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dopo tre mesi, tornarono come trionfanti l'uno a Torino, l'altro a Pavia, con molte schiere di persone già schiave, e per loro opera restituite alla propria famiglia, lodando tutti e benedicendo Iddio della loro liberazione. Quale commovente spettacolo sia stato il loro passaggio in tutto il Piemonte, il loro arrivo alla patria, l'accoglimento dei parenti, degli amici e de' compaesani è cosa più facile ad immaginarsi che a descriversi. Si ricondusse s. Epifanio alla sua sede, venne s. Vittore alla sua in Torino ; ma non vollero recarsi in persona a Teodorico per non parere di cercar premio delle loro fatiche; bensì, per non mancargli di rispetto e di gratitudine, gli diedero avviso con lettera dell'ottimo riuscimento della cosa; e Gondebaldo e Teodorico divennero buoni amici, e si corrisposero con vicendevoli benefizi.

Questa sola impresa di s. Vittore, congiunta coll'illustre testimonianza che di sue virtù diede s. Epifanio, e che ci venne tramandata da s. Ennodio, basta per ogni più grandioso elogio; nè si sa comprendere, dice il P. Semeria come un santo vescovo così illustre non abbia avuto sinora nella sua chiesa di Torino un culto particolare come lo hạ sant'Epifanio in Pavia.

L'ardentissima carità di que' due santi prelati non istette paga all'aver ottenuto quel gran favore da Gondebaldo; chè dopo aver rimenato così gran moltitudine di persone alle loro patrie, furon poi eglino stessi i ristoratori della fortuna di quelli, com'erano stati mediatori della libertà da essi ricuperata, adoperandosi con lettere presso del Re, perchè fossero ancora restituiti nei loro averi.

Se grande fu il giubilo dei Torinesi quando, fatti liberi poterono ripatriare, fu poi indicibile la loro allegrezza quando seppero che per grazia sovrana potevano ricuperare tutti i loro averi, ed infiniti furono perciò i rendimenti di grazie a s. Vittore, la cui somma virtù era in tanta venerazione eziandio appo i Re transalpini, che quantunque avidissimi d'impero non violarono giammai la giurisdizione che il pontefice di Torino esercitava su varie chiese nella Gallia Narbonese, nella Lugdonese, e negli Allobrogi; e fu gran meraviglia che nella caduta del romano imperio

avendo i tre principi transalpini occupato que' regni, sof, frissero nei loro stati l'autorità di giurisdizione del vescovo di Torino; ma non ebbero tanto scrupolo i loro successori Teodeberto e Teodorico fratelli, verso Ursicino vescovo torinese, come si dirà a suo luogo; laonde il rispetto usato verso s. Vittore si attribuisce al merito della sua virtù, la quale conciliando venerazione ed amore, sostenne le ragioni della sua chiesa. E similmente di qua dalle alpi, s. Vittore col favor di Teodorico potè vie meglio promuovere il divin culto fra' suoi diocesani, ed ingrandire e ornare in Torino la basilica dei ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio, e stabilirvi, sotto l'invocazione di questi santi, un celebre monastero di Benedittini, ove, secondo il Baldassani, fiorì Goselino abale dello stesso monastero, che morì in grande fama di santità.

Non sembra che s. Vittore sopravvivesse più a lungo dopo di avere efficacemente contribuito alla liberazione dei Torinesi, che in grande novero erano caduti schiavi dei Burgundi; perocchè nel 502 già sedeva sulla cattedra vescovile di Torino il vescovo Tigridio, il quale fu invitato da Teodorico ad intervenire insieme con moltissimi altri prelati ad un concilio, che si celebrò in Roma in quell'anno, di ordine di papa Simmaco, sardo di nazione, che era stato promosso alla cattedra di s. Pietro addì 22 novembre del 498. Alla sua elezione aveva concorso la maggior parte del clero, mentre l'altra, aveva nominato l'arciprete Lorenzo ? di cui era promotore Festo, uomo consolare, e principalissimo tra i senatori: quindi la città eterna si divise sul merito della elezione; si accusarono gli uni e gli altri, accaddero zuffe, uccisioni e ruberie; sicchè le parti contendenti ricorsero infine al re Teodorico, il quale, benchè ariano, ordinò, che de' due competitori alla sede pontificia fosse mantenuto e consecrato quello che con più voti era stato eletto il primo. Pertanto Simmaco rimaneva alla cattedra apostolica, e addì 1.9 marzo 499 adunava un concilio, dove erano fatti varii, decreti sulle elezioni de' pontefici romani, e contro coloro che con intrighi le turbassero. Ma ben presto i partigiani dell'arciprete Lorenzo calunniarono Silumaco di adulterio, e mandarono falsi testimonii contro

