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vilirono, e cercarono colla fuga la propria salvezza. Desiderio mandando il suo figliuolo Adelgisio a chiudersi nella rocca di Verona, si chiuse egli in quella di Pavia, abbandonando Torino e tutte le altre città che sorgono presso le alpi, per poter fare con tutte le sue forze in Verona ed in Pavia le estreme sue difese: sicchè Carlo Magno avendo potuto ristorare il suo esercito con la depredazione delle campagne e delle terre delle nostre alpi, venne senza contrasti a Torino, dove si soffermò alcuni giorni, aspettando l'arrivo del corpo, cui avea spedito in Italia pel gran s. Bernardo, e dopo avervi raccolto un buon nerbo di agguerriti uomini del torinese contado, col quale rafforzò viemmeglio il suo esercito, mosse a proseguire il corso de' suoi trionfi.

Molti scrittori della storia di quei tempi raccontano che quei due Monarchi vennero a campal battaglia nella Lomellina, che l'immensa strage, che vi seguì non meno di Francesi che di Longobardi, fece dare il nome di Mortara a quel sito, e di là venne il nome stesso, che ancor porta il capoluogo di quella provincia; ma questo gran combattimento non ebbe luogo che nella immaginazione poetica di Goffredo da Viterbo. Il fatto non dubbio si è, che Desiderio, atterrito dalle forze che Carlo avea seco, e dall'ardimento con cui avea passato le alpi, si ritirò in Pavia, e vi si fortificò il meglio che seppe e potè, mandando, come già s'è detto, Adelgisio suo figliuolo e collega nel regno a fortificarsi in Verona. Carlo pose l'assedio a Pavia, e vi stette intorno più settimane. Vedendo la difficoltà di prenderla per assalto, vi lasciò a bloccarla nell'inverno una parte delle sue truppe, andò ad impadronirsi delle altre città che non potevano far difesa, e si condusse insino a Roma per abboccarsi col Papa. Se non fu per allora coronato re d'Italia, volle per altro chiamarsi re de' Longobardi, e come tale fu riconosciuto dalla massima parte delle città e provincie, e come già arbitro del regno, dispose di alcuni ducati dipendenti dalla corona, e rinnovò le donazioni già fatte alla chiesa da Pipino suo padre; cioè le donazioni dell'Esercato di Ravenna principalmente, e di alcune altre terre, che non è facile il determinare. Tornato poi verso Pavia, ebbe senza troppo indugio a sua discrezione il Re, la moglie ed una

figliuola di esso, e la città, terminando così pienamente la sua spedizione, e ponendo fine al regno Longobardico, che durò oltre a due secoli.

Carlo, presa Pavia, e fattosi proclamare e coronare re d'Italia, mandò Desiderio nel paese di Liegi, rimettendolo alla guardia del vescovo, che lo tenne ora in Liegi, ora in Aquisgrana, ora in Corbeja, dove, alcuni anni dopo, cessò di vivere, secondo alcuni, rassegnato e tranquillo in un monastero, e secondo altri morì di morte violenta. Adelgisio, vedendo l'impossibilità di resistere alle forze di Carlo, che si aumentavano di giorno in giorno, perchè l'uno dopo l'altro i popoli dell'Oltrepò se gli sottomettevano, disperò di sostenersi in Verona, e fuggì al porto Pisano, e di là a Costantinopoli, servendo per alcun tempo di stimolo ad alcuni signori italiani di tentar novità.

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Così lo scettro d'Italia passò dai Longobardi ai Franchi, è Torino divenne e restò per qualche tempo il capoluogo d'una provincia del regno di Francia. Non si estinse per altro tutta la schiatta de' Longobardi; non vi si cangiò da principio la forma del governo, nè si abolirono le leggi emanate dai predecessori del re Desiderio. Conquistatore moderato e saggio Carlo Magno lasciò vivere chi volle secondo le leggi che aveva adottate; oltrecchè lasciò non pochi de' principali Longobardi in possesso de' governi che avevano prima.

