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colli torinesi che fronteggiano Torino da Moncalieri sino a Casalborgone. Quivi il ducato d'lvrea s'era disteso, pei colli, alla destra del Po sino a Cocconato. I Vercellesi eransi dilatati nei colli Monferrini sin presso a Testona, onde Castelnuovo di Chieri loro appartenne per lunga pezza.

Sotto i Carolingi, cioè sotto i Franchi imperatori della discendenza di Carlo Magno, il Piemonte ebbe due sorta di estensioni, cioè quella di semplice contea, e l'altra molto più considerevole, detta di marca. La prima veniva governata da un conte che risiedeva in Torino soggetta ad un altro conte denominato di marca dalla teutonica voce mark, che vuol dire confine. Questo governatore detto poi marchese dovendo custodire un confine dell'impero, aveva bisogno all'occasione del concorso delle vicine contee, che perciò erano da lui dipendenti nelle cose spettanti alla milizia. La marca di Torino che dovea guardare i passi delle alpi Cozie e delle alpi Marittime, comprendeva, oltre la contea di Torino, quelle d'Asti, d'Alba, d'Acqui, di Tortona sino alla Trebbia, l'Oltrepò pavese, quindi il mare da Alhenga insino al Varo, il contado di Cimela, ossia di Nizza Marittima, il contado Tineense, quello di Bredulo, ora di Mondovì, ed infine quello d'Auriate, che fu dappoi compreso nella saluzzese provincia.

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Il contado proprio di Torino sotto i Carolingi, era terminato a borea dal Malone sino al Po, alla cui destra sponda dilungavasi sugli eminenti colli sino a Casalborgone, ultima terra dell'eporediese contea. Quinci volgendo ad ostro, una linea conduceva per que' colli medesimi a Baldissero, estrema terra in allora del contado astese. Un piccolo torrente, che esce dai poggi di Baldissero, e scorre fino al Po verso Carmagnola, segnava il confine del contado d'Asti con quello di Auriate verso ponente alla destra del Po; ed a manca di questo fiume, il suo limite scorreva dal Monviso insino all'Iserano. I territorii di Chieri e di Pollenza, dopo la distruzione di quest'ultima città, furono aggiunti al contado di Torino. Un chiaro scrittor moderno pretende che anche Savigliano col suo territorio fosse compreso nella contea di Torino, ma crediamo che questa sua opinione non si appoggi a solido fondamento. Carlo Magno restituì al contado

di Torino, epperciò all'Italia, i naturali suoi limiti col ritor nargli le valli di Susa e di Lanzo; sicchè i conti di Torino, dopo quest'epoca, esercitarono la loro giurisdizione. sugli abitanti di quelle due valli.

Le prosperità di Carlo Magno cominciarono ne' suoi ultimi anni ad essere mescolate di molte amarezze. I progressi dei Danesi, chiamati allora comunemente Normanni, cioè uomini del settentrione, gli davano forte timore che col tempo recar potessero grave disturbo e travaglio a'suoi successori. Alla tema di mali estrinseci se gli aggiunsero i disgusti presenti per gli scandali di sua famiglia e per la perdita de' figliuoli primo e secondogenito. Fra questi dispiaceri il re d'Italia Pipino morì nell'anno 810 in tempo appunto che pel vigor degli anni, e per la pratica già acquistata e del civil governo e dell'arte della guerra, era fatto capace di regnar con vantaggio de' sudditi e laude sua. Lasciò egli un suo figliuolo di tenera età, per nome Bernardo, cui Carlo Magno gli diè per successore; e l'Italia, dal governo d'un principe d'età perfetta ed esercitato al comando, passò nuovamente sotto l'amministrazione d'un fanciullo. I Torinesi dapprima se ne mostrarono malcontenti, ma presto si racconsolarono vedendo che i loro destini, come quelli di tutti gli altri sudditi, dipendevano a loro pro dalla saviezza e dall'esperienza di un ottimo ministro, qual fu Adelardo, abate di Corbeja, già ajo e principal consigliere del morto Re e ciò che molto rileva è che questi, oltre al sommo merilo suo, non poteva a meno di essere influente a procurare i migliori vantaggi ai sudditi del giovinetto Re, essendo nipote di Carlo Martello, epperò cugino di Carlo Magno. Aveva Adelardo per compagno nel ministero un suo fratello per nome Vala, uomo laico di grande saggezza e lealtà. Ressero questi due fratelli il regno d'Italia e la fanciullezza del re Bernardo nei due o tre anni ch'ebbe ancor di vita il già vecchio Imperatore; ma morendo Carlo Magno nell'814 lasciò l'impero d'occidente al suo figliuolo Ludovico I, cognominato il Pio, od il Bonario, unico superstite dei fratelli, e ben presto si fecero sentire, massimamente ai Torinesi, i tristi effetti del nuovo governo.

