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Romani prima di stringere d'assedio la loro città, ci fanno vedere com'egli intendeva egregiamente la ragion di stato e il diritto delle genti. La caritatevole economia che dopo la presa di Napoli usò a quegli affamati e indeboliti cittadini, perchè non s'affogassero nell'abbondanza de' cibi, e la modestia che mostrò nella sua persona e fece osservare a' suoi in ogni occasione di città espugnate e d'acquistate vittorie, messe in confronto delle crudeltà e delle estorsioni insopportabili praticate dai Greci verso quelle città che sostenean lunghi assedi per amor dell'imperio, dimostrarono assai chiaramente che se il destino d'Italia fosse stato tale che Totila succedesse immediatamente a Teodorico o alla reggenza d'Amalasunta, egli avrebbe fermato a segno lo stato di questa provincia, che a gran torto gl'italiani si sarebbero invogliati di mutar signoria. Ma l'imperscrutabile voler del cielo portò al regno d'Italia un tal uomo affinchè la virtù sua non ad altro servisse che a maggior rovina delle nostre contrade, pe' nuovi sforzi ch'ebbero a fare i suoi nemici a ricuperar le conquiste già fatte una volta. Or Totila, tra pel suo valore e per la trascuraggine degli uffiziali di Cesare, andò siffattamente rilevando la parte de' Goti, che alla fine la corte di Costantinopoli si risolvette di rimandare a questa guerra Belisario, sebben questi, per gl'intrighi di Teodora Auguta, avesse perduto affatto la grazia dell'Imperatore. Egli adunque fu la seconda volta mandato in Italia. Corse voce, e non senza ragione, che l'Imperatore esigesse, per patto della riconciliazione di Belisario, ch'egli dovesse a spese sue. proprie far la guerra contro i Goti. Certo è bene ch'ei vi venne malissimamente fornito d'armi e di gente; il che si attribuì da tutti particolarmente al farnetico che ebbe Giustiniano di sprecare il danaro nell'innalzare edifizii, e nello spendere nei teatri, nelle musiche, ed in simili passatempi.

Ma Belisario non era più l'uomo ch'era stato; e vedendosi due volte dal gran Totila sotto gli occhi suoi presa e ripresa Roma, dovette ritornare senza gloria a Costantinopoli, donde cogli applausi di molti era partito. L'Imperatore entrò in deliberazione di mandare in Italia l'eunuco Narsete, come quegli che si presumeva già pratico degli affari dell'italiana penisola per esservi stato già innanzi, e che dovette dalle

sue prime prove farsi viemmaggiormente conoscere d'ingegno non ordinario. Narsete, o per la naturale sua grandezza d'animo, o per la certezza che aveva dell'affetto del suo signore, protestò animosamente di non volersi addossare così ardua impresa, se non era convenientemente fornito di truppe e di danari, e d'ogni cosa opportuna a condurla a fine con gloria sua e del suo Principe. Ottenne dunque da Giustiniano tutto ciò ch'egli volle, e scelto il fiore delle milizie imperiali, colle provvisioni che credette opportune, ei si trasse al suo seguito buon numero di persone che volentieri vennero a far corte ad un favorito del Principe, ed apprendere sotto di lui l'arte del guerreggiare.

Il ragguaglio che ci lasciarono di quella spedizione due scrittori contemporanei, Procopio ed Agatia, può farci decidere francamente, che forse da molti secoli niuna guerra in Italia era stata governata con più armonia, nè alcun generale più stimato, più riverito ed obbedito: argomento indubitabile o dell'abilità singolarissima di Narsete a conciliarsi la stima e l'affetto de' subalterni, o del sommo credito ch'egli aveva alla corte sicchè tutti facessero a gara per secondarlo. Anche quelli fra gl'italiani, che da principio si beffavano di quest'eunuco guerriero, in pochi mesi furon costretti a portare al cielo con somme lodi la saviezza, gli accorgimenti e la virtù grandissima di quest'eunuco. I nemici stessi, i quali da prima non si potean tenere dal farsi beffe di lui, ben presto ne provarono a loro danno il valore.