• Niuna mutazione di stato costò mai all'Italia meno di sangue e meno travagli di questa, che accadde sotto Carlo Magno. Il Muratori da varie carte, e specialmente da un luogo notevole dell'anonimo salernitano, dedusse le cagioni della subita rovina del re Desiderio, le quali cagioni si riducono insomma a queste, ch'egli fosse abbandonato e tradito da molti de' suoi, e che cotesta divisione d'animi fra sudditi del Re fosse nata dai maneggi di papa Adriano, e dell'abate Anselmo di Nonantola, longobardo accreditato fra i suoi, é nemico di Desiderio sin dal tempo che Rachis aspirò a rimontare sul trono. Comunque sia, Carlo Magno, senza punto' alterare il sistema del governo, cominciò, come s'è detto, á prendere il titolo di re de' Longobardi, cui aggiunse a quello che già portava di re de' Franchi. Meglio di ogni

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altro principe o italiano o lombardo profittò di questo rivolgimento il Papa e la chiesa, largamente ed in più modi beneficata dal vincitore. Ma nè per tutto questo tenne il re Carlo il nuovo dominio senza qualche sospetto, nè il Papa potè goder tranquillamente de' favori da lui ottenuti. Varii dei duchi d'Italia vedendosi non favoriti conforme ai loro desiderii da Carlo, tenevano pratiche con Adelgisio, aspettando che questo Re sbandito, con qualche ajuto dell'imperatore di Costantinopoli, e colle intelligenze de' suoi antichi fedeli, facesse qualche azzardosa discesa in Italia. Il che però non ebbe mai affetto alcuno; e Adelgisio dovette finire i suoi giorni in Grecia col vano titolo di Patrizio, che gli diede per consolarlo l'Imperatore. Quanto al romano Pontefice egli trovò forti contradditori al possesso delle città donate alla chiesa, dal canto degli arcivescovi di Ravenna, i quali, per assai tempo, vi fecero notabile comparsa.

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Carlo Magno, passati appena sei anni da che egli s'era impadronito d'Italia, dovendo da lei partirsi per tornare alla guardia degli antichi stati, e per conquistarne altri nuovi, dichiarò, e fece riconoscere per re d'Italia il suo secondo. genito Carlomanno, il quale avea avuto il nome di Pipino dal pontefice Adriano, quando questi lo battezzò nel 781. Siccome Pipino allora non era per anco uscito dall'infanzia, ben si vede, che sotto di lui gli affari dello stato dovevano prendere regola e movimento dalle lettere di Carlo Magno, dai governatori lasciati o mandati da lui. Ciò non di meno la presenza di un Principe proprio, benche fanciullo, giovava assaissimo, massimamente in un nuovo stato, qual era pe' Francesi il regno d'Italia, a mantenere la moltitudine nella devozione, ed era non debil ritegno a chiunque fosse stato tentato di usurpare il titolo di Re.

Ciò non di meno restava nel cuor dell'Italia un possente capo alla parte longobarda, cioè Arigiso duca di Benevento, sommamente avverso ai Franchi, il quale, invece del titolo di Duca, che dinotava subordinazione, prese quello di Principe, come sovrano e indipendente; e fattosi dal suo scovo ungere ed incoronare, portò poi scettro e diadema da Re. Di costui che avea forze, coraggio e senno, sommamente temeva il papa Adriano, il quale perciò non frappose indugi

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a invitare Carlo Magno a calare in Italia per ridurre alla sua obbedienza Arigiso: Carlo venne con un fiorito esercito; e quel duca o principe di Benevento cercò subito di calmarlo col promettergli un aunuo tributo di sette mila soldi d'oro, e col dargli per statichi i due suoi figliuoli. Pochi mesi dopo Arigiso morì di cordoglio; e Carlo Magno, non ostante la ripugnanza del Papa, ristabilì, l'anno 788, negli stati di Arigiso il giovane Grimoaldo di lui figliuolo. Si vide dappoi che Carlo Magno colla sua generosità sollevò nella persona di questo duca Grimoaldo un potente emolo al suo figliuolo Pipino; perocchè tra questi due giovani e prodi Principi nacque una terribile gara, mentre Pipino non potea soffrire alcuno eguale, e Grimoaldo non volea riconoscere alcun superiore. Ma una morte immatura tolse ai Longobardi ed ai Beneventani un Principe che dava di se le più alte speranze.

