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di non voler offendere gli amici di Roma, da' quali niuna offesa avevano mai ricevuto. L'ambasciata fu modestissima 9 ma furono insolenti gli ambasciatori: questi erano i tre Fabii, figliuoli di Fabio Ambusto, nobili, ma giovani, e perciò sommamente altieri ed imprudenti.

Stavano adunque l'esercito de' Toscani, e quello de' Galli fronte a fronte, quando comparirono i tre ambasciatori avanti al consiglio de' Galli composto in comune di tutte le nostre provincie collegate: siccome i tre Fabii non avevano ancora udito il suono delle galliche trombe, così immaginandosi di trattare coi Fidenati, o co’Vejenti, mostrandosi come araldi, e non come mediatori, orgogliosamente dinunziarono ai Galli, che se eglino molestasser gli amici di Roma, sarebbero da Roma dichiarati nemici. A così petulante ambasciata i Galli col mezzo di uno del consiglio della confederazione, pacatamente risposero che avrebber lasciato in pace i Chiusini qualora i Romani che possedevano più ampie campagne ne facessero ai senoni alcuna parte. Allora i tre Fabii baldanzosamente chiesero qual ragione avessero i Galli sopra i campi degli Etrusci e dei Romani; o qual torto avesser eglino ricevuto da questi; ed uno del consiglio, a nome di tutti i confederati, rispose che i Galli portavano la ragion nelle armi, e che ogni cosa dee essere dei più forti.

Tale risposta fu conseguitata immediatamente da un'altra dello stesso Brenno, la quale fu riferita da Plutarco, ed è così notevole da non doversi qui pretermettere: quest'ingiuria, ei disse, ci fanno i Chiusini, che potendo essi abitare poco di territorio, e di paese, l'animo loro è di volerne abitare più assai, ed a noi forestieri, che siamo molti più, e poverissimi, non ne vogliono fare alcuna parte. In questo stesso modo, o romani, fecero anche ingiuria a voi prima gli Albani, i Fidenati, gli Ardeati, ed ora i Vejentini, i Capenati, e molti popoli dei Falisci e dei Volsci, contro i quali voi movete le vostre genti; e se eglino non vi fanno parte delle case loro, ve li fate servi, li rovinate, e spianate le loro città; e ciò non vi pare che sia cosa ingiusta, nè fuor di ragione, ma imitate la legge antica, la quale richiede che le cose dei minori sempre si dieno ai maggiori, incominciando

dagli Dei e finendo sino alle bestie, le quali hanno ancor esse questo istinto di natura, che i possenti abbiano molto più che i deboli.

Se queste particolarità che ci vengono da Plutarco distintamente, ed anche da Livio riferite, aveano fondamento nelle antiche memorie o di Roma o della Toscana, basterebbe pur questo a darci una prova che il diritto pubblico degli antichi italiani sentisse del barbaro e del ferino; ma dove mai, esclama a questo proposito un grave storico, dove mai furono al mondo le nazioni si incivilite, e sì moderate, fra le quali la più potente d'uomini, di danari, e d'armi non presumesse di dar legge agli stati più piccoli e meno possenti? Que' nostri antichi operavano con più semplicità, e quindi ancora con più aspre maniere, e più schietta baldanza: e come non si vergognavano di far manifesta la cagione che li induceva alle armi, così non si astenevano dalle bravate e dal vantare la forza ed il valore. E chi potrebbe, a parlare secondo i primitivi dettami della natura, condannare un popolo pien di coraggio e di forze, che voglia anzichè morirsi di fame, costringere altre nazioni a fargli parte del soverchio che esse hanno? Non essendo ciò altra cosa che ricorrere a quell'equità naturale, la qual consente che si reputi ogni cosa comune nell'evidente ed assoluta necessità. Ma a vero dire, troppo è difficile che gli uomini stieno contenti a giusti termini. E pero le liti e le guerre, e ogni genere di dispute e di contese di rado vanno esenti dalle ingiurie e dai torti.

