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bene che il popolo fece rumori, acciocchè egli subito deponesse la dittatura.

Ma non era compatibile con l'attività dei Galli ravvivata da quel trionfo una lunga quiete; nè coi loro acquisti potean essi starsene contenti alle cose acquistate: per quel prospero fatto divennero i Galli siffattamente altieri, che di continuo irritavano i Romani, e questi paurosi non osavano comparir loro davanti. Non istettero gran pezza i Galli a condursi ostilmente fin sulle porte di Alba e di Roma; nè osando di muoversi le popolazioni di queste due città, con molta preda gli: arditi invasori ritornarono alle loro stanze, e così fecero parecchie volte a torme ed a squadriglie. Ma alla fine un'altra grande calamità sopravvenne ai Romani da tutte le nostre provincie di bel nuovo unite sotto la scorta di un altro Brenno; perocchè essendo discesa presso i taurini campi senza consentimento o saputa de' Cisalpini un nuovo e fiéro esercito di transalpine soldatesche, risolute, contro l'usato stile, di occupare a forza le sedi di qua dalle alpi già dai Galli occupate, la taurina popolazione, come la più vicina, già stava per esserne assaltata e costretta ad una lotta crudele'; ma per buona sorte il consiglio delle provincie unite, senza frammettere indugi, rappresentò, come narra Polibio, a quegli stranieri, lo scandalo che avverrebbe se la gallica nazione, confederata per natura, con armi avverse, da se medesima si distruggesse, aprendo tra le domestiche discordie la porta ai Romani per entrare di mezzo, e disertar gli uni e gli altri; meglio essere adunque di unirsi tutti in buona concordia contro al comun nemico facendo qualche nobile acquisto sopra i Romani, della cui crescente potenza omai adombravasi tutta l'Italia: con queste persuasioni accompagnate da doni e rinfreschi, fu di consenso unanime risoluta la seconda guerra gallica contro di Roma: uniti adunque gli animi, e riunite le armi de' Taurini, dei loro antichi, e dei novelli alleati, uscirono con esercito poderoso; ma perchè i Romani non osavano di mostrarsi, avendo i nostri libero il campo, ora assaltando le loro contrade, ora insultando al loro spavento, corsero tutta la tirrena spiaggia, depredando, guastando, uccidendo, e carichi di ricca preda ritornarono illesi e festanti a rimetterla in sicuro: quindi

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coll'animo più baldanzoso continuando l'impresa, due volte ruppero le schiere dei loro avversarii; e finalmente per tirarli più dappresso a generale battaglia, assediarono nella Toscana la piazza d'Arezzo, sapendo che i Quiriti non potevano allora esimersi dal soccorrere i confederati Aretini. Diffatto vi comparvero i Romani con piena oste; venuti i Galli nel loro disegno, si accinsero al gran conflitto sotto le mura degli assediati, tremanti aspettatori o della loro libertà, o della loro sciagura: si affrontarono adunque gli eserciti; il gallico sotto Brenno il giovine, il romano sotto Lucio console. Al primo squillar delle trombe i Quiriti furono accolti dai nostri con tanto furore che pochi di essi poterono salvarsi colla fuga, tutti gli altri restarono sul campo od uccisi, o prigioni: secondo che asseriscono Polibio lib. 2, Paolo Orosio lib. 3, vi morirono tredici mila soldati romani, moltissimi nobili, sette tribuni, e il console loro condottiero. La perdita è il minor male, quando al danno, in vece di compassione segue la beffe. Da questo giorno i gallo-liguri ebbero in tanto dispregio la romana repubblica, che avendo ella inviato nella nostra Gallia una sommessa ambascieria per trattare il riscatto dei prigionieri fatti nel memorabile combattimento, gli oratori stessi furono truci. dati dai Galli: ciò narrano i già citati Polibio e Saliano. Parve allora ai Galli che gli oratori di Roma raffigurassero le persone dei tre audacissimi Fabii, benchè defunti, di cui parlammo qui sopra: così le opere ingiuste e malvagie gridano vendetta ancor dalla tomba.

