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A persuasione di Ermengarda il re Ugo, fratello di lei, confermò la donazione che il marchese Adelberto avea fatto ai monaci Novalesani che s'erano rifuggiti a Torino; cioè loro confermò una torre posta in questa città, è le corti di Breme e di Policino. Il nuovo monastero di Breme possedette due chiese sotto il titolo di s. Andrea in Torino. La prima già spettante ai monaci della Novalesa era quella, presso la quale si erano ridotti quei religiosi, quando per l'incursione dei barbari dovettero abbandonare il Novaliciese monastero; l'altra fu loro donata posteriormente dal predetto marchese Adelberto, che quindi fece edificare per essi lo stupendo Bremetese cenobio. Rimasero alcuni monaci nelle celle, o piccoli monasteri attigui all'una e all'altra chiesa, allorchè la più parte de' loro correligiosi andò a stabilirsi in Breme; ma Belegrimo loro abate volle che il primo torinese cenobio a sè soggetto, fosse da' suoi religiosi abbandonato come luogo di molta distrazione per la sua vicinanza al castello, e li ridusse tutti presso la seconda chiesa, che della cronaca novalicense è descritta come posta lungo le mura della città, al dissotto della porta comitale. È dessa appunto quella che vien nominata nelle bolle pontificie e nei diplomi imperiali, con cui se ne conferma il possesso al monastero di Breme, il quale di fatto la ritenne con titolo di priorato sin verso il 1400. Molto elegante per quei tempi fu al certo la forma a cui la fece ridurre l'imme diato successore di Belegrimo nell'abazia di Breme, cioè Gezone, così parlandone il cronista della Novalesa, secondo la traduzione del Terraneo: « Quantunque fosse per l'addietro forse la inferiore chiesa, pure coll'ajuto del cielo si è questa rinnovata in maniera a superare ogni altra in bellezza ed in maestria. Il che sebbene può sembrar detto in grazia dei nostri monaci, pure il continuo riguardar a quello, che gli uomini fanno, ben c'indica, che non andiamo punto ingannati, ed agevolmente potrà qualunque nobile persona chiarirsi di questa verità, se farà attenzione, quanto ciascuna cosa sia proporzionata al nostro discorso; imperciocchè se dall'un canto e dall'altro attorniata dalle case de' nobili, e situata in capo alla città di Torino, riesce di grato e di vago spettacolo agli occhi de' riguardanti ». Quanto più grandiosa,

dice il ch, abate Malaspina, è la mostra che fa di se quella chiesa al giorno d'oggi, essendo essa la celebre chiesa della Consolata, nella quale a memoria dell'antico titolare evvi ancora la cappella di s. Andrea!

XVII.

Il re Ugo per le sue grandi iniquità si rende odioso a tutti i principi
e baroni d'Italia. Più non potendo mantenersi in sul trono, gli
succede il giovine Lotario suo figliuolo: questi viene a Torino:
qui stabilisce o ristaura lo studio generale: qui muore non senza
sospetto di veleno.

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Il marchese Adelberto mancò ai vivi sul principio del 933 lasciando due figliuoli, Berengario II ed Anscario II. Il primo già sin dal 918 era conte di Milano e messo imperiale a nome di Berengario suo zio; e dopo la morte del padre venne a stabilirsi in Ivrea, siccome luogo della marchionale sua sede: Anscario II dominava in Asti, possedeva il castello di None ed altri luoghi questi due fratelli portavano entrambi il titolo di marchese; possedevano varii contadi, ed uno di loro teneva anche il contado di Torino. Ora il re Ugo teneva presso di sè l'anzidetto marchese Anscario II; ma vedendo che questi per l'arditezza e la vivacità del suo spirito era molto accetto ai cortigiani, lo allontanò da sè creandolo marchese di Spoleto e di Camerino. I tirannici sospetti del re Ugo, che di giorno in giorno ivan più sempre crescendo, caddero infine sui due fratelli Berengario ed Anscario soprannominati. Contro quest'ultimo, che già governava la marca di Spoleto, mandò, nel 940, il conte del suo palazzo, Sarleone, con buon nerbo di soldati e con danari per assoldarne altri. Avvedutosi Anscario delle mire di Sarleone, andò diritto ad assalirlo co' suoi, e sbaragliò sulle prime quanta gente gli venne incontro; ma circondato poi da un numero di nemici assai maggiore, si difese con valore straordinario, fintantochè, cadutogli sotto il cavallo, e precipitato in una profonda fossa, fu ivi da molte saette e da lancie trafitto a morte.