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Per tutto questo non abbiamo da credere che senza guardo alcuno a quella comune legge, ch'essi ancora, al par di noi, chiamavano ragion delle genti, ad ogni capriccio di comandante ed impeto di popolo si venisse così subitamente alle armi ed alle offese; nè che si tralasciassero gli opportuni mezzi per levar via le cagioni delle guerre. Quegli stessi galli a cui la storia mette in bocca così fiere massime, e sì poco civili, non per altra ragione si mossero a' danni di Roma, se non per lo sdegno che presero al vedere gli inviati di Roma, contro il diritto delle ambascerie, vestir armi, ed entrare in battaglia nell'esercito dei loro nemici, mentre i rappresentanti di questi non si mostravano alieni

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dal piegarsi a trattative di conciliazione; e tuttavia non vennero alle ostilità prima d'aver fatte istanze alla repubblica di Roma, perchè i violatori della ragion delle genti fossero puniti: e que' tali ordini feciali che si praticavano in occasione di minacciare e d'intimare la guerra, o di stipular paci, confederazioni o dedizioni donde tutta la posterità prese motivo d'innalzare al cielo l'equità dei romani erano certamente comuni ad altri stati d'Italia; e i romani furono forse quelli che li usavano men francamente. Onde fu detto in più d'un luogo dagli scrittori medesimi delle cose di Roma, che se i Quiriti avessero dal canto loro mantenuta quella fede che pur dagli altri esigevano, la signoria d'Italia non sarebbe toccata loro.

Or ripigliando il filo della storia diciamo che appena Brenno ebbe fatta sotto Chiusi quella memorabile risposta. agli audacissimi ambasciatori di Roma, il più giovane e più petulante di questi, senza replicare, spingendo il cavallo alla testa dell'esercito degli etrusci, fece dar nelle trombe ed impugnato un dardo trafisse un cavaliere de' senoni: in questo modo era accesa la zuffa, quando il cisalpino consiglio, frenando l'impeto dei confederati, con più savio avvedimento comandò la ritirata, risolvendo di lasciare in pace i toscani, e portar la guerra contro di Roma, per vendicar l'ucciso con la rovina de' violatori della pubblica fede: ma lo stesso consiglio, da cui dipendevano tutte le deliberazioni, moderando l'ardore di Brenno, che voleva subito, correre con l'esercito dirittamente alle porte di Roma, giudicò doversi primamente man dare oratori a chiedere giustizia da quel senato contro i legati colpevoli; e così si fece. Grande fu il rammarico, e grandissima fu pure la perplessità del romano senato, il quale confessò sibbene che gli oratori da esso spediti ai galli avevano male parlato, ed operato anche peggio, contravvenendo alle ricevute istruzioni, ma trattandosi di persone nobili e patrizie, e non volendo i patrizi esser giudici contro se stessi, rimisero il giudizio al romano popolo, il quale inconsideratamente decise doversi far guerra contro ai galli, è per tribuni dell'esercito si elessero i tre medesimi Fabii, autori del grave disordine. Appena il consiglio dei gallo-liguri ebbe contezza del

