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d'Asti un generoso atto, in virtù del quale diede al monastero de' ss. martiri torinesi Solutore, Avventore ed Ottavio una braida o prateria incolta suburbana, e la facoltà di accettare ed alienare qualsivoglia donazione ad esso fatta nei contadi di Torino, Ivrea, Vercelli, Pavia, Parma, Piacenza, Acqui, Albenga, Ventimiglia, Alba ed Asti: per l'atto medesimo, che fu stipulato nel suo palazzo di Torino, egli confermò a quel monistero i beni ch'esso già possedeva in val di Susa, nel col di s. Gioanni, in Giaveno, Sangano, Carignano, Tegerone, Borgaro, Settimo, Pianezza, e nella campagna di Torino. Gli stessi munifici donatori aumentavano ancora (1035) la dote del monastero di s. Giusto di Susa, assegnandogli il villaggio di Mocchie con cinquecento jugeri di terreno all'intorno, e il castello di Priola coll'aggiunta di jugeri mille, e gli assegnavano inoltre varii possedimenti nei territorii di Genola e di Carassone, concedendogli ad un tempo l'uso delle selve e dei pascoli insino al mare. L'atto di queste nuove concessioni si stipulò in Torino, nel castello sovra la porta di Susa. Il contado d'Asti, che spettava alla marca di Torino, provò eziandio gli effetti della generosità di quei Principi, che vollero provvedere ai bisogni dell'astese monistero dei ss. Apostoli, facendogli dono della terra di Ceresole del Bosco.

La marchesa Berta nel 1034 alienò di per se al prete Sigefrido molti beni ch'ella possedeva qua e là nelle precitate contee, pel valore di cento mila lire d'argento, ed impose all'acquisitore l'obbligo di eseguire pie fondazioni: questi adempi esattamente le religiose intenzioni della marchesa Berta, ed eresse addì 23 dicembre dello stesso anno 1034 una congregazione di sei sacerdoti sotto il titolo della SS. Trinità nella chiesa di s. Gio. Battista, annessa alla chiesa cattedrale di s. Salvatore. Quasi nel medesimo tempo in cui il prete Sigefrido erigeva quella collegiata o canonica, di cui già parlammo appositamente altrove, il marchese di Torino Manfredo II univa le sue soldatesche a quelle degli altri principi d'Italia, e massimamente alle truppe del guerriero Eriberto arcivescovo di Milano, le quali andavano a rafforzare l'esercito tedesco nella seconda spedizione di Corrado imperatore e re d'Italia, contro quella parte della Borgogna che gli era som

mamente avversa. Lo storico milanese Arnolfo confuse in una sola le due spedizioni di Corrado, e tacque ciò che fu narrato da Uvipone, cappellano di esso Imperatore, e testi❤ monio oculare dei fatti: questi narra che l'italiano esercito. passò in quest'anno per gli stati del conte Umberto in allora signore di gran parte della Borgogna, é superò lo stretto della rocca inespugnabile di Bardo; e dice che Teutones ex una parte, ex altera archiepiscopus mediolanensis, et caeteri italici sub ductu Huperti (Umberto I) comitis de Burgundia usque ad Rhodanum fluvium convenerunt. Dal che si vede che nè lo storico Arnolfo, nè il Muratori, nè il Giulini poser mente che l'onore del comando di quella italiana impresa veniva commesso al principe Umberto 1, stipite dei principi di Savoja.

