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le fosse utile di conferire le principali cariche dell'imperio ad Aezio per non averlo nemico; ma egli pieno d'ambizione e d'orgoglio, non istando contento ad essere il primo nel favor della corte, volle esservi solo, od esserne piuttosto il padrone. Cotesta sua gelosia fu l'ultima rovina della già troppo afffitta ed abbattuta Italia. Tuttochè a Placidia non mancasse ne ingegno nè esperienza, guastò siffallamente l'animo di Valentiniano suo figlio, ch'egli ebbe piuttosto lat viltà e i vizii d'un servitor di palazzo, che la virtù e la magnanimità d'un principe. La sua effeminatezza, e l'incontinenza furono l'origine di tutti i mali che pati l'Italia, e sotto il suo regno, e dopo di lui.

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D'altra parte nell'animo di Onoria, sorella di Valentiniano, nacque la voglia di partecipare anch'ella dell'imperio, E perchè Valentiniano e Placidia, lungi dal condiscendere in questa cosa ai desiderii di Onoria, cercarono di farla consecrar vergine, costei invitò Attila re degli Unni alle sue nozze, e diede a quel barbaro, che volle esser chiamato Flagello di Dio, un nuovo pretesto di calare in Italia (an. 452). Infatti egli soleva addur per ragione della guerra che muo, veva all'imperio d'occidente, i diritti ricevuti dalle promesse é dalle richieste della principessa Onoria. Niuno ignora come é per qual motivo il furor d'Attila, che aveva menato grande, rovina per tante provincie, e distrutto tante città dell'uno e dell'altro imperio, risparmiò niente di meno la città di Roma, che pur era l'oggetto primario delle sue brame. Ma tutto che Roma scampasse allora dall'eccidio che quel rabbioso Re minacciava, l'Italia patì tuttavia grandissimo danno da quella invasione. Quasi tutta la Lombardia fu crudelmente messa a ferro e fuoco.

Dopo aver distrutta Milano, il feroce Attila colle sue barbare truppe già s'avanzava minaccioso verso la città di Torino, i cui abitanti in parte si premunivano con forti riparazioni intorno alle mura e alle porte della città, e in parte si apprestavano alla fuga. In questo terribil frangente raunò s. Massimo i cittadini, e con l'autorità di un uomo di Dio, con l'affetto di padre, ravvivò lo spento coraggio, tutti esortandoli a riporre in Dio una piena confidenza: non più tanti timori, disse egli; afforzate pure le mura. Ma la mag

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gior vostra fiducia sia nel placare lo sdegno di Dio con le orazioni e con la penitenza. È vero, continuò egli, che Attila si va avvicinando; e già le sue bandiere sventolano sul Ticino. Non sapendo a qual sicuro partito appigliarvi, altri di voi si sono risoluti di darsi alla fuga, e lasciare la patria, i vecchi, i deboli parenti in abbandono; altri divisano di mandar delegati all'uomo guerriero, per muovere a clemenza l'animo suo; ma voi umiliatevi dinnanzi a Dio colla penitenza è col digiuno, che è una legazione a Dio validissima e potentissima. No, non fuggite dalla patria, perchè la fuga, ovunque vi porti e vi nasconda, vi farà più infelici: privi di casa e di alimento, o sarete fatti schiavi, o cadrete dal disagio estinti. No, non abbiate cuore di abbandonar la patria in tanto disastro. Figliuoli ingratissimi sono quelli che lasciano la propria madre nei pericoli: madre comune è la patria che ci generò e ci alimenta. Rimanete a sua difesa, Iddio vi proteggerà. No, non cadrà Torino sotto le armi di Attila, se voi vi riunite ogni giorno in questa basilica a piangere le vostre colpe, a piegare la divina misericordia: le limosine, i digiuni e le orazioni sieno le armi vostre e ne vedrete senza dubbio un ottimo risultamento (Homil. XC, XCI, XCII). Come predisse con tanta sicurezza s. Massimo a' suoi Torinesi, così avverossi. Attila non entrò in Torino; anzi i Torinesi prosperarono quindi vie più di commercio e di ricchezze, mentre tante altre città furono sterminate da quel feroce conquistatore. Scrissero alcuni moderni, che allora s. Massimo partisse da Torino per andar incontro ad Attila a placarne il furore; ma ciò non fu scritto dagli antichi, e non si può affermar come certo.

