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padre, ma non imitonne nè gli accorgimenti, nè il senno, nè il valore; ed anzi si mostrò prestamente così avido di estendere il suo governo, mal comportando che il Piemonte e le altre terre della Gallia cisalpina fossero smembrate dalla transalpina Gallia, quasi Iddio stesso col muro delle alpi non l'avesse, divisa: egli adunque passò con un esercito di qua da' suoi termini per impossessarsi della parte del reditaggio toccata a Costante già era egli pervenuto nelle vicinanze di Aquileja, quando avvedendosi de' suoi malvagi disegni le truppe di Costante lo posero a morte. Ma la discordia di questi due principi potè appena aver nome di guerra civile; perocchè Costante si trovò signore di tutto l'imperio occidentale, e dell'Illirico, prima che si sapesse pure che fosse per nascer guerra tra i due fratelli; e così stette l'Italia per lo spazio di quattordici anni sotto Costante senza alcun movimento nè di guerre straniere, nè di tumulto interno; e fu mirabil cosa, che tra lui e Costanzo, che regnava in Oriente, massime non essendo d'un'istessa credenza, mentre l'uno cioè Costante era buon cattolico, l'altro ariano dichiaratissimo, tuttavia non sia insorta veruna contesa per dividere gli stati del morto fratello. Ma quei mali che potean nascere dalle discordie dei due fratelli, furono poi cagionati dalla perfidia di un ufficiale.

Magnenzio, capitano di due compagnie nelle guardie di Costante, prevalendosi dell'inavvertenza di lui, e dell'affetto di molti uffiziali inferiori che s'avea guadagnato, bramoso d'inserir anche il suo nome tra i Cesari, si fece nelle Gallie chiamare imperatore dalle soldatesche, che a lui ubbidivano, ed altro non mancandogli che la porpora imperiale, mandò un sicario ad uccidere il buon Costante, la cui immatura morte fu lamentata in Italia da tutti i buoni, principalmente dai Torinesi, perchè mostravasi egli bene affetto alle popolazioni saggie e non insette da alcuna eresia, e fu perciò che lo stesso s. Atanasio ne fece l'elogio. Il terrore delle armi di Magnenzio non lasciò lungamente esitare gli abitatori dell'italiana penisola; e il senato di Roma ricevette ben tosto le immagini sue e lo riconobbe sovrano. Ma le stesse furie che stimolarono Magnenzio a far trucidare il suo legittimo signore, lo spinsero a cercar da se medesimo

il suo supplizio; perocchè, occupata con la forza, ed ancor più col terroré l'una e l'altra Gallia, e l'Italia, andò a próvocare nelle Pannonie le armi di Costanzo, che dovean pu-' nirlo. Fu questo fra cristiani il primo esempio di ribellione, e fu questa la prima pugna, in cui siasi veduta nei vessilli di due eserciti avversi la croce contro la croce, e il nome di Cristo campeggiare su gli uni e gli altri. Costanzo quantunque ariano aveva per istendardo l'istesso Labaro del padre, con la divisa del nome del Salvatore; e con la stessa divisa il crudele Magnenzio inaugurò un Labaro uniforme per suo stendardo; ma quella croce che al vero Cesare presagiva la vittoria, al falso minacciava il supplizio. L'esercito del ribelle Magnenzio fu così pienamente sconfitto, che egli sen fuggì col suo fratello, e con pochi seguaci nella Gallia ed ivi dopo essersi sostenuto ancora per qualche tempo, come signore di quella contrada, per pazza rabbia di vedersi da Imperatore tornato al nulla, con la propria spada uccise il fratello, la madre e se stesso. Così potè Costanzo riunire sotto di sè tutti gli stati paterni: così l'Italia" tornò novellamente ad esser centro di sì vasto dominio; del che si allegrarono i Torinesi, sperando di goder un'altra volta la calma, di cui avean goduto sotto Costantino il grande; e per qualche riguardo non fu delusa la loro speranza; giacchè per alcuni provvedimenti dati da Costanzo, cessarono gli abusi dei loro magistrati e di altri superiori, da cui erano governati, i quali li trattavano duramente anzi che no. Giovò ai Torinesi, e agli altri popoli circumpadani la regola che tenne questo Cesare di separare le cariche civili dalle militari. Notabile ordinamento fu sopratutto l'essersi allora indebolita l'autorità dei prefetti del pretorio, i quali spogliati affatto d'ogni podestà militare; ritennero solamente giurisdizione civile, ed una certa autorità economica. Così quella carica, la quale era stata da prima solamente militare, e poi per lungo tempo militare e civile, rimase alla fine puramente civile; e dove prima il numero de' prefetti era indefinito e ciascuno di loro, quando erano più, avea l'autorità in solido sopra tutti gli stati del suo principe, invalse e si stabilì sotto Costanzo l'uso di crearne quattro con giurisdizione territoriale sopra le provincie loro

