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marchese provvide largamente ai bisogni di que' pochi monaci novaliciesi, che rimasero nella nostra capitale. Qui notiam di passata che il nostro conte e marchese Adelberto fu padre di Berengario II, e perciò figliuolo di Anscario marchese d'Ivrea, fratello di Guido già duca di Spoleto e poi Imperatore.

Or ritornando a far parola di Berengario I, dobbiam riferire ch'egli per la sconfitta ricevuta dagli Ungheri fece credere a molti ch'ei fosse mal atto a difender l'Italia dagli insulti che riceveva dai feroci Saraceni in più parti; ed è perciò che il papa Benedetto IV s'indusse a coronare imperatore il predetto Ludovico III; il quale non avendo potuto far prova alcuna degna dell'aspettazione che altri avea di lui contro i nemici della chiesa, ne avvenne che i principi italiani o infastiditi de' suoi modi, o gelosi del suo supremo potere, ordirono una congiura contro di lui. Promotrice di tale congiura si crede essere stata la moglie del duca di Toscana, la quale si adoperò fortemente per riaccendere nel petto del suo marito e d'altri signori italiani quella stessa gelosia che prima gli aveva mossi a chiamar Ludovico in Italia per abbassar Berengario. Questo Re, che cedendo alla contraria fortuna, erasi ritirato in una montagna, aspettando che il vento tornasse spirargli favorevole, or fatto consapevole della disposizione della corte Toscana, cautamente applicossi a ravvivare il coraggio di quelli, che gli erano cordialmente favorevoli. Sparse, o studiosamente lasciò che si spargesse un falso rumore ch'egli fosse morto. Intanto si avvicinò cautamente a Verona, dove Ludovico se ne stava trascuratamente quasi non gli restasse più che temere in Italia. Quivi sopraffatto all'improvviso dalla fazione di Berengario, fu preso e condotto davanti al suo nemico, il quale rimproveratolo aspramente dell'aver violato il giuramento fatto di non rientrare in Italia, o comandò, o permise o non potè impedire che gli fossero cavati gli occhi; solito crudele scherzo che si faceva in quell'età ai principi sbalzati dal trono. Così, rimandato pieno di rammarico e di vergogna il suo avversario in Provenza, rimase Berengario un'altra volta padrone del regnò ; e non volendo avventurarsi a commettere di nuovo battaglia coi feroci

Ungheri, che tuttavia rimanevano nel torinese contado, e. nelle terre Lombarde, prese il partito di farneli partire col, mezzo di larghi doni che loro fece. Quindi passò egli circa. due lustri senza gravi disturbi; e durante questo tempo la. provincia di Torino, le altre terre subalpine, e la Lombardia godettero alcuna quiete a preferenza degli stati meridionali d'Italia, continuamente infestati dai Saraceni. II. papa Gioanni X vedendo che non restava oggi mai altro mezzo di porre qualche riparo alle continue irruzioni di quei crudeli Africani, fuorchè l'esercito, comunque piccolo, pensò di tirarlo alla difesa di Roma e delle terre della Chiesa con offerirgli l'imperiale diadema. Berengario andò, veramente con le sue truppe contro i Saraceni ; ma il vanto primiero delle sconfitte ch'ei diede allora a quei barbari dovette attribuirsi allo stesso papa Gioanni X, il quale non contento di spinger loro addosso il Re d'Italia, procurò per questa impresa l'unione di varii principi dell'Italia meridionale, e indusse ancora il greco Imperatore a mandargli valido ajuto dall'oriente: e ciò che in quella guerra fu più notabile, lo stesso sommo Pontefice marciò alla testa delle milizie, esempio che fu poi seguitato, con poco riguardo alla loro dignità, da altri papi. Memorabile ad ogni modo si rendè nella storia l'anno 915 per essersi molto efficacemente represso l'ardire de' Saraceni, i quali sbaragliati, uccisi o fatti schiavi, appena rimase qualche avanzo del loro esercito in quelle nobili parti d'Italia. Berengario in quell'anno stesso, per guiderdone dell'essersi mosso ad una guerra così giusta e così pia, ricevette dal detto papa Giovanni la corona cesarea.