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Nel seguente anno, 455, i Torinesi, ed anzi la maggior parte dei popoli circumpadani trovaronsi afflitti da un grave disastro. Per mancanza di pioggia i campi furono sterilissimi, e universale, grandissima fu la carestia: sclamavano i mendichi per le strade, e languivano nelle case per la miseria le intiere famiglie. S. Massimo che dal cominciare del suo episcopato erasi mai sempre dimostrato il comun padre dei poveri, ed in tutte le sue omelie aveva sempre raccomandato la limosina, mostrandone la necessità e i vantaggi, altamente gridando contro la tenacità degli

avari, in questa nuova calamità spogliossi d'ogni cosa per soccorrere a' pubblici e privati bisogni, e non avendo più alcuna cosa a dare, ne chiedeva egli stesso a' facoltosi; e raddoppiando il suo zelo, per lui fu salva la città.

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Frattanto di peggio in peggio s'andavano spopolando le città, i borghi, e inselvatichivano le campagne d'Italia. Nè la morte che seguì poco dopo del furibondo Attila, e le discordie de' suoi figliuoli, che presto annientarono la potenza formidabile degli Unni, giovarono punto a recar sollievo alla nostra bella e sempre infelice penisola. Valentiniano appena si vide liberato dalla paura degli Unni non potè più frenare la gelosia già da lungo spazio di tempo concepita verso di Aezio, da cui aveva però ricevuto segnalati servigi; e colla più detestabile azione che mai cadesse in mente di un monarca legittimo, lo uccise di propria mano, e tolse a sè il miglior braccio. Un così indegno attentato rendè l'Imperatore tanto odioso, ch'egli ne dovette, perdere fra non molti mesi la vita. Massimo, capo degli uccisori, sposò Eudossia vedova di Valentiniano, eredendosi di assicurarsi in questo modo la corona; ma Eudossia, conosciutasi moglie di un parricida, non potendo opprimerlo altramente, chiamò dall'Affrica Genserico re de' Vandal, il quale venuto subitamente in Italia, diede a Roma quel barbaro sacco, di cui si serberà in ogni secolo la terribil memoria non tanto per la strage degli abitanti di essa città, quanto per la distruzione di molti preziosissimi monumenti. Genserito da Roma si avanzò quindi verso la Lombardia perchè aveva in animo d'impadronirsi di tutta l'Italia: per questa barbara, incursione i Torinesi furono anche minac-. ciati della loro rovina (455). Ma sebbene quel re de' Vandali non fosse men terribile di Attila, tuttavia i Torinesi, che nella precedente invasione erano stati preservati, per opera principalmente di s. Massimo, mostraronsi questa volta ben tosto docili alle parole del santo loro pastore; seppero con gran dolore la strage dei popoli vicini, ma essi ne andarono esenti.

In questo tempo non solamente l'imperio era lacero ed ismembrato, ma Fautorità imperiale si trovò talmente avvilita nell'occidente, che quantunque siensi innalzati sul trono

