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Asprando, incoronato re, non visse che pochi mesi, cioè dal febbrajo del 712, sino al giugno dello stesso anno: gli succedette il suo figliuolo Liutprando o Luitprando. II Varnefrido parlando di questo re de' Longobardi, lo dichiara uomo pio, sagace, amante della pace, possente in guerra, clemente, casto, caritativo, eloquente, legislatore, e quantunque non colto nelle lettere, da agguagliarsi ai filosofi. Tale a un di presso è il giudizio che portano di questo Principe i migliori storici d'Italia. Sotto il costui regno dovellero prosperare specialmente il ducato di Torino, ed il Monferrato; perciocchè queste provincie, negli anni che egli regnò, non ebbero a provare nè guerra interna, nè assalti di genti straniere, che turbassero la pace e il buon ordine, che si studiò d'introdurvi e di mantenervi. Le guerre ch'egli sostenne, ebbero per teatro luoghi distanti dal Piemonte e dalle monferrine terre; e da tutte quelle lotte uscì con vantaggio e con onore. Non v'ha dubbio che Liutpraudo fu il più distinto de' re Longobardi sì per l'indole sua generosa, come pel suo valor personale, e massimamente per la saviezza delle sue leggi, con le quali accrebbe la civiltà de' popoli di sua nazione. Alle leggi raccolte e promulgate da Rotari e da Grimoaldo molte ne aggiunse, che il buon senno e qualche studio gli suggerivano, talchè esse furono in gran parte dell'Italia ricevute ed osservate a preferenza delle romane. Siccome avea sperimentato l'una e l'altra fortuna, ed era stato compagno delle paterne vicende, così aveva in casa altrui imparato a conoscere il mondo; e gli venne fatto di portare sul trono quelle virtù che mancano d'ordinario ad un Principe che abbia passato i verdi anni in un corso costante di comodi e di prosperità; per la qual cosa non solo potè mantenersi fermo nel regno in tempi difficili e burrascosi per lo spazio restante della sua vita, cioè di ben trentadue anni, ma accrebbe lo stato con le conquiste, lo nobilitò con nuovi titoli, e lo incivil e ornollo con buone leggi, e con lodevoli costumi.

Dopo quattordici anni di pace gli fu forza di entrare in guerra contro i Romano-Greci dell'Esarcato di Ravenna, che sotto l'impero di Leone Iconoclasta distruggevano furiosamente le sacre immagini: egli pigliò con maravigliosa energia la difesa dei

cattolici, e discacciò quei loro nemici da Ravenna, dalla Pentapoli, e dal paese a settentrione di Roma. I duchi di Spoleti e quelli di Benevento, già molto ingranditi per le terre tolte dai loro antecessori al greco imperio, e già disposti a non voler riconoscere alcun superiore, avrebbero scossa ogni dipendenza, e ridotta al niente l'autorità regia, se la fermezza e il valore di Liutprando non gli avesse tenuti in freno. Al suo tempo in Francia, in luogo del Re, dominava Carlo Martello, che dopo aver lungamente pugnato contro i maomettani, invasori della Spagna, e delle regioni meridionali del gallico reame, chiamò in suo ajuto il pio e valoroso re longobardo Liutprando contro quei feroci nemici della fede di Gesù Redentore; ed egli vi andò (759), e colle proprie schiere unite alle truppe di Carlo Martello discacciò gli empi invasori della Provenza. Dopo questo trionfo ritornossene in Italia, e mosse di bel nuovo a battere i Romano-Greci, che osavano rinnovargli le offese. Frattanto parecchie macchinazioni si ordinavano contro di lui per parte massimamente dei greci imperatori; egli per altro non solamente stette saldo contro tutte le trame; ma raddoppiando ancora l'attività, ed estendendo i disegni e le mire a proporzione degli sforzi che vedea farsi dalle altre potenze per traversarlo, andò sempre crescendo e di riputazione e di stato. Non vuolsi però tacere che la smisurata voglia ch'ei mostrò d'ingrandire il suo regno, dee contarsi tra le principali cagioni della rovina de' suoi successori ; perchè al tempo suo si cominciò ordire tra Roma e Francia una gran tela che riuscì poi fatale al regno de' Longobardi. La sua morte, accaduta nel 744, interruppe il corso de' suoi trionfi. Il di lui nipote Ildebrando, ch'egli erasi associato al trono sin dall'anno 736, ben lungi dall'imitare le virtù dello zio, si fece pe' suoi vizii tanto disprezzare dai baroni del regno, che ben presto lo balzarono dal trono, ed elessero a loro sovrano il duca del Friuli, denominato Rachis, uomo amantissimo non meno della giustizia e della pace, che della religione. Questo carattere lo fece amare non tanto da' suoi sudditi, quanto dagli stranieri, e molto valse a ritardare i colpi già imminenti alla nazion longobarda. 1 Papi, che allora godevano nelle corti di Francia e di Costantinopoli