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I cortigiani di Ludovico, invidiosi del credito dei due fra15 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

telli Adelardo e Vala, gli insinuarono non essere cosa per lui sicura, che due uomini di nascita sì chiara e di tanta riputazione fossero lasciati amministratori d'un sl bel regno, qual era l'Italia, sotto nome di un giovinetto Re. Non si volle molto perchè l'imperatore Ludovico, nato con qualità proprie a lasciarsi raggirare da' suoi cortigiani, richiamasse d'Italia e cacciasse anche in esiglio i due saggi e valenti ministri, alla caduta dei quali poco stette a tener dietro la rovina del re Bernardo. Ma benchè Ludovico trattasse questo Re suo nipote con più di durezza che questi non si sarebbe dovuto aspettare da un parente e da un Imperatore che godeva di portare il soprannome di Pio, bisogna non di meno confessare, ch'egli meritò in parte lo sdegno di Ludovico per essersi fatto capo di una ribellione, la quale siccome si trasse dietro incontanente mutazion di governo in Italia così fu forse col tempo occasione delle turbolenze che nacquero nella famiglia di esso Ludovico, e della rovina totale de' Carolingi.

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Sapevasi alla corte di Francia che molti de' signori e dei prelati francesi si trovavano mal soddisfatti dell'imperatore Ludovico, sotto cui si vedevano scaduti da quella riputazione che avean goduto sotto Carlo Magno, Questi malcontenti, fra i quali il principale era Teodolfo, vescovo d'Orleans, sollecitarono Bernardo a farsi capo del lọr partito e muover l'armi contro la Francia. Sollecitarono ad un tempo i signori ed i prelati insubri e piemontesi allo stesso scopo, rappresentando a tutti che Ludovico, spartendo con poca equità tanti regni a' suoi figliuoli, avea omai dichiarato imperatore Lotario, senza far menzione di Bernardo, come se non fosse uscito del sangue di Carlo Magno. Per lo che molte delle città del regno italico avendo giurato la guerra in favor di Bernardo, anche Torino entrò nella lega, e fece esercito radunatesi a piè delle taurine alpi tutte le truppe confederate, applicò Bernardo ogni studio a serrare i passi al suo avversario, e principalmente il varco di Susa, che era il più pericoloso. Nel che l'avea ben consigliato la prudenza militare, e forse egli avrebbe ottenuto il suo intento se la sua impazienza, vieppiù riscaldata dai capi della lega, non l'avesse indotto a provocare sopra le alpi il nemico, che

