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giunto all'Italia le provincie delle alpi marittime, cozie, graje
e pennine, che gli aprivano facilmente l'ingresso alle Gallie.
Ora Costantino riuni alle Gallie le alpi marittime, graje e
pennine: le cozie, già formanti una provincia, che compren-
deva il Brianzonese, la Moriana e la valle di Susa insino al·
Po, ed aveva un presidio suo proprio, furono da Costantino
unile alla Liguria e formarono una sola provincia, cui diede
il singolar nome di Cozie Alpi. Così una tale provincia e-
stendevasi da quelle alpi, dal Malone e dal Po alla Trebbia,
ed al mare ligustico sino alle alpi marittime; epperciò To-
rino veniva compresa in quella vasta provincia. All'incontro
diè il nome di Liguria alla regione traspadana dal Malone
insino all'Adda; e così Milano divenne la capitale della nuova
Liguria. Adunque le undici regioni d'Italia stabilite da Au-
gusto furono distribuite da Costantino in diciassette pro--
vincie. La qual distribuzione si mantenne cogli stessi con-
fini e cogi stessi nomi sotto i seguenti imperatori romani,
poi sotto i Goti ed i Longobardi, poi al tempo degli impe-
ratori franchi, ed ancora sotto gli imperatori tedeschi.

Zosimo scrittor pagano e Giuliano apostata, e dopo loro Montesquién e Voltaire, intenti a copiar dagli antichi tutto ciò che può screditare la religione cristiana protetta e favorita dall'imperator Costantino, si adoperarono con ogni possa a dipingere con neri colori questo monarca, che pure dalla più parte degli altri storici vien celebrato con molte lódi e cognomirato il Grande. Noi lo accusammo di sconoscenza verso i Torinesi e gli altri popoli circumpadani; lo accusammo di non aver alleviato nè queste, nè altre italiche genti, che al suo avvenimento al trono trovavansi oppresse da incomportabili mposte; altri scrittori dicono ch'egli in due cose principalmente si meritò gran biasimo; l'una di aver abbandonato Roma, antica sede di sì gloriosa repubblica, l'altra d'aver indebolito l'imperio colla divisione che né fece; ed in vero srana cosa parrebbe, e poco credibile, a voler dire che quest fatti non sieno riusciti di pregiudizio alle cose d'Italia. Ma dove si abbia riguardo alla condizion di quei tempi ed alle vere od almeno probabili cause onde procedettero quest avvenimenti nella storia famosi, troveremo forse che Costantino dee esserne scusato. Ed in

vero questo imperatore non solamente non trovava più niente in Roma che potesse allettare i monarchi a risiedervi, ma il, fasto intollerante della nobiltà, la licenza della plebe, la malvagità degli uni e degli altri erano stimoli fortissimi ad abbandonare quella città. Le persone di nascita e qualità ragguardevole, quelle almeno che erano avvezzate alle cru deltà ed al sospettoso animo di tanti tiranni, non potevano fare a meno di sprezzare gl'imperatori, avendo veduto che parecchi di essi, tratti dalla vanga e dall'ovile, erano venuti dalla Dalmazia, dalla Dacia e dalle ultime Bretagne ad esercitare il supremo potere. Il popolo e la plebe, avvezzi a pascersi ed a sollazzarsi delle grandezze e degli spettacoli degli imperatori precedenti, mal sopportavano la meschinità ed il risparmio degli ultimi cesari, i quali, oltre al ritirar la mano dal donare, avevano già cominciato ad imporre gratezze a Roma esente per l'addietro da ogni tributo. Diocleziano, principe assai temuto, portatosi a Roma dopo aver dato selice termine alla guerra persiana, fu talmente offeso dille satire e dai motteggi de' Romani, che dispettosamente si ne parti sulla fine di dicembre senza voler pur aspettare le calende di gennajo, giorno in cui doveva egli entrar console la nona volta; ma la cattività de' Romani si mostrò verso Costantino tanto più acre e maligna, quanto ch'egli, professando il primo tra i cesari la religione cristiana, era più contrario alle voglie del senato e del popolo, immersi ancora in gran parte nella superstizione gentilesca. Venuto egli a Roma nell'anno 326, ventesimo del suo regno, per celebrarvi le feste, secondo il costume, che chiamavansi vicennai, fu con modi straordinarii deriso e schernito dai Roman: Non mancavano a questo, quantunque gran principe, difeti notevoli, che po tevano dar materia di motteggi e di sative all'ardito volgo; ma la sua professione di cristiano e l'aver egli abolito le profane cerimonie che si facevano nelle solennità vicennali, irritava la malvagità della plebe e lo elo superstizioso dei senatori.