valorosi personaggi l'un dopo l'altro, niuno di loro potè ricuperarne l'onore e la forza. I generali che per la più parte erano barbari, eransi talmente avvezzati a voler dominare, che per niun conto potevano esser tenuti in dovere dagli Augusti, poichè eglino soli sostenevano col braccio e co' maneggi loro l'imperio. Massino, che, ucciso Valentiniano gli succedette (an. 455), non regnò se non pochi mesi, e fu trucidato in una sedizione. Avito, già uffiziale di Massimo, ed abile capitano, prese la porpora dopo lui a sollecitazione di Teodorico re de' Goti, e non senza suo ajuto. Ma un Imperatore, che doveva riconoscere la sua dignità dalla protezione d'un Re straniero, venne in odio dei sudditi; é non andò a lungo che un capitano gli tolse lo scettro per fargli prendere il pastorale. Questi fu Ricimero Svevo, o Goto, il quale fece salire al trono (an. 457) Maggiorano, uomo fornito di tante virtù e di tanto senno nelle cose di stato, che pareva capace di ristorar l'imperio di occidente già quasi ridotto al nulla, e di ricondurre Roma alla primiera grandezza. Se non che la riputazione che egli s'acqui stò in circa tre anni di governo, accelerò il suo fine; Ricimero, ingelositosi di lui, trovò modo di deporlo; e portò sul trono un Severo, il quale vi stette quanto piacque al barbaro di lasciarlo. Ricimero per ultimo volle far prova se potesse governar l'Italia a suo modo. Videsi allora, dopo molti secoli, una specie di repubblica in Italia, di cui Ricimero si fece capo e protettore. Sembra che questi abbia voluto che l'Italia, in quel periodo di tempo, si riguardasse come uno stato indipendente; diffatto certo è che nei trattati che si fecero allora coi principi e generali forestieri si parlava a nome non dei Romani o dell'imperio, ma sì a nome degl'Italiani. Probabilmente Ricimero voleva avvezzare gli animi ad un nuovo genere di dominazione, della quale ei fosse il dispositore. Ma non potè egli sostener lungamente quella forma di dominio, e s'avvide in men di due anni, ch'egli era più agevol cosa disporre a sua voglia d'un Imperatore, che di un impero. Costretto adunque di crearne uno, ricorse a Leone Augusto in oriente, perch'egli ne elegesse uno de' suoi. In questo modo non si privava di quella riconoscenza che sperava dal nuovo eletto, e conciliavasi

l'amicizia dell'imperatore greco, a cui commetteva un ufficio sì onorevole e sì grazioso.

Fu dunque creato imperatore d'Italia nell'anno 467 un Antemio, il quale al valor militare univa somma prudenza e cognizione del governo civile e delle cose di pace, oltrecchè era grandissimo amatore della giustizia, e pieno di sincero affetto del comun bene. Condusse ancor seco dall'oriente uomini virtuosi in gran numero; il che in Roma, d'onde per tante calamità s'erano partite non solo le famiglie dei patrizi, ma eziandio, i più ricchi popolani, non era cosa di picciol conto. Nuovo e giocondo spettacolo fu agli Italiani l'arrivo di un tanto principe con una fiorita armata ed una corte sceltissima. E si avea grande speranza ch'egli fosse per restituire l'antico lustro all'imperio d'occidente. Questa speranza crebbe ancora per le nozze che il novello Augusto celebrò in Italia colla famiglia del patrizio Ricimero. Se non che l'ambizioso Ricimero presto si pentì di aver promossa l'elezione di Antemio, perchè vide scemare il suo credito sotto un gran principe che potea regnar da se solo, e venne presto a guerra aperta per detronizzare il novello imperatore. Epifanio vescovo di Pavia, uomo per saviezza e santità in quel tempo assai famoso, volle adoperarsi a riconciliare gli animi di Antemio e di Ricimero, e gli venne fatto di rappattumarli; ma non durò a lungo una tale riconciliazione, e si venne di bel nuovo a guerra manifesta, nella quale non solamente le provincie d'Italia si trovarono divise in due partiti, ma Roma stessa fu il teatro di quella civil guerra. Ricimero vi assediò dentro l'imperatore; e dopo aver espugnato quella città colla fame e col ferro, dovette ancor combattere contro il partito contrario, finchè vinto ad annegato nel Tevere Antemio, ed abbattuti i seguaci di lui, Ricimero vi fece proclamare Augusto un Olibrio, che era della più ilJustre e più ricca famiglia che fosse in Roma da più secoli, ed era congiunto d'affinità con l'imperatore Valentiniano III. Ciò accadde nel 472.

I torinesi che si erano molto rallegrati quando il saggio, virtuosissimo Antemio salì al trono, provarono un grande rammarico quando seppero il fine tristissimo di lui; si addolorarono eziandio quando il loro santo vescovo Massinio

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