Il di lui fratello Berengario II venne confidentemente alla corte del re Ugo, il quale lo accolse con alta simulazione

d'affetto; ma risolvette nell'animo suo di fargli cavare gli occhi; e poichè non si trattenne dal palesare così feroce risoluzione in un congresso, cui trovavasi presente il suo figliuolo Lotario, come associato al regno, questo giovine principe, forse avendo a mente la generosa azione di Gionata che salvò Davide, rendette così per tempo avvertito Berengario della perfida intenzione di suo padre a danno di esso, ch'ei potè scamparne rifugiandosi tosto presso il duca di Svevia Ermanno, il quale volle presentarlo al re di Germania Ottone I, che tenne quest'esule assai ben veduto in corte, e vi accolse pure la moglie di lui, che per via diversa da quella presa dal marito vi si era condotta con molto disagio, trovandosi incinta di otto mesi: costei era Villa, o Guilla, figlia di Bosone duca di Toscana, donna di pessima indole, come si vedrà in appresso. Il re Ugo, dacchè seppe che Berengario viveva ben veduto alla corte di Ottone I, non cessò mai di sollecitare Ottone a dargli nelle mani quel fuggitivo vassallo, offerendogli, per ottenere il suo intento, grossissime somme d'oro e d'argento. Ma vane erano le ambasciate e le offerte di Ugo. Ottone rispondeva che di quei doni non avea bisogno, e che non poteva ricusar rifugio ad un principe sfortunato. Nello stesso tempo gli Italiani facevano istanze a quell'Imperatore affinchè mandasse Berengario in Italia con buoni ajuti per liberarli dalla tirannide de' Borgognoni. Ottone, da varii interessi combattuto e distratto, non aderiva nè all'una, nè all'altra richiesta. Ugo intanto rimase alcuni anni possessore del regno senza gravi disturbi, risiedendo principalmente nella Lombardia superiore, ed in quel tratto della Liguria, che già facea parte del Piemonte e del Monferrato. Talvolta, simulando divozione, facea soggiorno nel monastero di Bobbio, ove emanò varii diplomi, tra i quali se ne rammenta uno in favore di un conte ed abate Liutfredo, a cui confermò il possesso del contado bobbiese. Tali concessioni non venivano fatte gratuitamente da quel sordido Re, il quale, colla sua avarizia, co' suoi atti tirannici, col mostrarsi rotto ad ogni lussuria, e massimamente colla sua ipocrisia, si rendette tanto odioso ai grandi del regno, ai vescovi, ai conti, ai marchesi, che tutti questi mandarono cautamente ad invitare Berengario a tornarsene in Italia, offerendosi disposti ad eleggerlo Re.

