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credere che i greci abbiano avuto a fare cogli abitatori del medesimo, cioè coi liguri d'occidente: anzi si tiene per certo ch'essi amaron piuttosto di spingersi nelle regioni meridionali d'Italia, il cui clima è più conforme a quello di Grecia. Non è però da tacersi che tra i borghi del novarese e del vercellese alcuni ve ne sono così appellati, che i loro nomi sembrano derivati dalla lingua greca. Un moderno scrittore s'indusse perciò a credere che l'origine e il nome di quei luoghi si debbano attribuire a qualche greca colonia quivi trasmigrata. Ma siccome da nessuno degli antichi storici e geografi impariamo che giammai passasse una greca colonia a stabilirsi in queste regioni, il dotto Durandi francamente asserì, che i nomi di quei luoghi, che pajono greci, o non sono sempre antichi, o radicalmente sono celtici, e furono poscia disguisati, od almeno che i loro fondatori furono romani o longobardi.

Abbiam detto qui sopra che Torino non fu primamente che un vico dei popoli che lo fondarono, e poichè gli diedero anche il loro nome, è probabile che fosse il più ragguardevole di quanti ne avevano in queste regioni, e fosse anche il luogo delle generali adunanze della loro nazione.

Siccome prima della irruzione dei galli non si memorano nelle regioni circumpadane neppure i principii de' luoghi e delle città, così puossi investigare quali dianzi siano state le primitive abitazioni dei taurini e degli altri circonvicini liguri. Intorno alla qual cosa un dotto autore osserva che i medesimi abitavano verisimilmente nella stessa maniera dei galli e degli antichi ispani, i quali ancora ne' tempi di Giulio Cesare fabbricavano le loro, case di creta, e le cuoprivano di canne e di frondi, ed altri le costruivano d'assi ed altri pezzi di legno, secondo la testimonianza di Vitruvio lib. 2, cap. 1, e di Strabone lib. 4: per lo più ciascuna famiglia si fabbricava una casa nel mezzo de' suoi poderi. Di qua trassero origine i paghi, ossieno cantoni, ch'erano parecchie case fra loro non contigue, le quali perciò non si possono chiamare nè città, nè borghi, ma erano bensì un distretto occupato da un certo numero di famiglie, che da se stesse si regolavano. Cotesti paghi erano da principio altrettanti piccoli stati divisi ed indipendenti la necessità di difendersi

contro comuni nemici li costrinse finalmente ad unirsi e formare una specie di repubblica. Dall'unione di cotesti paghi delle nostre regioni si formarono i popoli Lay, Libici, Levi ed Isumbri, che passarono poscia ne' galli discesi ad occupar le medesime. Laonde quando Appiano dice che Giulio Cesare sottomise quattrocento nazioni. di galli, dobbiamo intendere per nazioni tanti piccoli popoli formati dall'unione di alcuni paghi o cantoni, i quali però non erano tutti di uguale grandezza e popolazione.

: Adunque prima della venuta di Belloveso nelle nostre regioni non vi furono città, nè borghi; e per lo più i popoli abitavano spazi per le campagne nell'anzidetta maniera; e dopo l'invasione di Belloveso non ve ne furono, se non molto tardi, cioè quando la necessità di difendersi dai romani li costrinse sull'esempio dei loro nemici ad unire le case loro e fortificarle, cingendole di mura e di fossa; dalla quale unione ed opera si formarono a mano a mano i borghi

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le città. Così pensiamo doversi sagrificare alla verità l'ambizione di pretendere le nostre città, prodotte da un'origine maravigliosa tanto riguardo agl'immaginarii fondatori delle medesime, quanto anche per riguardo alla sognata loro antichità.

