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Tillemont ed il dotto piemontese Brunone Bruni delle scuole pie in Roma, editore delle opere di s. Massimo, sotto gli auspizii del sommo pontefice Pio VI, che a questo proposito così parla: non sum nescius vulgo eos, i ss. Solutore, Avventore ed Ottavio, accenseri Thebane Legionis martiribus, nihil autem esse causae video, quamobrem ab aliis discedam. Diffatto, come osserva assennatamente il benemerito Semeria, noa trovasi alcun antico martirologio, che riportando il martirio de' santi Tebei, esprima il proprio loro nome, eccetto che di Maurizio, Esuperio, Candido, Vittore e Secondo; al che si vede che posero anche mente i Bollandisti. Se si prescinde di questi soli pochissimi, noi ignoriamo affatto il nome degli altri martiri Tebei: si fanno congellure arbitrarie, supposizioni gratuite, e non mai appoggiate a sicuri monumenti, dice Ruinart: Thebeorum martirum nomina, si ea excipias quae ab Eucherio recensentur, nobis prorsus ignola sunt. Eucherio, di cui il Ruinart fa cenno, era vescovo di Lione sul principio del secolo v, e fu quegli che scrisse gli atti autentici del martirio della legione Tebea, i quali atti vennero scoperti dal P. Chifflet, e poi inseriti nelle loro opere dai predetti Ruinart, Tillemont, da Fleury, e dai Bollandisti. Non avvi adunque ragione di spogliare Torino dei tre santi suoi martiri, per attribuirli ad una legione orientale, la quale non appartenne alla nostra capitale nè per la nascita, nè per una lunga stazione. La nostra opinione acquista vie maggior peso dall'autorità di s. Massimo, che chiamò torinesi i ss. Solutore, Avventore ed Ottavio, i quali probabilmente furono martirizzati in quello spazio che giace tra la porta Palazzo e il fiume Dora, da dove i loro corpi furono presto trasportali nel sito in cui fu poscia eretta in loro onore la chiesa di s. Solutore, ed ove sorge ora la cittadella. E 'qui posteriormente si fabbricava un monastero, di cui dovrem fare parola nel corso di queste memorie storiche. Narrano alcuni scrittori che s. Solutore ferito, ma non ucciso in.Torino, potè ancora sopravvivere, e fuggire ad Ivrea, ove avendolo riconosciuto i cesariani, lo decollarono; che saputosi il fatto da una gentil donna di quella città, di nome Giuliana, fece trasportare quel sacro corpo a Torino; e che molti prodigi avvennero in questa traslazione; cose tutte, dice il

Semeria, che scritte primamente da Guglielmo vescovo di Torino, nel 900, si posson leggere in varii autori e segnatamente nel buon Gallizia. Ma non dobbiamo tacere che questo racconto non trova credito presso gli scrittori più illuminati, i quali con giudiziosa critica indagano la verità delle cose, anche comunemente asserite; e merita tra ques sti particolare stima il Tillemont, il quale opina che s. Solutore sia stato trucidato, cogli altri due in Torino; nè si saprebbe da noi centraddir alle ragioni che adduce quel

Sommo autore.

Dicemmo che s. Massimo chiamò torinesi i santi martiri Solutore, Avventore ed Ottavio; ed ora aggiungiamo ch'egli in un suo sermone recitato in natale sanctorum martirum, parla lungamente di questi tre eroi della fede come di altrettanti nostri cittadini che vissero fra noi, e ci ammaestrarono nella religione con la buona loro conversazione, e con la tolleranza eroica de' patimenti: noi pertanto li dobbiamo onorare con una particolar venerazione, per aver essi versato il sangue nella nostra città, nelle case nostre: et in nostris domiciliis proprium sanguinem profuderunt; e neppure con una parola ci lascia sospettare il santo vescovo che fossero Tebei, o nati in paese straniero. L'autorità di s. Massimo è di tanto peso, conchiude il dotto editore di sue opere, che una maggiore non potrebbe desiderarsi: hos cives fuisse taurinenses Maximus praedical, cujus certe permagni pendenda est auctoritas.

