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leschi, raccolse un fascio di errori, assai più assurdi che
quelli del gentilesimo: allora uscirono fuori gli Eustatiani
i. Massaliani, i Jovíniani, i Donaziani, i Prisciliani, i Nestorii
ed altri eretici, da cui fu desolata la chiesa di Gesù Cristo;
e non vuolsi tacere, che anche da' sacri chiostri, e dagli e-
remi, uscirono in quel secolo dottrine tanto più empie e
dannevoli, quanto più vestite di pietose apparenze.

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Ma la più pestifera eresia fu quella degli Ariani, che nata nell'Egitto, ottenebrando gl'intelletti sotto colore d'illuminarli, era da molti condannata ed abborrita, e da non pochi difesa ed abbracciata; a tal che essa finalmente armò cristiani contro cristiani, vescovi contro vescovi, città contro città, ed anzi regni contro regni: si vide allora che maggiori virtù fiorirono tra i seguaci di Cristo durante le stragi eseguite per ordine di barbari Imperatori, che nella calma e nella pace; perocchè alla santa chiesa fu men perniciosa la persecuzion de' tiranni che quella degli eretici: perocchè quelli le erano scoperti nemici, e questi erano lupi, vestiti alla foggia di agnelli; quelli impugnavano apertamente le armi, questi tenean nascosti i loro pugnali; per la tirannide di quelli vieppiù cresceva la fede, e per le frodi e gl'inganni di questi, la fede era distrutta nell'animo di molti. Le moltiplici eresie sorte in quell'epoca sciagurata, dopo aver contaminato l'Asia, l'Africa, e yarie parti d'Europa, venne anche nell'Italia, e vi produsse funesti effetti; perocchè non pochi di quelli, i quali, dovevano con la dottrina, o con la forza reprimere gli errori ne restarono sgraziatamente infetti. Quindi è che lo stesso imperatore Costanzo, il quale in principio del suo governo fu tanto zelante estirpatore dell'idolatria, che con saggi decreti proibì che negli eserciti romani si ascrivesse alcun milite, se non battezzato, e che il primo de' cesari condannò alla pena del capo gli adoratori degl'idoli; pure cadde anch'egli nell'Arianesimo. Nato egli d'ingegno mediocre, ed imbevuto per tempo de' costumi orientali, fu schiavo perpetuamente de' suoi eunuchi: questi e gli altri vili suoi cortigiani lo preoccuparono in favor degli Ariani, ossia che fossero dall'astuzia, e da' donativi dei pseudovescovi, capi del partito infame, sedotti; ossia che credessero di assicurar meglio la propria autorità imbarazzando

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il Principe nelle dispute di religione, e distraendolo dagli affari del governo. Così doppio danno ricevette il mondo cristiano dal favore che Costanzo prestò a quella setta. Le violenze che al suo tempo si fecero a' vescovi congregati a Smirnio, in Milano, in Rimini; l'esilio di papa Libério e di molti santi prelati, mescolarono di molto amaro la dolcezza di quella pace che sotto il regno di quel Monarca avrebbero goduto l'Italia e le altre provincie che trovavansi lon tane dai movimenti delle guerre straniere. Ma l'altro forse ancor più notabile danno che il furore dell'ariana eresia recò allo state politico dell'imperio sotto questo Principe. fu ch'egli, intricatosi sempre più nelle controversie ecclesiastiche, nelle quali volea farla da arbitro, lasciava alla discrezione d'indegni ministri le cure del Principato; e vedremo in appresso quali triste conseguenze ne sieno da ciò derivate. Fatto è ch'egli maltrattò i Pontefici che procuravano di ajutarlo, e morì Ariano; quindi Licinio non sapendo che si credere come povero di lettere, affine di far cessare le dispute teologiche, chiuse tutte le scuole; e Giuliano, che era fornito di non poca istruzione, non volendo acconciarsi alle massime eterne del vangelo, deliberò di troncar le controversie de' cristiani col ravvivare il gentilesimo. Da` tutte le anzidette pestifere dottrine furono preservate Torino e la diocesi torinese, che alla romana chiesa serbarono fede incorrotta: al che sommamente contribuì l'apostolica vigilanza di s. Massimo, il quale avendo veduto sorgere al suo tempo tutti quegli eresiarchi, a tutti oppose il suo petto, munito di verace pietà, e di celeste dottrina: egli era veramente l'uomo attissimo ad allontanare dal suo popolo le nuove empie dottrine; perocchè oltre all'essere dottissimo, era irreprensibile ne'suoi dogmi, come ne' suoi costumi, e fu perciò da tutti gli scrittori ecclesiastici celebrato come scrittore divino. Avendo egli adunque osservato, che ripari ben deboli contro le eresie sono i ferri e le fiamme, perchè ciò che atterrisce gli occhi, non persuade le menti, insegnò che niun mezzo più sicuro lasciò Cristo a' suoi fedeli per estirpare gli errori, che il conservare l'uniformità della fede con la conformità de' particolari concetti al sentimento universale; perchè le menti degl'individui si possono ingannare,