grande autorità, ordinarono e mantennero una tregua di venti anni tra Longobardi, Romani e Greci, ed impedirono che i Franchi non muovessero di qua delle alpi.

Così le cose d'Italia in generale si passarono, regnando Rachis, molto quietamente, quantunque non senza sospetti. Troviamo che questo Re, per ovviare alle cospirazioni e alle cabale che qualche suo suddito turbolento potesse ordire o con duchi Longobardi sospetti al medesimo Rachis, o con áltri Principi, vietò per legge espressa, che niuno potesse mandar messaggi a Roma, Ravenna, Spoleti e Benevento, e nè anche in Francia, in Baviera, Alemagna, Grecia e Navarra: legge nuova e singolare, a cui non sappiamo se mai per l'addietro fosse uscita la somigliante dalla cancelleria di qualche Principe o di qualche repubblica. Ma il pio entusiasmo che regnava allora nelle corti di abbracciare la vita monastica, mosse anche il re Rachis a deporre la porpora (an. 749); e preso per mano del Papa l'abito di s. Benedetto, entrò nel celebre monastero di Montecassino.

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Gli succedette al trono il suo fratello Astolfo. L'ambizione e il genio conquistatore d'Astolfo fu altrettanto proprio ad accelerare lo scoppio della gran macchina che le vicine potenze avean già cominciato a fabbricare contro i Longobardi, quanto la modestia di Rachis avea giovato a calmarne ed assopirne l'invidia. Astolfo all'autorità regale novellamente ottenuta unì le forze proprie degli stati che già prima teneva; e fatto capo sovrano della nazione, e possedendo tre diversi stati, in mezzo a' quali si trovava il ducato romano, cedette facilmente alla tentazione di voler pigliare ancor quella provincia che troppo quadrava a' suoi disegni ; onde potea quindi senza ostacolo impadronirsi di quel poco che ancor restava in Italià al greco imperio. Cinse egli pertanto Roma di stretto assedio; e il papa Stefano II, che troppo bene sapeva come Astolfo fosse poco affetto al chiericato ed alla chiesa, non, istette a badare al successo; ma condottosi in Francia, autorizzò quivi con la cerimonia della coronazione la famosa e memorabile traslazione della real dignità dalla casa Merovingia in quella di Pipino, ossia de' CaroAingi, e in guiderdone di tanto favore assicurò alla sua chiesa un possente protettore, che la portò nelle cose temporali

all'apice della grandezza. Frattanto Astolfo discacciò i Romano-Greci dall'Italia, occupando la Pentapoli ed il ducato di Roma. Se non che i Longobardi presto si fecero a trattar dúramente i Romani, riguardandoli come nemici soggiogati. Pipino intanto, eccitato dal Papa, ed avido di una gloria che tornasse a vantaggio di sua propria famiglia, venne in ́Italia, e l'anno 754 costrinse Astolfo a ristabilire le cose nello stato primiero. Questi, lasciatolo ritornare in Francia, ricominciò le ostilità, e l'anno dopo strinse di bel nuovo Roma d'assedio. Pipino, eccitato nuovamente dal Sommo Pontefice, si mise alla testa di numerose falangi, si condusse un'altra volta in Italia, ruppe Astolfo, e per condizione della pace lo costrinse a cedere alla chiesa romana quanto le avea tolto, e di deporre le chiavi di tutte le città di cui erasi impadronito, sull'altare di s. Pietro. Astolfo morì nel 756 per una caduta da cavallo. Questo Re, sebbene si fosse mostrato avverso al chiericato ed al Papa, pure fondò nel luogo di Pagno (vedi) un monastero sotto l'invocazione di s. Pietro, il quale divenne celebre.