› Per compagno della sua fuga e del suo esiglio avea Berengario un nobilissimo cavaliere per nome Amedeo, il quale eragli affezionatissimo. Costui conoscendo molto bene qual fosse l'animo dei principi d'Italia verso il re Ugo, e vedendo d'altra parte l'irresoluzione e gli andamenti ambigui d'Ottone, persuase a Berengario a tentare anche senza le armi germaniche di levar lo stato al re Ugo. Liutprando narra, che questo Amedeo parlasse nel modo seguente a Berengario: « Tu sai quanto il re Ugo siasi renduto odioso coll'aspro suo governo a tutti gli Italiani, massimamente dacchè egli diede le cariche e gli onori ai figliuoli delle sue concubine ed a' suoi Borgognoni. Niun Italiano si trova di qualche conto, che non sia stato o bandito da lui, o del tutto spogliato di dignità. Se essi nulla macchinano apertamente contro un tal Re, la cagione è questa sola, ch'ei non hanno persona da far capo. Però se alcuno di noi, cambiato abito per non essere riconosciuto, colà andasse a spiare la volontà delle persone, senza fallo ci metterebbero buon partito alle mani ». Nessuno, rispose Berengario, più facilmente e meglio di te potrebbe far questo. Senza frapporre indugi l'accorto e audace Amedeo, vestitosi a guisa di povero Romeo, si partì cogli altri, che per divozione si recavano a Roma; e fingendo d'andar. per simile motivo a visitare il sepolcro dei santi apostoli, potè scorrere l'Italia, procurarsi l'accesso appo gl'italiani Principi, ed informarsi destramente delle segrete disposizioni di ciascheduno. L'avviso di questo falso Romeo pervenne alle orecchie del sospettoso re Ugo, il quale diede incontanente l'ordine che fosse con diligenza cercato e fermato. Ma Amedeo, che ogni giorno mutava abito e figura, facendosi ora zoppo e sfiancato, ora tingendosi di nero o di bianco la bellissima e lunga barba ed i biondi capegli, ora impasticciandosi il viso per comparire vajato ed ulceroso, deluse non solamente le spie del Re, ma il Re stesso, a cui si presentò in occasione che, per un costume tuttavia usato da' Principi ai di nostri, dava a mangiare e forniva di nuovo vestimento un certo numero di pellegrini o di poveri; fatto è, che a malgrado d'ogni sollecitudine di Ugo per aver nelle -mani il finto Romeo, potè questi così deluderlo, che sano e salvo ritornossene in Alemagna da Berengario.

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Correva l'anno 945, quando Berengario, che già raccolto, avea buon numero di valorosi, giudicò di calare per le alpi di Trento in Italia: presto ebbe in suo potere Verona, del cui governatore e conte, per nome Milone, erasi guadagnato. l'animo; s'impadronì dappoi di varie castella, corrompendone i comandanti con larghe promesse; e già così prospera gli si mostrava la sorte, che, spaventatosene Ugo, mosse con numerose truppe ad incontrarlo; ma gli fallì l'intento; perocchè si arrestò alla rocca di Vignola già dal suo nemico occupata per espugnarla: intanto corse Berengario velocemente a Milano, ove l'arcivescovo ed i principali signori lo accolsero con gioja e gareggiarono di zelo per dichiararlo, loro Re. Ugo allora, per ritardare la sua caduta, o renderla, meno ruinosa, mandò il giovane Lotario suo figlio a pregar, quei signori perchè volessero almeno conservare a questo innocente Principe la corona, mentr'egli si sarebbe a loro piacere ritirato in Provenza. L'età, l'umile e supplichevole contegno del giovane re Lotario mosse a pietà i Principi che si erano congregati per deporre, come di fatto deposero Ugo di lui padre: Berengario stesso cedette a qualche sentimento di tenerezza e di gratitudine verso di chi gli aveva, alcuni. anni avanti, salvata la vita. Fu conservata a Lotario la regal dignità; il re Ugo, deludendo ogni vigilanza di Berengario, trovò modo di andarsene salvo co' suoi tesori in Provenza sul finire del 946; ed ivi cessò di vivere l'anno dopo. Berengario intanto, quantunque abbia fatto sembiante di accondiscendere all'elezione di Lotario, si diede a regolare ogni cosa a nome dell'eletto, facendo però in modo, che questi stesse discosto da Milano e da Pavia, e designandogli Torino per luogo della sua sede.

Da Pavia adunque venne Lotario da prima in Novara, ove ancora si rammentano alcuni suoi benefatti, e di là si condusse in Piemonte, visitonne tutte le terre, e nell'ottobre del 950 entrò in Torino coll'animo angosciato per aver veduto come ogni cosa procedeva infelicemente in questa provincia: ed invero più non eravi alcun luogo in Italia, e massime nelle terre subalpine, ove non si dovesse gemere pei grandi infortunii di quell'età sciagurata, che dagli storici notasi cogli epiteti di ferrea o di plumbea; e veramente il se

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