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quali non fu in quell'occasione risparmiato il titolo di tiranni.

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Venne pertanto Arnolfo con grosso esercito in Italia, prese con ostinato assalto la forte città di Bergamo; e la crudeltà da lui usata verso i prodi difensori, recò tale spavento alle altre città, ed ai governatori di esse, che senza indugi si videro i più ragguardevoli signori prestare omaggio al vincitore, e in poco tempo quasi tutta la Lombardia si trovò a devozione di Arnolfo, il quale venne non coll'intenzione di ajutar Berengario, ma col fermo proponimento di rendersi assoluto padrone della nostra penisola. Restava per altro verso le alpi il castello d'Ivrea, dove Anscario od Ansgero, fratello di Guido, si teneva assai forte, avendo un buon presidio d'uomini provenzali mandatigli da Rodolfo re di Borgogna. Pare da qualche diploma che Arnolfo sia entrato alla fine anche in Ivrea; ma non si può accertare se il castello venisse in potere di lui. Ben sappiamo che Arnolfo, per rabbia di aver trovato genti del re Rodolfo in Italia in ajuto de' suoi nemici, mandò contro di lui in Borgogna il suo bastardo Zuendebaldo, nel mentre che egli ricondusse in Germania l'altra parte del suo esercito, che per la fame, per la diversità del clima, e per una insolita intemperie avea fieramente patito in Lombardia.

Morì in questo mezzo l'imperatore Guido; onde pareva che Berengario, per la fanciullezza di Lamberto, già collega 'e poi successore di Guido nella imperial dignità, dovesse alquanto rialzarsi. Ma Arnolfo, il quale pensava di ritenere per se il regno d'Italia, confinò, come apparisce dagli annali di Fulda, Berengario fuori d'Italia, od almeno ve lo lasciò in basso stato; questi cominciò ad aver pratiche con Adelberto marchese di Toscana, a fine di liberarsi l'uno e l'altro dalla soggezione de' Tedeschi. Nè intanto stava neghittosa la vedova imperatrice Ageltruda, madre del giovane imperatore Lamberto; anzi con maschio valore si adoperava a sollevarne 'il partito. Era in questo tempo il papa Formoso fieramente perseguitato da Sergio, suo competitore al papato, al cui partito eransi accostati il marchese di Toscana, ed anche l'imperatrice Ageltruda; sicchè Formoso più non avendo migliore scampo che la venuta di Arnolfo, invitollo nuova

mente a Roma a prendere la corona imperiale. Ageltruda sentendo che Arnolfo si avvicinava, e non avendo forze sufficienti da contrastargli l'entrata in Roma, sen fuggì a Spoleto. Arnolfo fu incoronato da Formoso, e dati alcuni ordini in Roma, si mosse a perseguitare la vedova Imperatrice. Ma essendo caduto infermo, e stimando che l'aria di Baviera gli fosse più salubre, si affrettò a passare le alpi, e per la via di Trento tornossene al suolo natio, lasciando in qualità di suo luogotenente in Milano un altro suo figliuolo bastardo per nome Radoldo.

Appena quel re di Germania rivalicò le alpi, Berengario ricominciò le ostilità contro Lamberto; ma questi ne uscì allora vincitore, ed avuto nelle mani Maginfredo, detto anche Magnifredo e Manfredo, che era conte e marchese di Torino, ed avea contro di lui abbracciata la causa del re di Germania, condannollo ad essere, come subito lo su, decollato. Lamberto, dopo aver fatto uccidere il torinese conte Magnifredo, con più collera che giustizia, ripose il di lui figliuolo Ugo nella carica e nel grado del padre. Ma chi non è da ignoranza delle cose del mondo, o da qualche forte passione abbagliato, conosce molto bene che rarissime volte i nuovi od i vecchi benefizii compensano le fatte ingiurie e schiantano dal cuore dell'offeso il desiderio della vendetta. Andava l'imperatore Lamberto spesso a caccia nella foresta di Marengo, la quale era un resto dell'antica selva Urbe, già luogo di caccia dei re Longobardi, come cel narra Paolo Diacono. Or avvenne che, smarriti, o lasciatisi addietro gli altri cortigiani che lo seguivano, si trovò salo col conte Ugo, • ch'era divenuto il suo maggior confidente, e questi veden-dosi un sì bel destro di vendicar la morte del padre, am mazzò con un colpo di bastone l'Imperatore; e lo fece con tanta cautela, ch'egli potè far credere per lungo tempo, che Lamberto, cadutogli sotto il cavallo mentre a briglia sciolta *perseguitava una fiera, si ruppe il collo e morì (898),