Frattanto un valente papa, Leone III, succeduto ad Adriano, concepì l'alto e nuovo pensiero di portare alle cose d'occidente novello splendore, accrescere alla dignità papale un nuovo diritto, e nel tempo stesso mostrarsi riconoscente a Carlo Magno, che recatosi a Roma seppe acquetar come patrizio le terribili discordie, onde per poco stette ch'esso papa Leone cadesse vittima. Ecco in qual occasione seguì la memoranda rinnovazione dell'imperial dignità in occidente. Venne il giorno del santo Natale (an. 800), in cui tutta la corte di Carlo, ed una infinita moltitudine di Romani intervennero alla solenne messa che cantò l'anzidetto Papa nella basilica vaticana; la qual messa appena terminata, il Sommo Pontefice si presentò al Re con una splendida e ricca corona, e mettendogliela sul capo, intonò la nota e famosa acclamazione: a Carlo, piissimo augusto, coronato da Dio Grande e pacifico imperatore, vita e vittoria; la quale acclamazione ripetuta con estremo giubilo da tutto il clero, dalla nobiltà e dal popolo ch'era in chiesa, per compimento della funzione, il Papa unse con olio santo il nuovo eletto, ed eziandio il suo figliuolo Pipino che si trovava presente.

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XIII.

Sorti politiche e civili di Torino

e del Piemonte sotto gl'imperatori Franchi.

Una delle prime cure dell'illustre Carlo Magno, dacchè diveniva padrone dell'Italia, era quella di togliere dalle provincie di essa i duchi stabiliti dai Longobardi, i quali omai comandavano come altrettanti sovrani: vero è che di quei Duchi lascionne parecchi, ai quali però non diede che il titolo di Comites, ossia compagni di governo. I governatori da lui stabiliti in tutto il regno, e detti poi conti, stavano in ufficio a solo beneplacito del Monarca; non reggevano che le sole città principali e i territorii di esse, e vi avevano la giurisdizione civile e militare; ma sopra di loro furono stabiliti due sorta di giudici; cioè i messi regali, i quali recavansi nei comitati a ricevere e a definire le appellazioni; ed il conte del sacro palazzo, a cui spettava di pronunziar le sentenze nelle cause che si portavano all'udienza del Re.

Venendo a morte questi conti, n'erano per lo più confermati i loro figliuoli nell'ufficio, che perciò da personale divenne quindi ereditario nelle famiglie. Alcuni di siffatti governatori andarono poi dilatando, come già facevano i Duchi sotto i Longobardi, il proprio distretto su quello degli altri, e poco a poco divenuti possenti, si fecero chiamar Duchi, ed anzi taluni di essi non dubitarono di erigere in regno il proprio territorio.

Carlo Magno ristabilì il Piemonte negli antichi suoi limiti. Sotto i Longobardi i confini di questo paese erano stati assai più ristretti di quel che lo fossero per l'addietro. La creazione da loro fatta dell'astese ducea, che estendevasi a ponente sino alla valle di Stura, e a destra di questo fiume sino al collo di Tenda, rendette la ducea di Torino limitrofa a quella dalla manca dello Stura, insino al punto in cui esso mette capo nel Tanaro. Verso il lato occidentale il Piemonte perde con le alpi Cozie la Susina valle fino alla chiusa detta de' Longobardi tra il monte di s. Michele, ed il monte opposto di Celle. Dal lato di levante teneva esso i

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