Indispettitosi Costantino per quest ingratitudine, fece pensiero di abbandonar Roma per sempre. S'aggiunse a questo un altro stimolo per avventura non meno potente. Era l'Imperatore avido smisuratamente di gloria; affetto che

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rare volte si biasima nei Principi, ancorchè spesso degeneri in viziosa ambizione. Quest'avidità di gloria, unita al genio inclinato a fabbricare, determinò Costantino ad edificare una nuova città, che gareggiar potesse di grandezza con Roma. Il sito opportunissimo di Bisanzio, un affetto particolare a quel luogo, dov'egli avea superato il suo emolo Licinio, non ne lasciò dubbiosa la scelta.

Trasse Costantino alla nuova città con ispeciali favori e privilegi, quanto più potè maggior numero d'uomini. Le franchigie che diede a' mercatanti rivolse la maggior parte del commercio a quella nuova città. Statue, colonne, oro e metalli furono in gran copia tolti da Roma, e portati a Costantinopoli; oltrecchè, tutti quanti si poterono trovare per l'imperio artefici, tutti colà si condussero. Ciascun vede che per tali ragioni dovettero scemar grandemente le popolazioni e le ricchezze d'Italia, e che un danno per se stesso grandissimo recò a Roma la passione ch'ebbe Costantino di far grande e fiorita e abbondante la sua novella metropoli: al quale danno se n'aggiunse un altro assai grave; perocchè la città di Roma, prima che Costantino l'abbandonasse, ali mentavasi quasi intieramente del grano, condottovi dall'Africa e dall'Egitto sin dagli ultimi tempi della repubblica, · vale a dire dopo che si fu introdotto fra i Romani l'uso dei parchi e de' giardini. E questo Imperatore ordinò che Roma si fornisse del grano dell'Africa, e destinò alla nuova città quello dell'Egitto. Così di due granai un solo ne rimase ai Romani, e diventò maggiore il pericolo di essere travagliati dalla fame. Veramente Costantino vide allora la necessità di dare alcune leggi per favorire la coltivazione delle terre d'Italia, che in ogni parte eravi negletta per le trascorse dolorose vicende; ma tutti sanno quanto sia più agevole il tirare in pochi mesi le migliaja d'uomini a vivere nelle grandi città, che ridurne in molti anni un picciol numero alla campagna. Tuttavia se questo Principe avesse impiegato a riformare e migliorar l'Italia quell'attività, quella diligenza, e quel danaro che profuse nell'edificar Bisanzio, grandi cose erano da sperare. Ma il genio troppo morbido di Costantino, poco atto a promuovere la vita rustica e laboriosa, ed. avidissimo, com'egli era di gloria e di rinomanza, stimava es

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sere più spedito mezzo, per acquistarla, ergere dalle fondamenta una gran metropoli, che render le italiane campagne più fertili, e ristorarvi e ripopolar le città desolate dalle precedenti guerre. E il dispetto concepito contro i Romani“, lo infiammava a deprimerli: nel che sarebbe forse da dire che in questa parte mancassero al gran Costantino le massime della morale evangelica.