Di ritorno da quella spedizione l'arcivescovo Eriberto venne a Torino. Il suo ingresso in questa capitale fu oltremodo strepitoso; giacchè egli era circondato da una moltitudine di chierici, ed insieme da una numerosa squadra di valorosi soldati. Con tale apparato, proprio del gusto di quei tempi, fu accolto in Torino dal vescovo, dal clero e dai magistrati: egli soffermossi per alquanto tempo in questa capitale alla corte dell'egregio nostro Manfredo, e gli venne il pensiero di continuare l'interrotta visita pastorale nelle diocesi del Piemonte, che tutte a quell'età gli erano suffraganee: esortava gli ecclesiastici ed i laici a tener fedelmente la integrità della fede e l'osservanza della divina legge. Seppe dal nostro marchese e da Alrico vescovo d'Asti, che il castello di Monforte, il quale apparteneva all'astese diocesi, era divenuto un sozzo ricettacolo di manichei, favoreggiati dalla contessa che signoreggiava lo stesso ampio e ben fortificato castello. Quest'iniqua setta, che fra gli altri molti errori, ammetteva due iddii, l'un buono e l'altro malvagio, nata nel secolo II in Oriente, nel decimo aveva penetrato in Italia dalla Bulgaria; onde quelli che appartenevano a tal setta, furono qui per disprezzo chiamati Bulgarones o Bugarones. Molti dei nobili lombardi, caduti nel manicheismo, essendo stati scacciati da Milano e da altri paesi dell'Insubria, erano venuti a fortificarsi nel castello di Monforte ; laonde l'arcivescovo di Milano Eriberto, cominciò allora dall'intimare a quei settarii che deputassero alcuni a venire

dinanzi a lui per rendergli conto della loro credenza: il più coraggioso ed astuto di quegli empi, ch'era un certo Girardo, non dubitò di presentarsi all'arcivescovo, e preso da lui alle strette, dichiarò, ch'egli e tutti i suoi compagni niegavano le tre divine persone e gli altri misteri che ne dipendono; che niegavano pure esser divina la Bibbia, esser santo il matrimonio cristiano; e confessò finalmente che egli e tutti gli altri della sua setta veneravano un capo diverso dal papa, e bramavano una morte tormentosa, perchè meritoria. Allora l'arcivescovo venne nella risoluzione di porre un termine a tanto disordine colla forza delle armi : raccolse adunque le sue truppe, a cui si unirono le soldatesche torinesi e le genti armate dell'astese vescovo Alrico, e con esse andò a stringere d'assedio quei sciagurati, che dopo una gagliarda resistenza caddero tutti prigionieri, e furono mandati a Milano, ove alcuni si arresero alle istruzioni del prelato; ma i più insistendo nella loro empietà, irritarono così la plebe, ch'ella in onta delle opposizioni energicamente fatte dallo stesso arcivescovo, appiccò il fuoco al carcere in cui erano rinchiusi quegli eretici, che tutti vi rimasero spenti.

Di questo arcivescovo gioverà ai nostri lettori di aver qualche notizia; tanto più ch'egli come metropolitano ebbe una superior giurisdizione spirituale sulla diocesi di Torino, e su tutte le altre diocesi del Piemonte. L'arcivescovo Eriberto fu principe di molti talenti e di grande coraggio; imitando altri prelati che avean dominio temporale, studiò l'arte militare, e diè prove di non aver fatto indarno siffatti studi. Essendo egli il primo tra i principi di Lombardia, sentiva altamente di se, e non volendo rimaner soggetto ad alcuno dei grandi d'Italia, fece quanto potè, affinchè all'imperatore Enrico succedesse Corrado soprannominato il Salico, che da lui fu coronato in Milano. In occasione della sua incoronazione raunò Corrado una dieta in Roncaglia, pianura situata sulla sponda del Po, e contigua a Piacenza. Perchè cessassero le tante contese tra i grandi nobili ed i minori vassalli, i quali si chiamavano secondi militi, Corrado pubblicò nella dieta di Roncaglia, a cui intervenne anche il marchese di Torino, la famosa costituzione intorno ai feudi; colla quale