Narsete, appena giunto in Italia, si diede, innanzi a tutto, a riparare il gran disordine che l'avarizia e l'ignavia dei passati prefetti avevano cagionato; pagò subito ai soldati veterani gli stipendii, i quali, per essere stati defraudati dalla greca avarizia delle paghe loro dovute, erravano dispersi ed oziosi; li radunò sotto nuove insegne, e riguadagnata la benevolenza di molti italiani, formò un esercito così vigoroso, che al primo scontro con Totila presso il Po, questo re goto fu ucciso, e le truppe di lui furono sconfitte; se non che quelli che poterono scampare dalla strage si rifuggiarono in Pavia, e surrogarono al regno, alla vendetta, alle ultime speranze degli Ostrogoti il fiero e valoroso Teja,

nella cui bellica virtù Totila si specchiava. Ma oramai ben poco poteva un valore senz'armi, ed un Re quasi privo di regno. Provò Teja nel primo giorno del suo comando l'estremo disfavore, ed il favore estremo della fortuna. Egli fu Re disgraziato vedendosi costretto a guerreggiare con un branco di fuggitivi avanzati alla strage, contro un possente e vittorioso inimico; ma Re per altra parte fortunatissimo, avendo subito avuto nelle mani un ricco tesoro, che Totila avea depositato in Pavia; e così subito assoldar nuovi militi, tutti gli Ostrogoti fuggiaschi e smarriti, e molti italiani che militavano non per cercar libertà, ma per fuggir la miseria; e come ad un rapidissimo torrente, ogni rivo accresce forza e furore, così Teja in poco tempo ebbe un esercito così numeroso, che potè lasciarne una parte a guardia della cisalpina, e penetrare egli stesso colle altre sue schiere nel cuor dell'Italia, per impossessarsi di un altro grosso tesoro lasciato da Totila in Cuma; e poscia volgersi contro Narsete.

Questa lontananza di Teja fu un gran conforto ai Torinesi, ma poco da poi fu cagione di grande inquietezza. Dicemmo qui sopra che Teodorico, dopo il proditorio assassinamento di Odoacre, aveva assegnato agli avanzi degli Eruli un distretto nel giro delle alpi fra Torino ed Aosta. Ora, quando Teja innoltrossi in Italia, era capo di quegli Eruli un Sisualdo, bramoso di allargare il suo territorio sulla torinese provincia: questi afferrando l'opportunità della lontananza del re Teja, e di quella d'una parte della gioventù subalpina, la quale era stata forzatamente arrolata ai gotici vessilli, mosse con tutti i suoi verso l'augusta Pretoria; predò per via la valle de' Salassi, espugnò Eporedia, ora Ivrea; indi manomettendo la piana regione de' Libui e dei Taurini, strinse d'assedio la città di Torino, sperando di farla sua con facilità, e in poco tempo; ma benchè ne fosse notabilmente scemata la guarnigione, ciò non di meno egli trovò così forte il recinto delle mura, e tanto il numero dei cittadini, fatti animosi non dall'amore verso i Goti, ma dall'odio verso gli Eruli, che perdette ogni speranza d'impadronirsi della nostra capitale; perocchè gli assediati, tutta la state e tutto il verno, mirabilmente resistendo al caldo,

al gelo, alle minacce, agli assalti, ed alla fame, con la costanza e con l'armi forzarono Sisualdo a levare il campo, e cercare altro popolo verso gl'Insubri. Blond. Dec. 4, lib. 7.

