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dovette partirsi da loro e andarsene a Roma; e tanto più se ne mostrarono dolenti in quanto che fortemente temevano che il loro ottimo pastore e padre già trovandosi decrepito e logoro dalle incessanti apostoliche sue fatiche non potesse più comportare i disagi di così lungo viaggio. S. Massimo aveva creduto di non potersi esimere dal condursi alla capitale del mondo cattolico (an. 465), perchè il sommo pontefice s. Ilario avevalo invitato insieme con moltissimi altri prelati ad assistere ad un concilio che ivi celebrò. Il Ba ronio narra che a quel concilio di molti vescovi numeroso, dopo il Papa, appose la propria sottoscrizione. s. Massimo, e fu questo un rispetto usato da tutti quei padri alla veneranda di lui canizie; e non tanto per l'età, quanto pel lungo possesso dell'episcopato e per i suoi meriti par-, ticolari s. Massimo era il più ragguardevole tra i prelati ivi raccolti. Qui direm di passata che, come accennano i Bollandisti, egli fu amicissimo di s. Remigio vescovo di Reims, suo contemporaneo; e da ciò credesi abbia avuto princip o la fraterna unione che tuttavia sussiste tra il capitolo metropolitano di Torino e quello di Reims, tanto intima, che andando un canonico della metropolitana di Torino a Reims, e viceversa un canonico di quella chiesa venendo a Torino piglia posto canonicale in coro, e gli sono dáte le consuete distribuzioni.

Il viaggio di s. Massimo a Roma fu l'ultima delle sue azioni pervenuta a nostra notizia. Si crede comunemente che egli sia mancato ai vivi poco dopo il suo ritorno a Torino. S'ignora il luogo di sua sepoltura. Narrano i Bollandisti che monsignor Bergera per poter discuoprire il luogo ove riposano le sacre reliquie di s. Massimo usò ogni possibile diligenza nel secolo xvn; ma che le spese da lui fatte a quest'uopo e le sue fatiche tornarono inutili, e sola restò la debole congettura che rimanessero sotto le soglie di una torre che sta in Collegno, ed appartiene ai conti Provana già feudatarii di questo luogo.

Or ripigliando il corso delle notizie storiche relative agli Imperatori d'occidente, a cui i Torinesi furono soggetti, di-. ciamo che Olibrio Augusto regnò pochi mesi, e che per gli intrighi del generale Gondebaldo, nipote di Ricimero, ebbe

la porpora un Glicerio, uomo di pochi talenti e di pessimi costumi. L'Imperatore d'oriente, disapprovando l'elezione del vilissimo Glicerio, mandò in Italia con titolo di Augusto Giulio Nipote, il quale non ebbe a penar molto per superar l'emolo, cui fatto tosare e consecrar vescovo mandò, come in bando, a reggere la chiesa di Salona nella Dalmazia.

Giulio Nipote fu uno de' migliori uomini che meritassero di portar corona; ma di quelli che giunsero troppo tardi all'imperio, quando agl'Imperadori più non restava altro che il nome e le insegne, e queste ancora stavano in mano dei generali degli eserciti. Giulio Nipote creò suo generale Oreste, che aveva già dato prove di valore e di grande sagacità. Oreste, divenuto pel favor di Nipote la seconda persona dello stato, fu anch'egli, come tanti altri, precipitato dall'ambizione e dalla voglia importuna di voler essere il primo. Voltò adunque contro l'Imperatore quelle armi e quell'autorità che aveva da lui ricevuto, e non dubitò di dare la porpora ed il titolo imperiale al figliuolo Romolo, che per la tenera età, o per ludibrio fu poi chiamato Augustolo. Cotesti procedimenti non poteano piacere alla corte di Costantinopoli, di cui era creatura Giulio Nipote; ma prima che alcuna cosa si muovesse da quella parte contro l'usurpatore, i Göti e gli altri barbari, de' quali era grande il numero in Italia, si sollevarono ad istigazione di Odoacre, che colla deposizione d'Augustolo e colla morte d'Oreste (an. 476) levò via final'mente quell'ombra che ancor rimaneva del romano imperio nell'occidente, e fece dell'Italia quello che delle altre provincie avean fatto altri barbari.