Sul luogo della sepoltura di questi tre santi martiri torinesi solevano i primitivi fedeli radunarsi all'orazione ed al sacrificio, e quel sito, come già si è accennato, divenne un tempietto, siccome avveniva in tutti i luoghi della terra, ov'era accaduto il martirio di qualche cristiano, ed ove le reliquie de' ss. martiri riposavano. Se questa prima chiesuola sia stata eretta da s. Giuliana, e se questa piissima vedova fosse nativa d'lvrea, è questione non ancor bene decisa. Il Semeria la reputa torinese per le forti ragioni addotte dal chiarissimo Tillemont: certissima cosa è che di essa santa non abbiamo altra notizia, e non sappiamo il tempo che sopravvisse, nè il luogo, nè l'anno di sua morte: quid deinde (così i Bollandisti) egerit Juliana, quamdiu vixerit quo anno, mense, dieve obierit, nusquam legimus.

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La chiesuola eretta da s. Giuliana è perciò riputata come il primo sacro luogo, in cui radunavansi anche in tempo degl'imperatori gentili i torinesi che si convertivano alla fede, il cui numero, in onta dei loro persecutori, ogni di più cresceva, sì per l'efficacia della divina parola, bandita da zelanti ed intrepidi sacerdoti, sì perchè anche i gentili non potevano a meno di ammirare la santa vita di que' sa? cerdoti, e le preclare virtù onde risplendevano i già convertiti, e sì principalmente perchè il sangue de' martiri mirabilmente fecondava i semi della divina parola; a tal che nella prima metà del secolo xiv già la chiesa torinese noverava ben molti fedeli, onde presto divenne fiorentissimą sotto l'imperatore Costantino, non già per qualche particolare atto di sua munificenza verso la nostra capitale, che gli agevolò il conquisto d'Italia, e per conseguente la signoria del mondo, e a cui dovette pur essere in singolar modo riconoscente, ma sibbene con quel memorabile suo decreto con che diede la calma a tutta la cristianità, permettendone il pubblico culto, siccome dimostreremo, dopo avere in brevissimi termini esposto in che trista condizione si trovasse l'Italia, ed anzi tutto l'impero, quando Costantino risolvette d'impadronirsi della somma delle cose.

Correva l'anno 512, quando si vide l'imperio romano occupato da sei imperatori, non già usurpatori manifesti, quali erano i tiranni ai tempi di Gallieno, ma tutti e sei aveuti o certo o probabile diritto alla dignità che occupavano: insigne prova di quanto vaglia un solo cattivo esempio a produrre rivoluzioni grandissime nei governi. Appena erano scorsi quattro lustri, dacchè Diocleziano avea dato il primo esempio di divisione nell'assumersi per compagno il feroce Massimiano; ed ora ciascuno de' principi credevasi in diritto di crearsi colleghi a sua scelta, ed ogni capitano di qualche riputazione persuadevasi di meritare dal suo signore la por→ pora imperiale. Ma quello che deve parere ancora più strano si è che di questi sei imperatori non ve n'era pur uno che fosse nè romano, nè italiano; e già sì poco si facea conto o d'Italia o di Roma, che Galerio, il maggiore ed il princi pale de' sei augusti, di cui faccia cenno, aveva fatto pensiero, sbrigato che si fosse de' concorrenti, di trasportare la

sede dell'imperio nella Dacia, ov'egli era nato, e di chiamarlo imperio Dacico invece di Romano: nè durante il suo lungo principato entrò mai egli in Roma, ed una sola volta se le avvicinò per assediarla, e forse per distruggerla.. Del resto è facile l'immaginare quai tristi movimenti cagionasse all'imperio questa moltiplicità di sovrani. L'Italia fu il teatro principale delle guerre che ne seguirono, e più particolarmente sentì le calamità che la tirannide, la discordia produsse.