Ma finalmente, per cacciare un gran timore, alcune volte assai giova una gran vergogna. L'obbrobrio delle continue perdite di coloro ch'eran usi a vincer sempre, ed il sangue dei consoli e dei legati non ancor vendicato talmente riscaldarono le menti dei Senatori e dei Quiriti, e principalmente l'animo di Cornelio Dolabella console del seguente anno, che si venne nella ferma deliberazione di riacquistare a qualunque prezzo la pristina riputazione: raccolte adunque tutte le forze, entrò Dolabella nella provincia de' Senoni, come la più vicina, con fermo voto di vincere o di morire, voto che fe' cangiar l'aspetto alle sorti della repubblica : appresero allora i Romani quanto sia maggior vantaggio il

provocare che l'essere provocati, e il combattere con animo non trepidante; perocchè siccome per l'addietro lasciandosi prevenire per l'appreensione dal gallico valore, già prima di combattere parean vinti, così da questo giorno, avendo il console con mirabile audacia assaliti i Senoni improvvidi, trascurati, e senza ajuti de' collegati, molti ne uccise o fece prigionieri, e tanti vittoriosamente ne perseguì, che quanti erano Senoni nel Piceno, tutti col loro Re li snidò da quel paese, riserbandone la memoria sola del nome per eterno trofeo; perocchè nella stessa città di Seno, o Senogallia, or Sinigaglia, dai Senoni fondata, stabilì la prima colonia contro i Galli, a tal che dov'ebbe principio il regno dei Senoni in Italia, quivi ebbe il fine.

Tanto magnifico fu il trionfo di Dolabella, che gli storici romani ne parlano come se i Senoni non solamente fossero stati scacciati dal Piceno, ma cancellati dal mondo: vero è non pertanto, che troppi di essi ne sopravvissero a danni altrui; giacchè i soli avanzi di quella sconfitta furono cinquanta mila fanti, e quindici mila cavalli, che potean riversare la romana vittoria; ma niuna cosa è più funesta agli eserciti, che la fuga degli animosi, quando lo spavento entra tra di essi. Questi furono appunto i fuggitivi che poi sotto la scorta di Brenno il giovine, portando seco la speranza di ritornar nel Piceno più gloriosi e più ricchi, girando da prima attorno al seno dell'Adriatico, occuparono quindi la Macedonia e la Grecia, e cinque soli anni dopo essere scacciati dalla loro sede, non contenti delle spoglie degli uomini, vollero impadronirsi di quelle dei loro iddii, saccheggiando il fatidico tempio di Delfo, dov'erano molte statue d'oro, ed altre considerabilissime ricchezze; ma non tardarono molto ad esserne puniti; perocchè da un poderoso esercito furono tutti trucidati, così che nè pur uno potè andar salvo dall'orribile macello: gli storici greci e latini per inspirar terrore ai violatori dei templi, narrarono, che mentre i Galli saccheggiavano il tempio di Delfo, ivi comparvero Apolline, Diana e Minerva, e colle saette uccisero tutti i Galli che vi erano entrati; che Brenno trafitto anch'egli non potendo soffrire il dolore si uccise col suo pugnale, e che tutti gli altri, rimasti fuori di qual sacro luogo, furono intieramente

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distrutti da una subita prodigiosa meteora, ita evenit, dice Giustino lib. 24, ut nemo ex tanto exercitu, qui paullo ante fiducia virium etiam adversus Deos contendebat, ad memoriam tantae cladis superesset; e da ciò nacque il proverbio Delphica strages.