A malgrado di tutto ciò grandissimi furono i vantaggi clie derivarono dalla protezione che questo gran Monarca volle concedere ai cristiani, il cui numero s'acerebbe presto in tal modo, che nella stessa Roma, siccome apparisce da un'epistola di s. Gerolamo ad Laetam, dopo la metà del secolo iv,« pieno di› squallore già era il Campidoglio, di densa polvere e ́diˇtele di ragno eran coperti i delubri del gentilesimo omai rovinanti, e il popolo romano correva in folla alle tomber in buon nu

dei martiri. 1 Torinesi già convertiti allalla alle tomber,

mero, e quelli tra loro che pel timore di novelle persecuzioni ancor si ristavano dall'abbracciare il cristianesimo, apriróno il cuore alla gioja, quando Costantino nell'anno 524 volle concedere che si esercitasse pubblicamente il culto della religione cristiana, e tanto più se ne rallegrarono, quando furon fatti consapevoli, che sulla tomba di Cristo, ov'era stato edificato dal gentili un tempio a Venere, egli ne costrusse uno stupendo, dedicandolo al Salvator Risuscitato, pubblicando intanto, per abolire le reliquie del 'paganesimo, un'editto, con cui diede ampia facoltà di edificar chiese, ed anzi di cangiare i profani delubri degl'idoli in basiliche del vero Dio, e de' suoi santi; e vuolsi appunto che allora i templi d'Iside e di Diana, che sorgevano in Torino, fossero destinati al culto cristiano, mentre, crescendo ogni di più il novero dei Torinesi che divenivano seguaci di Cristo, si edicavano chiese novelle; e non v'ha dubbio che assai prima dell'anno 400 una vasta basílica sorgeva in Torino, essendosi in essa raunati in quell'anno a concilio più vescovi e sacerdoti delle Gallie, oltre agFitaliani, come : narreremo, dopo di aver fatto cenno di un instituto, creato da Costantino; istituto pio, inspirato dalle massime del vangelo, e in que' témpi utilissimo, il quale presto s'introdusse nelle terre, che furono poi comprese nella diocesi torinese:

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vogliam parlare de' Fossori cristiani. Il gran Costantino fu ́quegli che instituì il primo ordine di Fossori laici in Costantinopoli, avendo assegnato novecento ottanta officine di diversi artefici e collegi d'arte, acciocchè avessero cura dei cadaveri de' fedeli, tanto nel recarli alla chiesa, quanto in. seppellirli; per il che esentò dal peso de' pubblici uffizii e de' tributi i collegi e le officine che dovevano somministrare i Fossori, altramente appellati Lecticarii, Decani, ed anche Copiatae, ai quali apparteneva la cura dei funerali.

L'autore del libro de septem gradibus ecclesiae, attribuito falsamente a s. Gerolamo, parla de primo gradu ecclesiae, qui Fossoriorum ordo est, è soggiunge, primus in clericis Fossoriorum › ordo est. Ne' primitivi tempi della chiesa esercitarono questo impiego anche molti nobili uomini, e parecchie matrone. L'ufficio de' Fossori era di scavare i sepolcri ne' cimiterii per i cristiani defunti, e di seppellirveli: perciò si veggono i loro ritratti dipinti negli antichi cimiterii, aventi in mano ed intorno tutti gli arnesi necessarii ai loro lavori. Tra varii di questi ritratti, che furono pubblicati dagli autori della Roma sotterranea, sono osservabili uno riportato dal Boldetti, ed un altro impresso nel secondo volume delle scolture e pitture sacre, estratte dai cimiterii di Roma. Per lo più essi Fossori tengono in mano la gravina, strumento attissimo per lo scavo de' selpocri. Tra altri loro istrumenti. vi si vede anche il compasso per le consuete misure. Dalla distinzione che nei vetusti campisanti si vede fatta ai Fossori, si ritrae, che il loro ufficio era stimabile. Una lapide, antica che venne dissotterrata in un sito, che poi appartenne alla diocesi, torinese, cioè presso la vetusta città Germanicia, dalle cui rovine sorse il distinto borgo di Caraglio, chiaramente attesta che ivi erano i pietosi Fossori: se per avventura quella lapide ci si fosse conservata intiera, forse› alcun lume potrebbe riflettere su qualche punto della storia a ecclesiastica de' primi secoli; essa conteneva, da quanto si afferma da chi la vide intiera, dieci linee di scritto in bellissimo carattere, romano. Più non vi si leggono che le se-a guenti parole:

AD

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CRESTIANIS. FOSSORIBVS

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REFRIGERIVM. XC. IN PERP

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