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Severo, intesa l'esaltazione di Massenzio, si recò ad assediarlo in Roma: i soldati ch'egli condusse dall'Africa, predarono tutto il paese dove passarono. Questi stessi soldati, allettati dalle speranze che Massenzio loro diede di tenerli nelle delizie di Roma, abbandonarono Severo, il quale · lusingato e tradito da Massimiano, morì poco dopo in Ravenna. Galerio creò Augusto, in luogo di lui, Cajo Licinio, e venne incontanente egli stesso dall'Illirico per mandare ad effetto l'impresa mal cominciata dal suo collega; e fu quella la prima volta e la sola che si avvicinò alla capitale dell'imperio. Ma vedendosi correr rischio d'essere egli pure abbandonato da' suoi, come il fu Severo, costretto a ritirarsi, lasciò dare a quel che gli rimaneva delle sue truppe orrendo guasto a un lungo tratto di paese italiano. Cosìtiranneggiata Roma da Massenzio, l'Italia manomessa e predata prima verso il Mediterraneo da Severo, e poi verso l'Adriatico, era nel medesimo tempo smunta dalle esazioni di Massimiano, spezialmente nell'Insubria, dov'egli aveva tenuto la sede principale del suo dominio avanti l'abdicazione, e dov'egli era più facilmente obbedito e temuto.

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Il vero è che poco dopo mori Galerio nell'Illirico; e Licinio, fatto da lui augusto, e lasciato come successore, distratto e molestato dalla parte d'oriente da Massimino suo emolo, nulla potè intraprendere riguardo all'Italia, e Massie miano Erculio si partì per andare qua e là cercando stromenti alla sua ambizione. Ma l'Italia, rimasta sotto il dominio del solo Massenzio, non ebbe per questo miglior destino. Com'egli non avea nè talento per governare, nè l'amore, nè l'obbedienza dei popoli, pose tutta la fiducia nell'affezione e net numero de' soldati, per sostenere i quali

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impoverì colle esazioni i suoi sudditi, ed affamò le città e le provincie per assicurare alle sue truppe l'abbondanza dei viveri. Oltre alle gravezze insopportabili che pose a Roma e in tutta Italia, la licenza sfrenata che lasciava alla soldatesca per ritenersela affezionata, l'esempio che ognuno prendeva degli andamenti del Principe, moltiplicavano i tiranni, quanti erano gli uffiziali, o possiam dire i soldati.

In questo tempo regnava Costantino con somma riputazione e gloria nelle Gallie, e in tutte le provincie che avevano obbedito a Costanzo suo padre, morto poco innanzi che Massenzio prendesse la porpora in Roma. Costantino, o più ambizioso del padre, che lo aveva eletto a succedergli nel comando, o più pietoso alle calamità d'Italia, rassettate le cose dell'imperio coi Franchi, evitate ed alla fine vendi. cate le malvagie trame del suocero Massimiano, deliberò di scendere in Italia per liberarla dalla tirannide di Massenzio. Se non che non era facile ch'egli potesse colorire il suo alto disegno, tanto parea legittima l'elezione di Massenzio in Roma, quanto quella di Costantino nelle Gallie; ma in favore di Massenzio eravi l'essere stato eletto coll'assentimento del popolo, e coll'autorità del senato; ed inoltre la possessione di cinque e più anni; perocchè in Roma tutti gli atti civili e militari si facevano sotto il nome imperiale del solo Massenzio, a tal che lo stesso Marcello romano pontefice avevalo riconosciuto come romano imperatore, ed anzí come benefattore della chiesa, perchè risulta che tra i primi atti di Massenzio, eseguiti col nome e coll'autorità imperiale, furono alcuni rescritti a favore de' cristiani prigionieri; i quali atti benefici per altro furono poscia da lui rivocati a danno della chiesa cattolica, e con grande disgusto dell'anzidetto papa Marcello. Egli è vero che si opponeva a Massenzio l'essere creduto un parto supposito, ma correva pur voce che il suo emolo Costantino fosse un parto illegittimo. Per queste ragioni, Massenzio, quantunque già venuto in abbominio presso gl'italiani, pure non si dubitava in Italia della ·legittima sua imperiale sovranità ; e quando Costantino mandò a Roma la sua immagine, come usavano gl'imperatori, dopo una lontana elezione, Massenzio con pubblico ludibrio disonorò quel simulacro, ed anche il popolo se ne fe' beffe. Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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