Tosto dopo la sua esaltazione al trono imperiale Berengario incorse in tali travagli, che terminarono coll'ultima sua rovina. Non mancando nè di coraggio nelle avversità nè di sudditi fedeli pronti a versare il proprio sangue sua difesa, affrontò a Firenzuola tra Piacenza e Borgo s. Donnino il suo nemico Rodolfo Il re della Borgogna Tranjurana, che tentava di rapirgli la corona. La vittoria si decise in favore di Berengario; ma indi a poco funne così abbandonato da non trovare altro scampo che nell'indegno ripiego di richiamare in Italia gli spietati Ungheri, e di

spingerli alla volta di Pavia. Questo spediente gli eccitò contro lo sdegno e l'odio degli stessi cittadini di Verona, ov'erasi ricoverato; ed un certo Flamberto, che da lui era stato colmato di benefizii, colla più nera ingratitudine lo assalì di notte tempo, un po' prima che sorgesse l'aurora, mentr'egli senza sospetto, secondo il suo costume recavasi. ai divini uffizii, e barbaramente lo trucidò. Berengario tenne il regno d'Italia per trentasette anni, e la imperial dignità per poco men di due lustri. La sua morte fu generalmente: compianta, e massimamente dai torinesi e dagli altri abitatori delle terre subalpine, che non avevano mai abbandonato il suo partito così nella prospera sua fortuna, come nell'avversa: e la storia non niega che Berengario fu principe per valore, per giustizia, pietà e clemenza molto ragguardevole sopra ogni altro dell'età sua.

XVI.

I Torinesi si ribellano al loro vescovo.

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Conseguenze di questo

fatto. Ugo di Provenza è creato re d'Italia; viene a Torino,
ove soffermasi per qualche tempo.

Verso il fine del secolo ix reggeva la chiesa di Torino il vescovo Amulo, detto anche Amulone, il quale avendo non solo il regime spirituale, ma eziandio il temporal dominio in questa città, disgustava probabilmente i suoi sudditi con atti così arbitrarii e tirannici, che questi levatisi a tumulto, lo discacciarono da Torino, e si elessero alcuni capi. col nome di consoli o di capitani, che lo reggessero a foggia dei liberi comuni. Quel vescovo intervenne nell'anno 898 ad un concilio congregato in Roma da papa Giovanni IX, è fece quanto potè per onorar la memoria del sommo pontefice Formoso, la cui riputazione era stata lo scopo di molte accuse. Ma convien credere che questo Amulo non solamente non fosse in voce di buon pastore, ma che colla sua indegna condotta avesse dato motivo perfino a sospettare ch'ei fosse capace d'atti crudeli; ed in vero il cronista della Novalesa dice ch'egli fu partecipe dell'uccisione dell'imperatore Lamberto, avvenuta, come già dicemmo, nella foresta di Marengo; può essere che il cronista abbia ciò

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detto senza buon fondamento; ma egli al certo non s'ingannò affermando che il vescovo Amulo fu dai Torinesi indegnati contro di lui espulso dalla loro città, e che per tre anni ne lo tennero fuori, dopo i quali potè egli entrarvi con un corpo di truppe, e per vendicarsi de' cittadini, e sottometterli, atterrò i portici, le torri e le mura che ornavano e difendevano la città. Amulus, dice il cronista Novalicese, episcopus taurinensis, qui ejusdem civitatis turres, et muros perversitate sua destruxit. Così in questo vescovo abbiamo uno de' primi esempi di quell'ardente ambizione di dominio, che di poi invase molti prelati, e nei cittadini di Torino, i quali ebbero l'ardimento di scacciare Amulo, e di tenerlo lontano da loro pel corso di tre anni, si ha uno de' primi esempli di quello spirito risentito e vogliosissimo di libertà che quindi venne più sempre fermentando in tutta Italia. Non è già che fin sotto Carlo Magno, e sotto i suoi deboli successori l'Italia fosse rimasta ognor docile, e del tutto senza tumulti; chè il feudal governo d'allora inclinava per se stesso all'anarchia, ma già vi si correva a gran passi a' tempi del suddetto Amulo.