stabilì che i minori vassalli non potessero senza causa conosciuta dal Re, o dai regii commissarii, essere dai signori che loro soprastavano, spogliati de' feudi, e che questi dovésser passare dai padri ai figliuoli, ed ai nipoti, e in difetto di essi ai fratelli. Ma nè questa legge, nè la partenza di Corrado diedero la pace all'Italia, esposta più che mai alle violenze dei grandi signori, ed alle discordie civili tra le città e le famiglie. In una delle popolari sommosse, accaduta l'anno 1036 in Milano, alcuni patrizii offesi dalla dispotica dominazione dell'arcivescovo, osaron combattere contro le truppe di lui, e costretti ad uscire della città, raunarono tutti i loro aderenti ed amici, i quali si trovarono in tanto numero da potersi azzuffare coll'esercito di Eriberto, e metterlo in fuga. Questi allora convocò i vescovi di Torino, d'Asti, e gli altri suoi suffraganei, i quali raccolsero le loro truppe, e si disposero di bel nuovo a pugnare contro quelli fra i Milanesi, che si erano sollevati contro il proprio signore. Il nostro Alrico, vescovo d'Asti, che si trovava insieme cogli altri prelati, vedendo imminente una fiera pugna, volle recarsi egli stesso, come paciere, al campo dei rivoltosi, per indurli a venire ad una conciliazione; ma una freccia tosto contro di lui scoccata, lo tolse di vita. Fu sbaragliato l'esercito di Eriberto, il quale giudicò di dover chiamare in suo ajuto l'imperatore Corrado, che perciò venne in Italia sul finire dello stesso anno. Ma non guari andò, che l'altiero arcivescovo di Milano, disgustatosi del tedesco imperatore, ordì una trama insieme coi vescovi di Vercelli, Cremona e Piacenza per chiamare in Italia il conte di Sciampagna Oddone, e scacciarne Corrado. Due anni prima aveva cessato di vivere in Torino il nostro marchese Manfredo II; ma la magnanima fedeltà di nostra saggia principessa Berta, vedova dell'anzidetto Manfredo, sventò quella congiura (1037): ella fece arrestare in Piemonte i messi dei cospiratori, e Corrado fece trasportare quei tre vescovi oltremonti, mentre il conte Audone fu ucciso in una battaglia datagli dal duca di Lorena. L'illustre Berta, in compenso dei segnalati servigi con cui si rese benemerita verso l'imperatore Corrado in così difficile emergenza, stette paga a chiedergli un diploma, che fu da lui emanato in Parma

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nello stesso anno 1057; in virtù del quale furono confermate le larghe donazioni da essa fatte al monistero di s. Giusto, in onor del quale ordinò ella tosto la fabbricazione di un altro tempio e d'un altro cenobio in Oulx ; edificii sacri, che da lei, che morì tre anni dopo, non si poterono mandare a compimento.

Quanto l'imperatore Corrado si mostrò crudele verso le città, i villaggi, ed i principi, cui credette a sè poco favorevoli, altrettanto fu munifico verso i luoghi e verso le persone che si dichiararono del suo partito; ond'è che i Torinesi ed i loro Principi furono da lui guardati con parzial benevolenza. Ma le contese pel trono italiano diedero origine, 'secondo il Muratori, a due novità sino allora non vedute in Italia; novità che ad essa riuscirono dappoi sommamente fatali; cioè in primo luogo cagionaron le guerre tra le une e le altre città, essendo alcune di esse favorevoli ad un Re italiano, e le altre ad un principe straniero; ed inoltre produssero la facilità con cui gli Italiani cominciarono a prendere da se stessi le armi quando e per qualunque motivo loro piacesse. Ed ecco l'origine delle guerre civili tra loro medesimi e delle frequenti sollevazioni contro i monarchi, che di frequente s'incontrano nelle storie di questi tempi. L'imperatore Corrado partendo dall'Italia per andarsene in Germania, ove cessò di vivere nel 1039, aveva ordinato ai principi, ai vescovi, ai marchesi, ai conti, e principalmente a quelli di Torino, che avean numerose ed agguerrite soldatesche, di fare con ogni loro possa la guerra contro l'arcivescovo di Milano, al quale come già si accennò divenuto nimicissimo; e diffatto nella primavera dello stesso anno 1039 si raunavano armi ed armati in varie contrade italiane per eseguire gli ordini dell'Imperatore. L'arcivescovo Eriberto, a cui era riuscito di uscir libero dal carcere di Pavia, ove per ordine di Corrado era stato rinchiuso, mirava intrepido dalla sua sede il novello nembo che gli ruggiva dintorno; e intanto con grande sollecitudine raccolse sotto le sue bandiere tutti i vassalli del territorio insubre; e per dare ad essi un palladio di un genere particolare, che fosse in qualche modo somigliante all'arca delle tribù d'Israele, egli inventò il Carroccio; e siccome vari co

era

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