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brutale decreto, commise a Brenno, che senza indugi e senza risparmi spignesse ostilmente tutte le squadre contro a Roma: quanti romani furono incontrati per via, tanti caddero olocausti al gallico sdegno: ciò non pertanto quegli audaci tribuni osarono col loro esercito azzuffarsi contro quello di Brenno ad undici miglia di qua da Roma, dove l'Allia mette capo nel Tebro; ma furono sconfitte le prime schiere romane, e le altre atterrite dalla nuova foggia di combattere dei loro nemici, gittate le armi, cercarono di ritirarsi a Vejento: i tribuni salvaronsi dalla fuga: tutti i cittadini, percossi prima dalla fama che dalle spade si rifugiarono col senato nel Campidoglio; la plebe ed i sacerdoti andarono al Janicolo, sperando di trovarvisi in sicuro; i Galli giunti a Roma trovarono le porte aperte e le case vuote onde incolleriti di non trovare gli abitatori, sfogarono l'ira contro le abitazioni, mandandole in fiamme; e tanto improvvido e cieco fu il trionfo, che con le case abbruciarono le vittovaglie, delle quali dovevan essere nutriti: laonde furono costretti a mandare corridori in Ardea per cercare frumento, i quali dall'esule Camillo furono ivi battuti. Or mentre i Galli erano in procinto di riassalire con tutte le forze il Campidoglio, che già era stato difeso dalle oche, come narra Livio, il senato ed il popolo avendo spedito Feciali a comprare a peso d'oro dai loro nemici la pace, accettarono questi l'offerta del prezzo per ritornarsene presto nelle loro terre, dove i Veneti cercavano d'introdursi. Il prezzo fu di mille pesi d'oro, valendo ciascun peso non meno di cento scudi di questo metallo: ma perchè nacque disputa sulla giustezza della stadera, volendo il tribuno romano che se ne recasse un'altra, Brenno schernendo la cavillazione romana, aggiunse la sua spada sulla stadera per soprappeso, e di ciò essendo nata nuova quistione con pericolo di tornare alle mani, opportunamente sopravvenne dall'esilio con alcune genti da lui raccolte il valoroso Cas millo, per la cui prudenza, é per la saviezza del consiglio dei Galli fu sedata la controversia, e conchiusa la pace: i Gallo-Liguri, ricchi d'oro e di gloria nella prima impresa contro di Roma, sen ritornarono lietissimi alle loro provincie.

Ben si sa che alcuni storici romani per magnificare il valore di Camillo, disguisando quel caso, raccontano, che egli cangiò in sanguinosa strage la vittoria dei Senoni e dei loro confederati, i quali senz'oro e con loro vergogna disordinatamente fuggirono. Svetonio dichiarandosi panegi¬ rista più che storico in questo racconto, con la soperchia esagerazione, scema fede a se medesimo, ed a Tito Livio, narrando che dopo una fiera strage de' Galli fatta in Roma da Camillo, furono essi dal medesimo nella via Gabina così distrutti che non ne campò pure un solo a portarne le novelle: ma egli è certo ch'essi ripatriarono, e non tardarono gran tempo ad atterrire di nuovo i Romani. Polibio scrittore più antico, e assai più autorevole di Livio, avendo per i Romani adoperato la penna e la spada senza far motto di alcuna strage de' Galli nè in Roma, nè sulla viaG abina, dice schiettamente che i Galli già padroni di Roma, per le novelle sopravvenute della mossa dei Veneti contro le loro terre, a Roma rendettero la libertà, e fatta coi romani la pace, sen ritornarono nel Piceno. Anche Orosio lib. 2 e Adone in Chronic., raccontando la vittoria de' Galli, ed il loro ritorno col prezzo ricevuto, non fanno di strage nè di mal incontro memoria nessuna: onde conchiude il Saliano; videtur sane Livius hic magis romanis quam veritati favisse.

I nostri leggitori saranno tanto più persuasi di ciò che dianzi s'è detto, qualora pongano mente, che i tribuni della plebe, tostochè si dipartirono dalla loro patria i fieri nemici di essa pertinacemente contesero doversi per maggior sicurezza abbandonar Roma, e popolare Vejento, e se ne convinceranno ancora viem meglio riflettendo che quantunque i sacerdoti romani fossero immuni dal militare servizio, tuttavia fu pubblicata una nuova legge, in forza della quale dovesser eglino impugnare le armi e combattere, se mai i Galli tentassero una nuova invasione. Plutarco in vita Camilli, afferma questa legge essersi fatta dopo che i Galli ritornarono nella Cisalpina; tanto era stato lo spavento che avean lasciato ai Quiriti: tantus autem tum erat terror, ut lege caveretur sacerdotes immunes a militia esse, nisi urgeret bellum gallicum. Al che si arroge che Livio non solo non dice avere il senato ed il popolo decretato allora il trionfo a Camillo, ma sib

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