ma la chiesa cattolica non può mentire. Stabilì pertanto come eterno fondamento della cristiana credenza il simbolo degli apostoli da lui con molta dottrina, e con pari schiettezza' spiegato, non mai allontanandosi dalle primitive tradizioni, dai decreti de' concilii, e dalle definizioni de' sommi Pontefici. Quindi è che tra i moltiplici errori di quel secolo, it nostro s. Massimo venne riputato l'oracolo della verità. E diffatto contro tutti quegli errori combattè acremente questo gran vescovo, non meno nei pubblici suoi discorsi fatti ai Torinesi, che ne' suoi privati colloquii; e basta leggere le sue omelie per conoscere la sapienza con cui distingueva i veri da' falsi dommi, la cautela con cui raccomandava a' suoi diocesani l'abborrimento di ogni errore, l'amore che professar dovevano alla purità della fede, e l'obbedienza alla s. Sede. Così gli venne fatto di vedere che i Torinesi e gli altri suoi diocesani non caddero nelle reti, nè degli ariani, nè degli altri eresiarchi, da cui era tribolata la chiesa di Gesù Cristo.

Ciò non ostante è da credere che l'infausto rumore, onde era assordato il mondo cattolico da tanti errori audacemente sparsi qua e là nelle popolazioni, abbia contribuito a rattiepidire il fervore dei Torinesi nell'esercizio dei loro doveri ; ed invero vediamo che s. Massimo nel suo sermone XXV insiste caldamente sopra l'osservanza de' digiuni, sopra la frequenza alle ecclesiastiche funzioni nei giorni festivi, e specialmente intorno alla partecipazione de' sacramenti; ve n'ha di quelli, ei dice, che ne' giorni di domenica tralasciano d'intervenire alle funzioni della chiesa per trovarsi ad un banchetto de' mondani; tralasciano di cibarsi della mensa caristica, e al sagrosanto alimento della religione preferiscono l'ingordigia della gola. Quo cos apud Deum vocabulo nuncupabimus? Ne' giorni di festa, continua egli, cessano le cure del foro, tacciono i giudizii de' tribunali, e queste ferie vennero instituite espressamente per attendere con più assidua diligenza a' doveri della religione; e v'ha di molti, che abusando de' giorni festivi, li passano nelle gare dell'ambizione, nella pompa delle vanità, ne' disordini della lussuria, e così si aggravano di maggiori peccati in tempo, in cui Iddio richiede dai cristiani maggiore illibatezza di costumi. Queste

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ed altre tali rimostranze produssero ottimo effetto negli animi de' Torinesi: più sovente d'allora in poi frequentavano essi la basilica, assistevano più devoti alla celebrazione dei divini uffizii, ed assiduamente intervenivano ad ascoltare la divina parola. È facile lo immaginarsi quanto ne gioisse il santo pastore, ma la sua letizia venne presto conturbata, perchè dovette per alcun tempo allontanarsi dalla sua diocesi per recarsi a Milano.