Le cose anzidette sono affatto conformi a quanto relativamente ai taurini, e agli altri loro connazionali stabilitisi nelle nostre regioni afferma il dotto ed accuratissimo Polibio. Secondo questo immortale scrittore i taurini e gli altri liguri nati alla guerra vivean senza lettere, esercitavano la gioventù non alle scuole, ma nella palestra, nella pastorizia, o negli agresti lavori; sicchè deposta la spada prendean la vanga, sempre occupati in campo, arando od armeggiando; e con uguale applicazione passavano dagli armenti alle armi, e dalle armi agli armenti. Traendo profitto dall'uno e dall'altro esercizio: nel rimanente vivevan vita semplice e lieta, nutrendosi di carni e di grani senza splendor di palagi, senza morbidezza di letti, perchè assuefacendosi alle gravi fatiche, ed ai bellici disagi, avean per abitazione un casolare, per coltrici lo strame, e molte volte la nuda terra per letto, dormendo a cielo scoperto. Vescebantur carnibus, dice il gran Polibio, in terra super strato gramine dormiebant; simplicem

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vilam viventes, neque scientiis, neque aliis artibus operam dabant, bellicas solummodo res atque agricolturam exercebant. Villas habebant nullis septas maenibus: apparatuum omnium prorsus expertes. Soggiunge lo stesso autore che i taurini e gli altri popoli loro confederati presentavansi in campo più ornati che armati, senza corazza ma con gran cuore, risplendenti di curti saji guerniti d'oro con collane al collo, armille alle braccia, e volanti pennetti in capo, che cagionavano ai nemici maraviglia e spavento. Divitias suas in auro et pecudibus habebant. Polib. lib. 2. Il più forte nervo de' taurini, era uno squadrone di catafratti coperti di lamiere di ferro da capo a piedi, sopra gagliardi destrieri similmente corredati di piastre; spettacolo ai nemici spaventevole e mostruoso, perchè ciascun cavaliero pareva, come fu detto da uno storico, un centauro di metallo, e tutti insieme apparivano quale un impenetrabile, ma mobile muro di ferro, combattendo con grandi targoni e pesanti clavi d'acciajo, alle quali non elmo, nè lorica poteva resistere; mai taurini fanti impugnavano chi l'asta, chi l'arco, e portavano curti scudi e grandi spade; locchè per altro riuscì poi loro di grandissimo svantaggio nel combattere contro i romani, che adoperavano spade curte e grandi scudi, siccome si vedrà in appresso. Il Sigonio lib. 2, de occid. Imper. così descrive i catafratti dei taurini. Exercitum Taurinorum, specie terribilem, reperit. Hi erant Clibanarii; nempe equi hominesque pariter ferri operimento septi, quo superne tectos equorum rectores, demissa lorica, et crurum tenus pendens, sine impedimento gressus a noxa vulneris vindicabat.

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L'evenimento, da cui prende il vero principio l'istoria non pur del Piemonte, ma di tutta la Lombardia, è la prima irruzione dei Galli in Italia, eseguitasi circa l'anno 589 avanti l'era volgare, 163 di Roma secondo i fasti consolariA quest'epoca la Gallia, ora Francia, nella sua parte meridionale era abitata da Liguri, e nella sua parte orientale stanziavano gl'Illirici o Celti, che trovando le orientali e bo

reali alpi, come anche le circostanti regioni tenute da altri Ilirici, si erano spinti oltre al lago di Costanza insino at Reno. Valicarono infine questo fiume e stabilironsi in quella parte della Gallia, che da essi ebbe il nome di Celtica. Colà si moltiplicarono gli uni e gli altri coll'andar del tempo siffattamente, che omai difettavano di vittovaglie, come lo attestano Livio lib. 5, cap. 34, e Giustino lib. 24, cap. 4. Ciò accadeva in un'epoca, in cui i loro merciai conducendosi in Italia per esercitarvi alcuni traffici, al ritorno in patria lodavano a cielo il fromento, le frutta, ed insomma tutte le produzioni dell'italico suolo (Polib. lib. 2, Plinio lib. 12), onde i più animosi di quei galli celtici, trovandosi in grande penuria di viveri, risolvettero di tentare l'ingresso nella nostra bella penisola, e non molto indugiarono a mandare ad effetto una tale risoluzione.