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questo papa a Teodorico, perchè il loro protetto fosse promosso al supremo pontificato. A tante vessazioni volendo Simmaco riparare efficacemente, divisò di raunare un altro concilio, e ne chiese al Re non la permissione, ma un valido appoggio. Teodorico aderì, facendo intendere ai vescovi di mettersi in viaggio, ed insieme dichiarando come bramava che dai provvedimenti del venerando concilio tornasse la pace a Roma, e a tutti i cristiani. Partì subito il Tigridio vescovo di Torino, e partirono anche sollecitamente gli altri vescovi, che in numero di cento quindici, dopo maturo esame dichiararono l'innocenza del papa Simmaco, e condannarono gli usurpatori. Monsignor Francesco Agostino della Chiesa, il Pingonio, il Tesauro ed altri, assegnano ad immediato successore di Tigridio il vescovo Agnello; ma con manifesto errore, dice il Meiranesio, perchè Agnello fu vescovo di Trento, e non mai di Torino.

Non si può ben esprimere con parole quanto fossero lieti i Torinesi nel vedere come Teodorico, quantunque Ariano, favoreggiasse la cattolica religione: chè egli a questo riguardo giunse a tal segno da mostrarsi spietato verso un cattolico, il quale abbracciò gli errori dell'arianesimo, e mostrossi pubblicamente fautore di questa setta.

La premura ch'ebbe Teodorico di restituire nei loro beni i prigioni ch'erano stati riscattati, fece conoscere che la sua principal cura, dacchè si fu stabilito sul trono, era di ripopolare e coltivar l'Italia. Non iscontentare i vecchi abitatori, e destinar a' suoi Goti competente porzione delle terre ch'egli aveva conquistate col loro braccio, non era cosa di lieve momento. Se non che egli conoscendo ottimamente che non già le immense tenute di poderi, ma la coltivazione di quelli arricchiscono le provincie e i particolari, e li mettono in istato di fornir l'erario del principe, venne perciò nella ferma risoluzione di togliere agl'Italiani un terzo delle loro terre. Se ne dolsero i possessori da principio; ma non tardarono molto a mostrarsi contenti delle innovazioni o grandi o piccole che fece il nuovo Re per riguardo alle terre; perocchè ben videro che i loro terreni essendo divisi coi Goti, procuravano un vincolo di concordia tra le due nazioni per l'ajuto vicendevole che ricevevano gli uni

dagli altri tanto per rispetto alla coltivazione, quanto al Commercio animatore principalissimo dell'agricoltura.

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La principale delle lodi che si meritò Teodorico, sisteva allora nell'egregia scelta che solea far de' ministri, col consiglio dei quali cominciò a ristorare l'Italia da' gravi danni che l'ultima guerra da lui mossa ad Odoacre, e le passate rivoluzioni ed i saccheggi, vi avevano portato; e quindi potè rialzare a tanta grandezza e splendore il suo regno, che egli agguagliò se forse non superò la gloria dei più lodati cesari.