Dopo la morte di Astolfo la nazion Longobarda fu · di nuovo vicina a dividersi in due partiti, ed essere travagliata da civil guerra. Perchè essendo stato da una parte de' grandi eletto a re Desiderio, Rachis che non lo amava, o che forse prevedeva il regno di lui dover esser funesto alla nazione, o finalmente perchè entrato ne' chiostri per qualche rispetto non puramente cristiano, fu nuovamente dal genio di comandare stimolato a tornar nel secolo, deposta la cocolla e rivestita la clamide, si fece vedere alla testa di un esercito per contendere col nuovo eletto la corona reale. Rachis ricominciò a governare, non già qual Re, come il Muratori ed altri dopo di lui avvisarono, ma sibbene qual temporaneo governatore del regio palazzo, come viene accertato dall'anonimo cronista longobardo, e dal Pisano. Il papa Stefano II, benchè avesse da sperare assai dal regime d'un principe quale si era mostrato Rachis per lo passato, niente di meno credè più sano consiglio e più conveniente al suo uffizio esortarlo a rientrare nel suo monastero, siccome fece. Desiderio assicurato così sul trono, parve pagare assai male i servigi che gli fece il Sommo Pontefice, liberandolo senza

suo pericolo e danno, da un concorrente. Desiderio, salito al trono nel marzo del 757, tostamente ricusò di osservare il trattato conchiuso con Pipino per riguardo alla romana chiesa, e ne occupò una considerevole parte delle terre; onde il Papa tribulato non solo dai nemici esterni, ma ben anche dagl'intestini tentativi, con cui alcune ambiziose famiglie cercarono d'impadronirsi del civil potere di Roma, si rivolse alla Francia per ottenerne gli ajuti.

Carlo Magno non si lasciò sfuggire un'occasione tanto favorevole a' suoi ambiziosi disegni: egli avea condotto in isposa una figliuola del re Desiderio; ma ben presto la ripudiò. D'altra parte Desiderio non avea dubitato di ospitare i nipoti di Carlo Magno, che per opera di lui erano stati privati della paterna successione. Ciò non pertanto, Carlo Magno, prima di compiere le brame del papa Adriano I, esortò con varie lettere Desiderio per indurlo a restituire le città tolte alla santa sede, rappresentandogli ch'egli era obbligato a difendere i diritti del Sommo Pontefice in sua qualità di patrizio del popolo romano. Vuolsi ancora ch'egli abbia offerto al Re una cospicua somma di danaro per indurlo a tale restituzione: ma che, tutto ciò essendo riuscito indarno, siasi finalmente determinato a scendere in Italia; e vi discese infatti per l'alpe Cenisia col grosso del suo esercito, facendone passare una parte per il gran s. Bernardo: giunto al sito della valle di Susa, ove la via si restringe, ne trovò chiuso il passaggio dalle fortificazioni ivi costrutte e difese dall'esercito Longobardo, alla cui testa trovavasi Adelchis o Adelgisio, figliuolo del re Desiderio, il quale sebbene avanzato negli anni, pure combatteva egli stesso, e incoraggiava i suoi per tal modo, che Carlo Magno già dava segni di voler trattare di accordi; ma un diacono chiamato Martino, mandatogli dall'arcivescovo di Ravenna, gli indicò una via da rendere inutili le fortificazioni dei Longobardi. Avvi chi afferma essergli stata indicata una tale via da un giullare. Checchè di ciò sia, egli è vero che Carlo Magno, il quale era peritissimo delle cose militari, ordinò che le sue truppe si volgessero intorno a quelle fortificazioni da una parte e dall'altra de' monti, e prendessero il nemico alle spalle. I Longobardi, colti in mezzo dai Franchi, s'in

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