All'età di Tarquinio Prisco, 163 anni dalla fondazione di Roma, Ambigato, che dai Biturigi, i quali a quel tempo consideravansi come i più possenti tra i diversi popoli delle Gallie, era stato eletto re o capo supremo della nazione, si trovò costretto ad accondiscendere che i sudditi suoi cercassero in altro paese la propria sussistenza. Di essi per altro vi furono alcuni più timidi, cui piacque di ritornarsene appo i loro connazionali al di là del Reno: i più animosi si accinsero alla pericolosa discesa in Italia per la malagevole via delle alpi. Ambigato destinò a guidare l'impresa due figliuoli di una sua sorella, cioè Sigoveso che muovesse al di là del Reno, e Belloveso che venisse in Italia. Livio lib. 5, cap. 34, Giustino lib. 24, cap. 4. Uscirono allora dalla Gallia per ambe le parti trecento mila combattenti, non comprese le loro famiglie, che con essi migravano d'una in altra contrada, secondo la consuetudine di quei popoli (Plutarco in Camil.). Tito Livio nel precitato lib. 5, copiando, per quel che accenna egli stesso, in chiari termini ciò che altri avea scritto, o che per tradizione erasi conservato, racconta che quei due principi nipoti di Ambigato, rimesso avendo alla decision della sorte, o de' numi in qual parte ciascun d'essi dovessero avviarsi e stabilirsi colle loro truppe, la sorte decise che Sigoveso prenderebbe la via verso la selva Hercinia, cioè la Germania, e Belloveso quella delle alpi e

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dell'Italia: di Sigoveso non è qui a proposito di parlare. Belloveso, premesse le solite consulte degli auguri o degli indovini si mosse verso il nostro paese. Si avviarono con lui verso l'Italia sette distinte tribù di galli unitamente ai loro clienti, cioè quelle dei Biturigi, degli Arverni, degli Ambarri, de' Senoni, degli Edui, de' Carnuti, degli Aulerci. La capitale de' Biturigi, ora Berrì, era la sede di Ambigato re di tutta la Celtica nazione: gli Arverni abitavano il paese or detto Auvergne: gli Ambarri stanziavano nella contrada che or forma il dipartimento della Saona: gli Edui occupavano il distretto di Autun e gran parte della Borgogna: i Senoni tenevano le terre di Sens e di Auxerre: dai Carnuti era abitato il paese di Chartres: gli Aulerci si erano estesi in tutto quel tratto che ora chiamasi il dipartimento della Sarte.

Per riguardo al passaggio dei Bellovesani per le nostre alpi il Denina discorre nei seguenti termini: « niuno degli storici greci o romani, nè dei moderni italiani o francesi si diede pensiero, per quanto sembra, di cercare per qual parte delle alpi Belloveso passasse; dove che infiniti scrittori si travagliarono per trovare il cammino che poi fece Annibale due secoli dopo. E pure non era difficile il trovarlo, dopo che Sigonio, Alciato, e più altri critici avevano rettificato uno sbaglio preso da copisti, in conseguenza dagli stampatori, leggendo in un luogo di Tito Livio, Julias invece di invias. Persuaso assai più di loro che in quel testo debbe leggersi invias, io non dubito di affermare che i galli condotti da Belloveso in Italia, passarono pel Monviso, e fecero probabilissimamente la strada, che poi fecero i cartaginesi condotti da Annibale. La via più diritta e men difficile che poteva prendere Belloveso partendo dai Tricastini, tende dirittamente verso il Monviso. Alla discesa di questo monte che è dei più alti in tutta la continuità delle alpi, vi è un braccio dello stesso monte chiamato volgarmente Mombracco. A piè di questo monte Bracco trovasi un villaggio chiamato Envie, e negli atti curiali Inviae. Mombracco è parola certamente composta del nome sostantivo latino Mons, e di un aggettivo celtico Brac, che significa incolto. Infatti dalla sommità di Mombracco, dove si sale senza difficoltà dal lato set

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