Sedeva in quel tempo sulla cattedra di s. Pietro il gran pontefice s. Leone, ed aveva raunato un concilio generale in Calcedonia per condannare i nefandi errori dell'eresiarca Eutiche. Appena ebbe termine quel concilio, s. Leone diede notizia ai vescovi della provincia di Milano di quanto in quel concilio erasi felicemente conchiuso; ed eglino a questo avviso si raunarono a Milano, l'anno 451, per apporvi il proprio consenso. A tale radunanza dovendo trovarsi anche il vescovo di Torino, andovvi per non mancare alla difesa della fede cattolica; ed in quel venerando consesso fece conoscere egregiamente la sua dottrina, spiegando sul mistero dell'incarnazione i sensi medesimi che s. Leone aveva con si alta forza dichiarato. Tutti i prelati della provincia, dopo il metropolitano, vi apposero la propria sottoscrizione, quella di s. Massimo fu ne' seguenti termini: ego Maximus episcopus Ecclesiae Taurinalis in omnia suprascripta consensi et subscripsi; anathema dicens illis, qui de Incarnationis Dominicae sacramento impia senserunt.

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Sciolto con buon ordine quet sinodo provinciale, ritornò tostamente il santo vescovo a Torino, e seppe con sommo dolore, che nella sua assenza i Torinesi avevano cessató d'intervenire con la consueta frequenza alle funzioni ecclesiastiche. Non potè egli nascondere la sua grande` afflizione, e in una omelia che si affrettò di fare, altamente ne rimproverò i suoi cittadini, loro rappresentando sopratutto, che se per qualche accidente non avessero veduto in chiesa la suă persona, vi avrebbero trovato sempre il divin Salvatore, che è il vescovo di tutti i vescovi. Etsi ego ab Ecclesia desum invenitis ibi episcoporum episcopum Salvatorem. Volendo intanto riparare efficacemente agli abusi ed agli errori, egli deliberò di raunare i suoi sacerdoti, e di celebrare, come

celebrò un sinodo diocesano: gli atti di questo sinodo sgra ziatamente perirono; e la sola notizia che ce ne rimane, ricavasi da una sua omelia, in cui apertamente asserisce di avere un tale suo sinodo riprovata l'eresia di Elvidio.

Il maraviglioso zelo di s. Massimo estendevasi anche sopra tutti i bisogni temporali che angustiavano i Torinesi, e gli altri suoi diocesani, come chiaramente dimostreremo in appresso.

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L'attività del gran Costantino, la riputazione che egli erasi acquistata in tante guerre, poterono tener fermo ed unito l'impero nei pochi anni, in cui ebbe a regnar solo dopo la rovina di Licinio; ma già gli era per moltissime prove manifesto, che un sol capo più non avrebbe bastato a reggere così vasta e mal composta monarchia. Gli esempi dell'infedeltà de' generali e de' governatori delle provincie eransi veduti così frequenti, che Diocleziano avea già stimato necessario dividere l'impero fra quattro principi. Laonde sarebbe stata cecità più che paterna nel gran Costantino il credere che alcuno de' suoi figliuoli fosse atto a sostener tanto peso. Questa forse fu la principal ragione che lo mosse alla division dell'impero tra i suoi figli. Morendo egli adunque nell'anno trentesimo secondo del suo supremo governo, divise fra tre suoi figliuoli l'impero per modo, che al più vecchio di essi denominato Costantino, assegnò la Gallia transalpina con le regioni dell'imperio occidentale al di là delle alpi; a Costanzo lasciò la Tracia e le provincie orientali unitamente all'Egitto; a Costante assegnò I'Italia di qua dalle alpi con le isole adiacenti. Sicchè Torino, e l'estesa contrada di cui ella è capitale, trovaronsi per buona sorte sotto la dominazione di Costante, minor d'età, ma di virtù maggiore de' suoi fratelli. Se non che subito naeque colla divisione dei regni quella degli animos

Costantino ereditò sibbene l'ambizione e la mollezza del

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