Caro ai Romani costò l'avere a principio irritata la ferocia dei Galli a Chiusi, ma da questo fallo ritrasser eglino finalmente due grandissimi vantaggi, l'uno, che guerreggiando contro a que' loro nemici appresero l'arte vera del pugnare; perocchè i combattimenti contro i Sanniti ed i Falisci parevano anzi avvisaglie che zuffe; l'altro, che dopo la vittoria contro ai Senoni, crescendo ai Quiriti l'animo ed il coraggio contro tutti gli altri popoli, stabilirono colle provincie cisalpine la pace, per non averle contrarie agli smisurati loro disegni: mitigatis parumper animis, foedus cum Romanis Galli percutiunt, Polib. lib. 2. Per questa riconciliazione, nel seguente anno i Romani sotto la condotta del povero, ma valoroso Fabrizio, rianimati dai trofei di Dolabella, vinsero i Sanniti, che per l'addietro s'eran mostrati invincibili, ed entrando nella Campagna felice fondarono in Capua una loro colonia; ed indi, dopo avere oppresso i Trentini sull'Adriatico, e posto in fuga il re Pirro venuto in loro sussidio, passarono nella Calabria, e di là nella Sicilia, cacciandovi i Cartaginesi, e perseguendoli fin dentro l'Africa ; invasero poi anche l'Egitto e la Libia, donde varcarono nella Spagna e nella Corsica; sicchè il fine di un loro trionfo era principio dell'altro; e il tempio di Giove Olimpico trovavași angusto a tanti trofei: epperciò quella repubblica, la quale nel corso di quattrocento e settant'anni dopo la fondazione di Roma, era stata circoscritta dentro un angolo angusto del Lazio, dopo la pace coi Galli, potè in dieci lustri allargare, oltre alle proprie speranze, il romano im> pero così per terra come per mare.

Con sì prosperi eventi già Roma agognava alla monarchia dell'Europa; ed avrebbe sin d'allora ottenuto l'ambizioso suo scopo, senza il fallo di due senatori che irritarono di bel nuovo le Gallo-Liguri genti; chè gli errori de' saggi sogliono partorire funesti effetti. Aveva Cajo Flaminio nella sua pretura proposta una legge, per cui tutte le terre del

Piceno tolte ai Senoni da Dolabella, fossero partite fra i romani soldati; legge, per la quale i popolari sommamente. si rallegrarono, ma che dispiacque al senato da cui ne furono prevedute le funeste conseguenze: onde lo stesso padre di Flaminio molto si adoperò nel pubblico foro col suo figliuolo per impedirne la pubblicazione, e vedendo che non poteva muoverne l'anima con le preghiere, venne alle minaccie, e trovò modo di raccogliere un esercito per resistergli con la forza; ma infine, Flaminio cedette all'autorità paterna, e benchè il popolo ne strepitasse, fa legge non fu promulgata. Ciò narra Valerio Massimo. L'esempio del figliale ossequio di Flaminio fu altamente commendato da Cicerone lib. 2 de inventione. Ma pochi anni dappoi, cioè nel 231 prima della nascita del Redentore, Lucio Emilio, come uomo popolare ed ostinato, vedendosi favoreggiato dalla plebe, sebbene si opponessero vivamente i senatori, al suon delle trombe pubblicò quella legge. I Galli ed anche i Taurini fieramente si sdegnarono di questa novella ingiuria, considerando che i Romani ora mai non più disputavano per la gloria, nè per l'impero, ma per l'avidità d'impadronirsi dei loro poderi, e di renderli schiavi: deliberarono adunque unitamente di venire allo sforzo estremo, mentre le aquile romane altrove si pascolavano. Presto si videro congiunte le schiere dei Galli con quelle de' Boi più vicini al Piceno, e quelle degl'Insubri e dei Taurini. Ma perchè contro alle smisurate forze dei Romani e dei loro confederati bisognarono forze maggiori, nè potevano i Galli, gli Insubri ed i Taurini ad un tempo combattere in campo, e guardare le proprie case, fu giudicato necessario di ricercare esterni ajuti da transalpini, e non affidandosi ad armi ausiliari e sociali, più facili ad ottenere che a licenziare, voli unanimi si decise di chiamar grandi forze a piedi e a cavallo, che fossero mercenarie ed assoldate, per poterle rimandare ad arbitrio. Chiamarono adunque i Gessati, che abitavano la Provenza ed il Delfinato, e militavano sotto la scorta dei due loro Re, Aneoresto e Congolitano; fierissimi venturieri, che a chiunque li richiedeva locavano per danari il proprio coraggio, ed anche il sangue dei loro popoli, e furono perciò detti Gessati, non solo perchè adoperassero

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