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assegnate. Quello dei quattro prefetti ch'ebbe a governare la nostra contrada, e tutta l'Italia con le isole adiacenti, sembra che compiesse allora il suo ufficio con soddisfazione de' suoi governati. Ma i nuovi ordinamenti di Costanzo non trattennero la declinazione dell'impero; e le più notabili cause ne furono la debolezza propria del governo di lui, la disgrazia di non aver figliuoli, e massimamente l'essersi intricalo siffattamente nelle controversie ecclesiastiche, che lasciò alla discrezione d'indegni ministri le cure del principato. Costoro, poco solleciti dei progressi delle armi romane e de' casi futuri, purchè conservassero l'autorità presente, ch'essi medesimi esercitavano, tutti erano intenti a mettere lo spavento nell'animo del loro signore sopra ogni menomissima ombra di ribellione. Da queste sue gelosie, e da' suoi continui sospetti procedettero non meno le ingiustizie e le crudeltà, e le misure malamente prese per repri mere gli ammutinamenti, che la poca fortuna ch'egli ebbe nelle guerre straniere. Sostenne l'impero orientale debolmente; il più delle volte tornò vinto dalle imprese contro dei Persi: quindi con più vergogna e con peggior conseguenza per gli affari d'Italia, venne a mostrare la sua debolezza a Franchi ed a' Germani; perciocchè non soffrendogli l'animo suo timido e sospettoso di marciare egli stesso nelle Gallie a combattere il suo rivale, o dimandarvi un capitano con forze ed autorità sufficienti a compire l'impresa, s'avvisò di muovere i Re barbari con inviti e con doni a farvi guerra al suo nemico, e a portare le armi nelle provincie romane. Politica veramente degna di quei codardi ed invidiosi che lo consigliavano e lo reggevano a loro talento. Estinto, come s'è detto, il ribelle Magnenzio, continuarono i Franchi ed i Germani ad infestare le Gallie per quella stessa via che Costanzo avea loro spianata. Fu costretto quest'Imperatore, dopo molti anni, a mandarvi Giuliano, suo parente, ma pe' suoi sospetti non gli diede esercito e soccorsi bastevoli a ristabilir l'onore del nome romano appresso quelle nazioni, ed anzi gli aggiunse ministri, uffiziali e compagni che lo traversassero, e ritardassero i suoi progressi; e cercò infine pretesti per ritorgli anche le poche truppe che date gli aveva.