Nelle varie ed ambigue memorie che ci furono tramandate dagli antichi non è possibile l'affermare assolutamente nè di qual nazione fosse Odoacre, nè in qual grado si trovasse di dignità e d'ufficio avanti questo frangente, in cui, fattosi capo di barbari ammutinati, mosse le armi contro di Oreste e di Augustolo. Adriano Valesio, Tillemont e Muratori, tre insigni critici della storia di questi tempi, non seppero che conchiudere di certo intorno alle varie cose, e non però copiose, che di Odoacre scrissero Ennodio, Teofane, Giordano, Procopio, Isidoro, Gregorio Turonese e Maleo storico. Pare non di meno il più probabile ch'egli fosse capitano e

de' primari ufficiali delle guardie di̟ Augustolo. Ma quali che si fossero la sua patria, la sua origine ed i primi impieghi da lui ricevuti, non si sa; certo è bene che Odoacre era uomo di gran valore e di grande animo, quantunque gli scrittori che poi fiorirono sotto il re Teodorico suo emolo e capital nemico abbiano mostrato di credere diversamente.

XI.

Torino sotto i re Odoacre e Teodorico.

Distruzione del regno dei Goti in Italia.

Da quanto abbiam detto nel precedente capo sulle qualità personali degli augusti che ressero il romano impero d'occidente, dalla morte di Costantino il grande sino alla deposizione di Augustolo, chi legge quest'opera potè farsi una chiara idea della condizione di Torino, durante quel lungo spazio di tempo, e potrà farsene anche un più chiaro concetto, considerando non tanto la topografica positura e l'importanza militare di questa città, quanto la funesta influenza ch'ebbero sovr'essa le incessanti calamità e i gravi disordini, per cui cróllò infine il romano imperio d'occidente.

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Torino per la sua topografica posizione, e per la sua importanza militare aveva sempre un numeresó presidio di truppe per lo più barbare e indisciplinate, alla cui sussistenza dovea pur provvedere anche in tempi in cui s'avea gran difetto di viveri per la gran trascuratezza, in cui quasi da per tutto si lasciavano incolti i terreni, è dovea eziandio provvedere in qualche modo ai bisogni degli eserciti, che dall'Italia passavano per le taurine alpi nella Gallia transalpina, e quelli che dalla Gallia venivano nella nostra penisola. Quali e quanti disagi e danni da questo continuo movimento di soldatesche derivassero alla nostra capitale non si può spiegar con parole.

A questi mali le si aggiungevano quelli ond'erano afflitte tutte le altre italiche città, e questi mali erano giunti all'estremo. Tanto è ciò vero, che Salviano, dotto e coscienzioso scrittore, affermò che era peggiore a quei tempi la condizione de' paesi ancor soggetti all'imperio, che quella 11 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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degli altri;se coloro che vivevano sotto il dominio de' Goti, di non altro temevano maggiormente, che di ritoruare in potestà dei Romani, volendo piuttosto sotto nome di schiavitù viver liberi fra' barbari, che sotto falsa apparenza e nome vano di libertà vivere schiavi in effetto. Malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi. Salv. lib. 5. Già in principio del regno d'Onorio l'ltalia era condotta in pessimo stato, ed è perciò facile argomentare in quanto peggior condizione ella sia caduta nei cinquant'anni che passarono dalla morte di Stilicone sino a quella del generale Oreste, e alla caduta dell'impero.