Vide assai bene Teodorico, che non sarebbe stato prudente consiglio ch'ei togliesse agl'italiani quelle leggi e quella forma di governo, a cui erano avvezzati da tanti secoli, e che Odoacre medesimo non avea abolite; obbligò dunque i vinti ad osservare le leggi proprie, ed avvezzò gli stranieri ad assoggettarvisi. Gli ordini del governo furono da lui non pure ristabiliti, ma messi in esecuzione. Per sua cura si videro ristorate d'edifizii e di mura Torino, che avea molto sofferto per le passate vicende, e parecchie altre città italiche: ei ricondusse nel nostro paese e vi fece fiorire il commercio, le arti, e specialmente l'agricoltura, la quale specialmente diede ben tosto prove manifeste del suo risorgimento; perciocchè, dove, fatte le città sceme di abitatori, solevasi negli anni addietro sostener disagio di viveri, ed era necessario d'anno in anno procacciare di là de' mari e de' monti il necessario grano; regnando Teodorico non solo non fu bisogno di cercar biade straniere, ma i granai dell'Italia bastarono ancora a pascere gli eserciti del Re che guerreggiarono in provincie lontane. Oltre a ciò si stabilirono sotto questo Re pubblici granai in varie città, cioè in Piemonte, nel Monferrato, nella Venezia e nel Piceno, così che mancando per qualsivoglia accidente il grano in una provincia, si traducesse dall'altra il bisognevole. Cassiodoro, prefetto del pretorio e uno de' principali ministri del regno, volle che fossero fornite in abbondanza di cereali non solamente Roma, ma ben anche Milano, Tortona e Pavia. Nè è da dubitarsi che lo stato d'Italia siasi ancora migliorato grandemente per l'aggiunta che si fece all'italico regno di stranjere provincie; perocchè Teodorico, divenuto che fu 12 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

sovrano assoluto d'Italia e di Sicilia dopo la morte d'Odoacre, unì in varie occasioni ed in varii modi al suo dominio la Dalmazia, il Norico, buona parte della moderna Ungheria e della Svevia con le due Rezie, la Provenza e con altre contrade della Gallia e delle Spagne.

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Con tutto ciò l'allegrezza de' Torinesi e degli altri popoli subalpini che in loro era nata dalla special protezione conceduta alla religione cattolica da Teodorico, come pur anche dai saggi provvedimenti per cui eglino sembravan risorti ́a novella vita, si cangiò finalmente in amarezza ed in lagrime. Eccone le infauste cagioni.

A Teodorico, già molto avanzato negli anni, e privo di figliuoli maschi, non restava che una figliuola con nipoti ancor bambini; locchè suscitò così in Roma come per tutto il mondo i soliti pensieri e discorsi intorno ai successori, ed alle rivoluzioni che la mancanza di un Re potentissimo potea cagionare: alcuni tra i grandi di Roma già facevano qualche susurro per rimettersi in libertà. Governava già in allora le cose di oriente l'accorto ed ambizioso Giustiniano a nome del vecchio Giustino, a cui voleva succedere. Giustiniano, già rivolgendo vasti progetti nell'animo, entrò di leggieri in occulti trattati con qualche Romano di riunire solto al suo impero anche l'Italia alla morte di Teodorico. Da questa causa ebbe origine la caduta di Boezio, e l'odio che eccitò contro di se Teodorico, e il desiderio che nacque di sottrarsi al dominio gotico. Boezio, che in più riscontri, e specialmente per la generosa difesa che pigliò d'Albino, uomo grande è dabbene, perseguitato, com'egli stesso racconta, dai cagnotti della corte, s'avea tirato addosso lo sdegno e l'odio di costoro, fu per loro malvagia operazione accusato egli stesso d'avere scritto lettere contro il governo, e pensato a ritornar Roma in libertà. Talchè fu da prima ingiustamente bandito, poi messo in carcere, e ultimamente tolto di vita quel chiaro lume della sapienza romana. L'ingiusta morte di Boezio, invece di calmare la crudeltà e i sospetti del Re, lo fece imperversar maggior mente, e sparso una volta di sangue innocente, fu come da furie vendicatrici spronato a nuove scelleraggini. Per tema che Simmaco, suocero di Boezio, e senatore anch'egli di

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