe, e così atto a riformare e ristabilir l'impero dai vizi de'primi cesari, e sì guastą ed afflitto dalle guerre di Ottone e di Vitellio, dei quali or or parleremo, era nato in un piccolo villaggio presso Arieti, Ed inoltre, fra tanti scrittori latini, per cui i tempi di Cesare e di Trajano vanno gloriosi, appena due o tre nacquero in Roma. Nè alcuno è mezzanamente versato nella letteratura latina, il quale non sappia che Ennio, Virgilio, Orazio, Catullo, Ovidio, T. Livio, Cornelio Nipote, Vellejo Patercolo, i due Plinii, comecchè tutti nati in Italia, non furono per altro romani d'origine o di nazione; e torna a vanto della nostra contrada, che sotto l'impero di Tiberio un novarese, Cajo Albuccio Silone, salisse in Roma, a grandissima fama, siccome valentissimo giurisprudente e così grande oratore, da meritarsi la stima e la benevolenza di Munacio Planco, uomo consolare, che in quella capitale era in voce di sommo oratore. A tal che del novarese Silone e della sua vittoriosa eloquenza fecero molti elogi Lucio Eneo Seneca, Fabio Quintiliano, ed anche l'eloquentissimo s. Gerolamo.

Rimettendoci ora sulla via, da cui l'opportunità richiese che alquanto ci scostassimo, diciamo che dopo il neroniano decreto, in forza del quale la città di Torino, che per breve tempo aveva fatto parte del regno di Cozio, ritornò sotto l'ummediato dominio de' cesari, nacquero tali disordini, che ad essa città furono cagione di grandissimo disastro.

Già per lo spazio di quattordici anni aveva Roma sofferto la tirannia del crudele Nerone, quando Giulio Vindice, pretore della Gallia, uomo intendentissimo dell'arte militare, rappresentò con animata eloquenza tutte le enormi scelleraggini, i veneficii, gl'incendii, i parricidi, le disonestà e le rapine di quel detestabile tiranno; rappresentò loro la vergogna dell'impero sotto un principe tanto infame, e quella

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de' soldati sotto un tale imperatore; ed esortandoli a sottrarre almefio se stessi da tanto obbrobrio, loro propose per Imperatore Serzio Sulpizio Galba, uomo di avanzata età e di molta sperienza nel governo politico e militare. In quel frattempo il senato dichiarò nemico di Roma Nerone, e tutto il popolo grido libertà, ond'egli col proprio pugnale si uccise. Così Torino passò con tutto l'impero sotto il dominio di Galba, il quale fu súbito riconosciuto împeratore dal sefiato è dal popolo romano; má eğli, trovandosi già infiacchito dagli anni, cominciò a reggere ad arbitrio di tre liberti, che per la loro mala condotta lo fecero cadere nell'abbominio universale; onde si vide essere più facile il deporre un principe malvagio, che lo eleggerne un buono.

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Non guari andò che i pretoriani arrogandosi, ad esempio di Vindice, l'autorità elettorale, ed ammirando in Marco Salvio Ottone un generoso ardire, ed una splendida liberalità, lo élesséro Imperatore, e per tale fu tostamente riconosciuto dal senato per timore, e dal popolo per leggerezza. Se non che l'arroganza de' pretoriani dell'esercito italico, risvegliò quella de' pretoriani dell'esercito germanico, i quali acclamarono imperatore Vitellio, che allora governava la Germania. Il senato atterrito mandò subito legati a Vitellio esponendogli che già l'Imperatore era eletto, ed esortandolo a non turbar la repubblica; ma Vitellio, ben sapendo che l'autorità insieme con la libertà del senato era spenta, spedi avanti le sue legioni, si fece ad occupare la cisalpina tra le alpi ed il Po, mise in Torino un poderoso presidio, e s'impadroni del passaggio delle alpi Cozie, non che delle altre che alla Germania sono più contigue. Ottone odiava la civil guerra per effeminatezza, che avea sembianza di virtù; epperciò si risolvette a fuggit dall'Italia: trovando egli chiuso il passo dei nostri monti, tentò di passare nella provincia Narbonese per la via del mare; ma ciò non gli venne fatto, perchè si trovò ravvolto in ogni parté dalle armi Vitelliane, ed il suo esercito costretto poi a combattere a Bobriaco tra Verona e Cremona, fu così sconfitto, che Ottone, perduta ogni speranza di salvezza e di libertà, si diede da per se stesso la morte. Vitellio allora trovossi nel tranquillo possesso dell'impero, e tra le prime sue cure dee notársi quella

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di'sgravare le afflitte provincie da tributi, dalle squadre ausiljari, dalle coorti, e legioni soperchie. Ma in siffatti movimenti delle truppe licenziate, accadde all'Augusta de' torinesi una grande calamità, che ci è narrata da Cornelio Tacito. Hist. lib. 2.

Doveva partir da Torino, e ricondursi in Bretagna la legione quartodecima, la quale vantavasi di essere ella sola di tutto l'esercito di Ottone rimasa invincibile a Bebriaco: insieme con essa dovevan partire le coorti de' Batavi, i quali stanziati anche in Torino avevano coi Britanni soldati incessanti contese. Accadde adunque che un Batavo insolente si fece ad altercare con un artefice torinese, e a dirgli parole ingiuriose per causa del prezzo di un certo lavorio: il che udendo un Britanno dell'anzidetta legione, il quale albergava in casa dell'artefice, si pose a difender vivamente l'ospite sulla pubblica piazza, la quale essendo piena di soldali, ne avvenne che presero parte alla contesa i commilitoni dell'una e dell'altra fazione; così che dai motti acerhi presto si venne alle ferite, alle uccisioni, e ne sarebbe seguita una grande strage, se due pretorie coorti, che erano di presidio in questa capitale, unite cogli abitanti, prendendo il partito dell'artefice e de' Britanni, non avessero costretti gl'insolenti Batavi a deporre le armi; ma qui non ebbe termine il male; perocchè nello spiantare il campo di notte tempo, i legionarii accesero tanti fuochi, che volando le fiamme da una contrada all'altra, gran parte della città fu incenerita: e nè dagl'incendiarii, nè da Vitellio, furono rifatti i danni che quell'incendio recò a Torino. Quod damnum, ut pleraque belli mala, majoribus aliarum urbium cladibus obliteratum. Così Tacito.

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- Ciò non pertanto i Torinesi non si sdegnarono, nè concepirono odio contro Vitellio, perchè lo credevano Principe desideroso di esser buono, se dalle insidie de' suoi malevoli fosse stato indotto a incattivire; ed invero i tempi correvano tristi per l'abusiva autorità degli eserciti nel creare e nel deporre i Cesari; ed allora appunto gli eserciti della Misia, della Pannonia e della Siria, conoscendo la matura virtù di Flavio Vespasiano, cominciarono a biasimare i giovenili costumi di Vitellio, e bramosi anch'eglino di far

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