Le rivoluzioni della corte e la debolezza dei ministri, rivoluzioni così frequenti dopo la metà del regno d'Onorio, già avevano cominciato a rovesciar fortemente l'amministra zione della giustizia, e tutti gli ordini di governo, di modo che non era da aspettarsi da ministri che duravano in carica ben pochi mesi alcuno stabile provvedimento in vantaggio del pubblico; frattanto gli scellerati ed i prepotenti trovavano sempre in quello scompiglio di cose l'impunità delle loro ingiustizie e violenze; perocchè le leggi, tuttochė eccellenti, erano divenute inefficaci: tutto quel grande volume di rescritti e di editti, che ci rimane sotto il titolo di codice teodosiano, servi piuttosto ad istruire i posteri dei vizii di quei tempi sciagurati, che a correggerli allora. E forse una gran parte di tali leggi furono date fuori dal l'ipocrisia, de' ministri per ingannare il Principe ed i popoli, per tender lacci agl'incauti, e per ogni altro fine che il pubblico bene. Il dottissimo Tillemont narra che Prisco, istorice di que' tempi, riferisce un ragionamento che seco lui tenne un uomo, il quale essendo stato preso dagli Unni, s'era accostumato a vivere tra loro, anteponendo la società dei barbari a quella de' Romani; e diceva insomma che le leggi romane erano eccellenti, ma quelli che le dovevano far osservare, facean tutt'altro che il loro dovere.

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Crebbero sommamente i disordini sotto la debole reggenza di. Placidia e sotto: Valentiniano; perocchè così l'una come l'altro, non che fossero sufficienti a frenar la prepotenza de' ministri e degli ufficiali, gli aizzavano eziandio a farsi guerra e ad usar violenze, perchè si distruggessero e si con

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sumassero tra loro. La qual cosa, comecchè potesse giovare alia sicurezza de' Principi, far non si potea senza la rovina de' popoli e il distruggimento delle provincie. Un dotlo storico di questi ultimi tempi dice che i Torinesi e tutti gli abitanti della torinese provincia fra tanta corruzione di quella infelicissima età, conservavano ancora la semplicità dei loro primitivi costumi; locchè vuolsi attribuire non tanto alla bontà della loro indole, quanto all'efficacia dell'istruzione religiosa ch'essi avevano ricevuta durante il lunghissimo pontificato di s. Massimo; tuttavia la loro saggezza e la loro buona condotta non li rendevano esenti dalle calamità ond'erano travagliati gli altri popoli della penisola. L'avarizia, la perfidia e l'insolenza de' ministri e de' capitaņi erano divenute insopportabili durante il regno dell'effemminato e debole Valentiniano Ill; d'altronde la natura stessa e le condizioni dell'imperio dovevano necessariamente desolare i sudditi, e la miseria de' sudditi costringeva nuovamente ai più rovinosi andamenti gl'Imperatori; cosicchè dalla perdita delle sostanze si cadeva, eziandio sotto i migliori Augusti, quali furono, per esempio, Maggiorano ed Antemio, in una specie di civil servitù.

Imponevansi le gravezze al corpo della città; ed era ufficio e carico de' decurioni, che formavano la curia, ossia corpo di ciascuna città, e chiamavansi corporati, di distri-, buire i pubblici pesi ripartitamente sopra tutti i possidenti. Per questo rispetto i decurioni o corporati poteano avere qualche vantaggio dall'ufficio loro; ma siccome tutta la somma dell'imposizione si esigeva per parte del fisco dal corpo della città, perciò la scarsezza del danaro, la miseria e l'impotenza de' particolari di soddisfare alle imposte, costringevano i corporati a pagare del proprio; così tornava in danno e rovina ciò che prima era utile privilegio. Lo spediente che solo restava ai comuni per soddisfare alle imposte de' Principi ed ai particolari per pagar ciascuno la loro porzione, era di ricorrere alle prestanze degli usurai; spediente, che siccome è sempre indizio de' passati danni, così è cagione di peggior miseria per l'avvenire. Dunque alle estorsioni de' magistrati e de' grandi si aggiunsero quelle degli usurai, la potenza de' quali divenne tale e tanta in quel tempo, che

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