1 grandi vassalli d'Italia, che come quelli d'ogni altra parte d'Europa volevano sottrarsi alla dipendenza de' loro sovrani, ed anzi padroneggiarli, videro di mal occhio il novello re Rodolfo, che già prima della morte di Berengario avea ricevuto per mano di Lamberto arcivescovo di Milano la corona reale; postasi dunque alla testa dei malcontenti la marchesana d'Ivrea Ermengarda, provenzale d'origine, e consorte del marchese Adelberto 1, ordì coi principali signori di Torino, del Piemonte, e della Lombardia, che comprendeva le terre subalpine, una cospirazione per isbalzare Rodolfo dal trono, ed innalzarvi (an. 925) il sovrano di Provenza Ugo fratello uterino di lei, perchè nato dalle prime nozze del duca Teobaldo di Provenza con Berta madre di essa Ermengarda. Rodolfo, fatto consapevole della trama così estesamente ordita, credette per lo meglio (925) di andarsene in Borgogna; ma indusse il suocero suo Burcardo duca di Svevia, uomo rozzo e bestiale, a venire con molta gente in Italia, per vendicare gli affronti ch'ei qui ricevette. Burcardo giunto ad Ivrea, ed ivi lasciati i suoi militi, andò a Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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Milano, simulando la sola qualità d'ambasciatore di Rodolfo, per esplorarvi le disposizioni degli animi; ma ivi essendo stato scoperto dall'avveduto arcivescovo, i fratelli di Ermengarda lo fecero ammazzare nei boschi di Novara, onde le truppe ch'egli aveva lasciate in Ivrea, non tardarono a rivalicare le montagne.

Ugo intanto co' suoi provenzali (926) sbarcò a Pisa, ove lo accolsero gli ambasciatori de' principali baroni del Piemonte e del Milanese: innanzi a tutto egli punì gl'italiani in varii modi sotto pretesto di far cessare le loro discordie; spogliò molti dei più doviziosi, ed infierì a danno di quei grandi, che da lui furono riguardati con fiera gelosia. Nell'anno 929, Ugo venne in Piemonte, e si soffermò per alquanto tempo in Torino, ove il conte e marchese Adelberto lo ricevette con molte dimostrazioni di ossequio; ed anzi circondato da' suoi vassalli fece al cospetto di quel Re un alto assai munifico verso pochi monaci Novalicesi che erano rimasti privi d'ogni sostanza in questa capitale, mentre gli altri loro correligiosi, all'appressarsi dei Saraceni a Torino, se n'erano allontanati, ed avevano avuto ricovero in Breme. Fu dunque Ugo, presente all'atto con cui il marchese Adelberto donò a quei pochi monaci il castello, la villa e il territorio di Gunzene, ora Gunzole; e di più una corte a villa di s. Dalmazzo; i quali luoghi sorgevano non molto lunge dalla capitale presso il torrente Sangone, in sulla via da Beinasco a Rivalta. L'oratorio di Gunzole, che in oggi appartiene all'ordine mauriziano, conserva tuttavia l'antico titolo di s. Andrea, proprio della chiesa già ufficiata da quei monaci‹in. Torino. Giova notare che nell'atto di donazione, stipulato nel regale palazzo o castello, che era sovra la porta susina, e venne sottoscritto dai vassalli di Adelberto, questi s'intitolò Gratia Dei Marchio in Italia. Quel titolo indicante la grande importanza della geografica situazione di questa parte d'Italia, fu esclusivamente trasmesso ai successori di Adelberto nel torinese marchesato. Vero è che negli annali di Fulda, e presso Luitprando si dà il nome di marca d'Italia alla provincia del Friuli, ma è vero altresì che il nome di marca ivi sta unicamente nel senso generico di confine, e che in senso proprio il titolo di marchese d'Italia non si diede ad alcun altro tranne a quello di Torino.

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