Così Berengario, rimasto senza questo rivale, non ebbe molto a penare per farsi riconoscere solo padrone del regno italico, tanto più che la sanità di Arnolfo, peggiorando di giorno in giorno, non dava luogo a temere ch'egli fosse per tornare a riveder le sue ragioni in Italia. Infatti quel Re

cessò di vivere pur di quel tempo, e lasciò il regno della Germania a Ludovico suo figliuolo legittimo, il quale essendo ancor molto giovine non poteva inspirar gran terrore a Bèrengario. Ciò non di meno questo giovine Re influì indirettamente alla seconda caduta di Berengario, e alla desolazione che patì l'Italia sotto il suo regno.

XV.

Gli Ungheri o Madjares discendono in Italia: mettono a ruba ed a sangue il Milanese, e tutta l'estesa regione, di cui Torino è capitale. Adelberto conte di Torino, circa il 900; alcuni suoi fatti. Le ultime vicende di Berengario e sua morte.

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Gli Ungheri, o Maggiari, nazione uscita dalle stesse contrade della Scizia, dond'eran venuti gli Unni al tempo d'Attila s'avanzarono dalla parte di Germania, essendosi già renduti tributari i Bulgari ed i Greci. Il giovine re Ludovico, ossia che non si sentisse in forze da poter resistere a quei feroci invasori, e si vedesse perciò costretto a lasciarli scorrere dovunque volevano, ovvero perchè così credesse di sfuggire i travagli e i pericoli della guerra, venne con essi a patti di lasciarli passare avanti a portar le armi nell'italiana penisola, dove potevano trovare miglior sorte. Liutprand. lib. 2, cap. A e 7. Comunque si fosse, nei primi anni che scorsero dalla morte di Arnolfo, scesero gli Ungheri in Lombardia, dove Berengario solo regnava. Questi fece da principio sì valido riparo al furore di que' barbari, ch'eglino voltando i passi addietro, e non volendo, atteso lo svantaggio del numero, tentar la sorte della battaglia, già si erano ritirati 'verso la Brenta; e di là mandarono pregando il Re, affinchè si contentasse di non impedir loro la ritirata, ed offrendogli perciò di restituire quanti prigioni avean già fatto e promettendo eziandio di non mai più metter piede in Italia. Commise Berengario in quest'incontro il più enorme fallo che aspettar si possa da un cattivo politico, e da un presuntuoso capitano. Sulla fiducia di rompere con facilità quella gente, e d'acquistarsi nome di prode guerriero, e distruttore de'barbari, ricusò il partito offertogli dagli Ungheri, i quali animati dalla disperazione combatterono contro l'e

sercito di Berengario con tanto furore, che vintolo e messolo in fuga, scorsero poscia e saccheggiarono le terre lombarde, e venute nel torinese contado vi commisero orribili nefandità. Tra i più ragguardevoli subalpini che furono maggiormente scopo al furore di questi invasori, si nota il vescovo di Vercelli, il quale per salvar sè e le robe sue dalla crudeltà e rapacità di quegl'infedeli, volendo cercare non si sa dove il suo scampo, cadde sventuratamente nelle loro mani, fu spietatamente ucciso, e tutte le sue ricchezze. furono involate e portate via.