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vi si era collocato in sito forte e vantaggioso: Bernardo, sospinto da' suoi capitani, che gli prenunziavano certa la vite toria, ed animato eziandio dalle presaghe benedizioni dei Vescovi congiurati che muovevano con lui, venne al gran cimento; ma tanto fu il numero e tanto l'impeto de' Franchi contro gl'Insubri ed i Subalpini, che gli stessi baroni e prelati che avevano sospinto il nostro Re a muovere tant’oltre, sopraffatti dall'inopinata forza de' nemici ed atterriti dalla propria coscienza, furono i primi ad abbandonare il re Bernardo, il quale, non credendo restargli aperta alcuna via di salvezza, andò a gettarsi a' piedi del suo nemico per implorare il perdono. Ciò narrano Eginardo ed altri dopo di lui. Gli storici francesi per altro, tacendo di quel combattimento, riferiscono come Ludovico ebbe qualche notizia della trama ordita da Bernardo e dai baroni di lui, epperciò che il re d'Italia, prima che fosse abbastanza fatto forte per resistere alla potenza dello zio, fu costretto a darsi per vinto ed a recarsi ai piedi dell'Imperatore a chieder mercè. Ma la cronaca d'Andrea Prete, che allora vivea, ci porge argomento di credere, che Bernardo fu tratto in Francia dalle false promesse di pace fattegli dall'imperatrice Ermengarda, la quale con insigne perfidia lo trasse al laccio per poter colla rovina di lui procurare maggiore stato alla sua prole; diffatto, condottosi in Francia il re Bernardo, venne da un'assemblea di baroni condannato a morte come reo di fellonia; e l'Imperatore, quasi per fargli grazia, ordinò che invece di mozzargli il capo fosse solamente accecato; ma per la malvagità dell'imperatrice Ermengarda gli furono cavati gli occhi in modo tanto crudele, che dovette ben presto morire. L'Italia non rimase a lungo priva di un Re e della corte. Ludovico vi spedì il primogenito Lotario nell'anno 822, e gli diede per ajo il saggio Vala, che era già stato ministro dell'infelice re Bernardo, e ben conosceva il carattere, i costumi ed i bisogni degli Italiani.

Frattanto la città di Torino, che avea sperato una lunga tranquillità sotto Ludovico, denominato il Pio, si ritrovò, dopo i fatti sopraccennati, sotto un monarca molto possente ed a lei quasi avverso per causa della parziale affezione che i Torinesi avevano dimostrato verso il re Bernardo. Ciò non

pertanto Ludovico, chiaramente veggendo come i buoni Torinesi si mostravano poscia devoti a lui, riconoscendolo comé legittimo Imperatore, perchè era considerato per tale dalla Santa Sede, cangiando lo sdegno in amore s'indusse a recar loro i maggiori vantaggi. Ma senza saperlo apportò megliˇ à Torino un gran male, che durò assai tempo. La torinese cattedra episcopale si trovò sotto di lui vacante, e l'imperatore nominò ad occuparla un certo Claudio, ch'era nel novero de' suoi cappellani e limosinieri, il quale godeva una grande stima come uomo dottissimo e sommamente virtuoso. Ben si può credere che la città di Torino si rallegrò quando seppe che le era destinato per vescovo un personaggio di tanta riputazione; ma l'allegrezza di essa prestamente si cangiò in fiero cordoglio. Non è da stupire che Ludovico si fosse ingannato per riguardo a Claudio suo favorito era questi già stato eletto a dirigere una scuola, che da Carlo Maguo era stata stabilita, e di cui il primo maestro fu il famoso Alcuino. Claudio avea composto molti commentarii sopra le divine Scritture; tre sopra la Genesi nell'anno 814; uno sopra s. Matteo, ch'egli dedicò nell'815 a Giusto abate di Charroux; quattro sopra l'Esodo, ed alcuni altri sopra il Levitico. Egli spiegò inoltre tutte le epistole di s. Paolo, dedicando all'imperatore Ludovico l'epistola dal grande apostolo indiritta agli Efesii. Oltre a ciò, prima di venire a Torino, mostravasi zelantissimo a bandire la divina parola, promuoveva con ogni modo l'istruzione dei popoli. Furono questi i motivi che indussero quell'Imperatore a proporlo alla torinese cattedra vescovile circa l'anno 820. Ma appena che prese Claudio il possesso di questa diocesi, depose la maschera, e cominciò a vomitare il veleno, che da lungo tempo gli bolliva nel petto; e si conobbe esser vero che gli onori non cangiano, ma scuoprono i costumi. Egli era un sacerdote spagnuolo, il quale avea avuto per maestri Felice Urgellitano e Gioanni Wicleffo, che entrambi professavano eretiche dottrine: egli adunque cominciò a manifestare in Torino un'indole altiera, e sotto colore di voler correggere gli abusi, si fece a detestare pubblicamente, come avanzi del gentilesimo, l'adorazione della croce, e il culto delle immagini dei santi e del Redentore; nè a ciò stando contento,

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