A questo trionfo, che dee tornare a gran vanto dei valorosi Torinesi, loro sopravvennero maggiori speranze di ricuperare l'antica libertà; perocchè Narsete avendo penetrato i disegni di Teja, gli troncò il cammino, e sforzollo, presso Nocera, ad un combattimento, in cui esso Teja perdè la vita, e fu pienamente rotto l'esercito di lui. Ma sorsero nuovi timori negli animi degl'italiani, e massimamente in quelli dei Torinesi, perocchè di poco fallì che una generazione barbarica s'impadronisse intieramente dell'italiana penisola, allorchè il regno de' Goti fu ridotto all'estremo. Al re de' Burgundi Teodebaldo, figliuolo di Teodeberto, siccome a colui che fra gli altri sovrani de' Franchi aveva i suoi stati più propinqui alla taurina contrada, ricorsero i Goti per ajuto, allorchè si videro arrivati a mal punto de' fatti loro. L'ambasciata tuttavia non andò a nome, nè per deliberazione di tutta la gente Ostrogota, ma solo a nome di quelli che abitavano tra le alpi ed il Po. Gli altri che trovavansi più lungi dalle nostre alpi, o amarono meglio di attendere quale avviamento prendessero le cose de' Greci, e qual esito avesse l'assedio di Cuma, o veramente temettero, coll'invitare i Franchi, di tirarsi in casa un nemico d'aggiunta dei Greci-Romani. Furono intanto ricevuti e sentiti gli ambasciadori mandati a Teodebaldo, ma loro fu risposto che il Re non poteva per allora entrare a parte de' pericoli altrui. Se non che Leutari e Bucellino, alemanni di nazione, e duci primarii delle truppe di Teodebaldo, nel dar commiato agli ambasciatori li confortarono a non perdersi d'animo, perchè, non ostante il dissentimento del Re, essi di propria autorità sarebber venuti con fiorito esercito a soccorrere i Goti. Presto vennero nella nostra contrada Leutari e Bucellino, seguitati da settanta mila combattenti; e ciascun vede che il rifiuto di Teodebaldo non fu che una finzione per non compromettersi colla corte dell'Imperatore. Colla facilità che que' due capitani trovarono dalla parte de' Goti, non ebbero a penar molto per occupare quante piazze credettero essere di lor convenienza nella Cisalpina, nella Liguria e nel Ve

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neto paese. Restava perciò l'Italia quasi divisa fra tre nazioni che avevano dominii e tenean fortezze in diverse provincie; Goti, Greci-Romani e Franchi. Ma i Goti, dopo la sconfitta di Teja, più non erano in istato di reggersi da loro soli; e. senza il vantaggio della piazza fortissima di Cuma, dove si erano ritirati col meglio de' loro avanzi, sarebbero in breve rimasi affatto spenti. Il resto della gotica nazione, disperso in varii luoghi della penisola, non tenea nemmeno il partito comune; e gli uni fra i Goti s'accostavano ai Romani, ed altri se la intendevan co' Franchi.

Frattanto l'esito della guerra pareva dipendere dalla resistenza delle due città, Cuma e Lucca, l'una tenuta dai Goti, l'altra da' Franchi, ed ambedue assediate e combattule costantemente dall'accorto e valoroso Narsete. L'assedio e la presa di Lucca conciliarono al general greco riputazionė grandissima non meno d'umanità e di clemenza chè di prodezza e di senno. Aligerno, scelto, dopo la morte di Teja a supremo capo de' Goti, ancor si teneva forte in Cuma; ma volle allora liberarsi ad un tratto, e dai disastri di un lungo assedio e dai pericoli, con dar sè ed i suoi, e le inSegne reali e tutte le cose de' Goti a Narsete, e farsi come suddito vero e naturale del romano imperio. A questo fine volle esser presentato a Narsete, che si trovava in Classe, ́e senz'altro gli rimise le chiavi di Cuma, e si dichiarò pronto ad ogni suo comandamento. Subito fu introdotto presidio Tomano in Cuma, e vennero consegnate a Narsete le spogle reali con tutto il tesoro che i Goti avevano ricoverato in quella rocca; e Narsete in contraccambio promise e mantenne ogni più favorevole trattamento ad Aligerno ed ai Goti che passarono sotto alla sua obbedienza. Non è da dire quanto di questo fatto si sdegnassero i Franchi. Stettero essi ancor fermi nella risoluzione di continuar l'impresa contro Narsete; ma parte vinti e disfatti, e parte consumati dalle malattie, furono alla fine forzati di lasciar ai Romani intero e libero, per quanto era in loro, il dominio d'Italia. Solo restava una fazione di sette mila Goti, che si gettarono in Consa sotto la guida di Ragnari, il quale., fingendo di voler trattare con Narsete, gli fu conceduto di presentarsegli, ma da traditore gli lanciò un dardo, il quale 15 Dizion, Geogr. ec. Vol. XXII.

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