Gran biasimo riportò Berengario dall'avere imprudentemente irritato gli Ungheri, e delle triste conseguenze che ne derivarono; e nel diminuire che ei fece di riputazione, cominciarono i principi Italiani a pigliarlo in fastidio. Già cominciava a metter radici in Italia quella politica, che fu notata da Liutprando qualche tempo appresso, cioè che gli Italiani volevano aver sempre due padroni, a fine di raffrenare uno col timore dell'altro, e non soggiacere ad alcuno. Le vicende di Ludovico di Provenza, che poi tra gli imperatori ebbe nome di Ludovico III, discuoprono manifestamente così fatta politica. Venne egli chiamato in Italia, e vi tornò anche più fiate, nè mai potè fissarvi il piede, comandarvi con autorità. Nella prima sua venula appena intese che Berengario, non ostante la sconfitta ricevuta dagli Ungheri, gli si faceva incontro con nuove forze, domandò subito di far pace, e per ottenerla promise con giuramento di non mai più venire nella penisola. Tornatosene con poco onore al patrio regno, non tenne già la promessa fatta di non tentar novità contro lo stato di Berengario. Perchè sollecitato nuovamente da qualche signore italiano, deliberò di riassumere l'impresa, che parve da prima dovergli riuscire prosperamente. Ed invero una gran parte della Lombardia gli si sottomise; ed ito poi egli a Roma, vi ricevette la corona imperiale da papa Benedetto IV.

Nello avvicendarsi dei trionfi e delle sconfitte di quegli Imperatori e di quei Re, ognuno può immaginarsi come fossero mal ferme le dignità de' conti e marchesi dall'un vincitore innalzati e dall'altro oppressi. Per riguardo al conte di Torino, il cronista della Novalesa, che tra le molte

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favole da lui narrate lasciò pur travedere alcune importanti verità, ci porge egli solo la notizia di un Adelberto o Alberto, che intorno al 900 teneva il torinese contado, e seit anni dopo accolse in questa capitale fuggenti i monaci del monistero fondato da Abbone patrizio un secolo e mezzo avanti. Nei primi łustri del secolo ix questi monaci già si trovavano nella più prospera condizione; ed eransi procacciata tanta influenza, che tentavano di sottrarre i valleggiani di Bardonesca dalla giurisdizione del conte di Torino, primo esempio tra noi dell'abuso nato a quei giorni di usurpare nelle proprie terre la così detta giustizia territoriale, donde poi sorsero l'anarchia e la confusione dei subalterni governi si moltiplicati e suddivisi. Non di meno quei monaci per allora non vinsero, e fuvvi mantenuta la giu-› risdizione del conte di Torino. Il monastero Novaliciese già era divenuto sommamente ricco, quando se gli appressarono furiosamente i Saraceni di Frassineto, o più veramente una: moltitudine di ribaldi delle nostre e delle vicine contrade che avevano con seco alcuni dei Saraceni. Quando i monaci per sottrarsi al furore di quei barbari, di cui seppero vicino Parrivo, sen fuggirono da Novalesa col loro abbate Donniverto, ebbero cura di trasportare a Torino. coi tesori che avevano ammassati anche la loro ricca e preziosa biblioteca, la quale fu poi per un disgraziato accidente consunta dal fuoco, ed il rimanente che consisteva in cinquecento volumi da essi imprestato o impegnato a Ricolfo preposto della cattedrale di Torino, passò a dare cominciamento all'antica biblioteca di s. Salvatore in questa capitale, e se ne ha ancora it registro di un vecchio catalogo (Meiranesio, Pedem. sacr tom. 4, part. 4.)

Il conte e marchese Adelberto mosso a pietà di quei monaci, ricoverandoli in Torino, cominciò a segnar loro la chiesa e il monastero dei ss. Andrea e Clemente di Torino, ora della Consolata, e cedette poi ad essi il luogo e il territorio di Breme, che oltre la fertilità del suolo offeriva grande sicurezza per la vicinanza della sede imperiale di Pavia. Per loro uso, fece ivi edificare uno stupendo monastero, assegnandogli per dote le corti di Breme e di Policino. Diremo in appresso come questo generoso contene

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