Quantunque a ragione sia restata infame presso i cristiani la memoria di Giuliano per la sacrilega sua apostasia, pure si dee credere ch'egli avrebbe represso i nemici dell'impero nell'occidente e nel norte, se Costanzo, dopo averlo innalzato alla dignità di cesare, non lo avesse oltraggiato co' suoi raggiri. Ad ogni modo convien púr dire che Giuliano, quantunque vantasse tanto di probità e di filosofia, pure si mostrò sommamente ingrato verso Costanzo, da cui avea ricevuto speciali favori. Tanto è vero che di un aperto idolatra è peggiore un cristiano ipocrita, qual fu Giuliano. Sollevossi dunque costui; e Costanzo non trovò altro mezzo d'opporsi al cugino suo emolo, che indur nuovamente con danari i re franchi a muoversi guerra. Intanto Giuliano istesso, che gli aveva alcun tempo tenuti in freno, di là si mosse per portar le armi contro l'imperatore suo cugino. Così andava agevolando la via a quei popoli di occupare le provincie romane, e discendere per le nostre alpi in Italia; locchè faceva che il timore già occupasse gli animi de' subalpini, e degli altri. italiani. Giuliano rendette memorabile il suo breve regno pel genio pedantesco che portò sul trono, attorniandolo di sozzi e presuntuosi sofisti per l'apostasia della religione cristiana, e per essersi finalmente indotto a professare con ridi→ colo entusiasmo l'idolatria. Quanto di ciò si addolorassero il santo vescovo di Torino, il vescovo di Milano e gli altri saggi e zelanti prelati delle italiche popolazioni, è facile il concepirlo. Ma la superstizione di Giuliano fu più funesta a lui stesso ed al romano impero che al cristianesimo. La persecuzione che mosse contro i cristiani, ultimo sforzo del pagano furore, non che distruggesse la fede loro, l'accrebbe e la raffermò.

Il buon animo di Gioviniano che succedette a Giuliano; non ebbe spazio di 'far gran bene. Ma le cose che sotto il regno de' due fratelli Valentiniano e Valente accaddero, furono cause assai prossime de' grandi rivolgimenti, che poco dopo avvennero in Italia, come concisamente dimostreremo. dd

È noto che la prima e la più grave rovina da cui fu subissata l'Italia mosse dal settentrione; ma non è universal→ mente conosciuto ch'essa venne anche dalle regioni orien

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tali, e dagli ultimi confini dell'imperio persiano e dalla China. Quella parte d'Europa che giace tra i due grandi fiumi Danubio e Tanai, cominciò ad essere tentata dalle armi romane, quando già era venuto il termine della loró grandezza. I popoli che abitavano quella estesissima contrada, divisi tra loro sotto varie denominazioni, erano con nomi più generali conosciuti, e chiamati Sciti, Tartari, Sarmati e Daci. Tra questi popoli, quelli soli che si trovavano più vicini al Danubio, ossia i Daci, furono soggiogati e ridotti in provincia da Trajano, sotto il quale si può dire che abbiano avuto fine le conquiste de' Romani. Gli altri più lontani dal Danubio, e più vicini al Tanai, come gli Alani, ebbero bensì qualche sconfitta sotto gli Antonini, e furono respinti dai confini dell'imperio; ma tutte le più felici spedizioni che si poterono fare da quella parte, terminaronsi in trattati o di tregua o di pace; nè mai quei popoli si contarono come sudditi del dominio romano. Quando poi le forze delimperio cominciavano a declinare, tutto il maggiore sforzo che si fece rispetto a quelle nazioni, fu di ritenerle di là del Danubio, e con castelli e presidii impedire che non si avanzassero nell'Illirico e nella Tracia. Aureliano, principe assai diligente nelle cose dell'imperio, trasportò di qua dal Danubio tutti i sudditi romani della provincia dei Daci; e facendo termine dell'impero quel fiume, lasciò l'antica Dacia in potere di altri popoli di que' dintorni, che si chiamaronó Goti, e talvolta anche Daci. A' tempi di Valentiniano 1, e di Valente teneva il governo di questi Goti Atanarico, il quale si sollevò sotto Valente per levargli l'imperio, ma tirò sopra di se le armi imperiali, ed i Goti furono infine costretti a chiedere pietà e pace. Se non che mentre i Goti, dopo l'ottenutá pace, si stavano tranquilli nei prescritti termini, e l'imperio si credeva sicuro da quella parte, ecco uscir fuori, come da un nuovo ed ignoto mondo, una strana nazione, per cui i Goti ed i Romani dovettero pensare ad altri spedienti, e a nuovi trattati.

Gli Unni, nazione incolta e barbara, usata a vivere senza stabili alberghi in campagna aperta, scorrendo e predando e combattendo per tutto, passarono, non si sa per qual caso, nè come, la palude Meotide, e il fiume Tanai che sbocca in

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