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papa Gregorio VII, si condussero a Roma nel mese di novembre dell'anno 1078, ed alla presenza di quel Sommo Pontefice esposero l'uno le offese ricevute, e l'altro la violazione de' suoi pretesi diritti. Il santo Padre non potendo decidere la questione per mancanza delle necessarie informazioni, slette per allora contento a raccomandare caldamente al vescovo ed all'abate di rappattumarsi con ispirito di vera carità; e quindi si fe' promettere da entrambi che si sarebbero acquetati al giudizio che intorno alla loro questione avrebbero pronunziato di comune accordo i due vescovi d'Acqui e d'Asti, e l'abate di Fruttuaria. Il romano Pontefice sommamente satisfatto della promessa fattagli dalle due parti, volle divulgarne la tanto desiderata conciliazione con un suo scritto che tuttor si conserva, ed ha la data del 24 novembre 1078. Il vescovo e l'abate sen ritornarono in apparenza rappattumati, l'uno alla sua sede di Torino, e F'altro al suo monastero della Chiusa. S'ignora quale sia stato il giudizio cui pronunziarono i tre delegati pontificii in questa vertenza; ed ignorasi pure se il vescovo siasi poi tranquillamente sottomesso a quel giudizio. Se prestassimo fede al monaco che scrisse la vita di s. Benedetto 11, c'indurremmo a credere che Cuniberto, sebbene condannato a risarcire tutti i danni arrecati alla predetta abadia, avrebbe con somma pertinacia ricusato di risarcirli, ed avrebbe anzi continuato a perseguitare quei monaci, e che perciò sia stato colpito della scomunica dalla Santa Sede; ma sembra che siffatte asserzioni sieno lontane dal vero. Diffatto dal necrologio dei monaci di s. Solutore ricavasi che il vescovo Cuniberto morì nella sua sede di Torino, e fuvvi onorato dell'ecclesiastica sepoltura, sul principio dell'anno 1080; d'altronde il papa Gregorio VII non lo rimprovò mai d'avere incorso ecclesiastiche censure, e nè anco lo minacciò di tali pene. Lo stesso monaco scrittore della vita di s. Benedetto II, parlando di Wilelmo che sul finire del 1080 succedette a Cuniberto nella sede vescovile di Torino, colle sue solite esagerazioni dice che questo vescovo fu uomo di turpissimi costumi, e fu intruso in questa vescovil sedia col mezzo del danaro a lui dato dall'iniquo re Arrigo, e che fu persecutore dei monaci, e dissipatore dei beni ecclesia

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stici; ma ben si può affermare che queste sono calunnie; perocchè il vescovo Willelmo, immediato successore di Cuniberto, favorì grandemente e beneficò gli ordini monastici di sua diocesi, e specialmente l'abazia di Cavorre, a cui nel dì 15 di marzo del 1089, assegnò la chiesa di s. Paolo di Virle, con la decima parte delle decime, previo il consenso de' canonici della sua cattedrale.

Le surriferite contese tra i monaci della Chiusa ed il vescovo di Torino, e soprattutto le furenti discordie, che cominciavano agitare l'impero ed il sacerdozio, non potevano a meno di affligger l'animo della pietosa marchesana Adelaide, la quale non cessava dal fare atti munifici a pro della chiesa, confidando così di placare il cielo, che mostravasi sdegnato per tanti disordini e per tanti scandali ond'era travagliata la cristianità. Tre lustri prima ch'ella conferisse i beni della sua villa di Saluzzo all'abazia di Pinerolo, aveva, col pieno consenso di Oddone, data la primogenita Berta in isposa ad Arrigo, figliuolo dell'imperatore Arrigo III detto il Nero. La gioja dei Torinesi per queste reali nozze fu vivissima; perchè essi ne sperarono le più vantaggiose conseguenze. Questo maritaggio erasi celebrato solennissimamente nella città di Triburia con giubilo universale di tutto il regno Germanico: ma poco duravano le allegrezze della regia sposa e di Adelaide sua genitrice, e de' suoi congiunti; perocchè Arrigo IV, succeduto al padre in tenera età, avea ricevuto una pessima educazione dai vassalli, i quali volevano poscia influire a proprio vantaggio sull'animo di lui. Si affezionò questo Principe alle cose guerresche; ma si mostrò prestamente dissoluto e prodigo al segno da conferire anche i beni della chiesa ai compagni delle sue sregolatezze ; e ciò che è peggio, concepì un odio implacabile contro a Berta sua sposa, quantunque ella fosse fornita di beltà singolare, e di tutte le più esimie doti dell'animo: egli manifestò a' suoi cortigiani, e massime ai compagni delle sue dissolutezze il disegno di ripudiarla; e siccome nelle corti sogliono regnare uomini perversi, i quali per insinuarsi nella grazia dei Principi si fanno lecito di fomentare le illecite loro propensioni, cosi l'arcivescovo di Magonza, dichiaratosi fautore della regia libidine, si offerì al giovane Arrigo IV

di sostenere nell'assemblea dei Principi le ragioni per cui egli avrebbe potuto sciogliere il suo matrimonio. Ciascuno può immaginarsi quanto la nostra Adelaide, madre di quella Regina, fosse dolente della reproba condotta del libidinoso suo genero, e delle afflizioni a cui trovavasi in preda l'augusta sua figliuola. In così grande desolazione, ella ricorse alla s. Sede per ottenere che Arrigo IV non mandasse ad effetto l'iniquo suo divisamento. Il Sommo Pontefice, senza frapporre indugi, mandò in qualità di legato apostolico ad Arrigo IV il cardinale s. Pier Damiano, il quale, come già dicemmo, nutriva la più grande stima per la nostra Adelaide, madre della Regina. È certamente difficilissima impresa il frenare le ree propensioni di un giovine Monarca, massimamente s'egli ha posta ogni ragione nella sua libera volontà, e se la sua volontà è soggiogata dalla libidine. I re Arrigo, stimolato dalla propria passione, e sospinto da' suoi malvagi cortigiani, e principalmente dall'intruso vescovo di Magonza, si condusse a Colonia, e di là trasferitosi a Vormazia, manifestò apertamente ai Principi del regno ivi raccolti, non convenirsi punto il suo umore con quello della Regina; aver egli per lungo tempo nascosto un'antipatia insoffribile contro di essa; sentire in se medesimo una ripugnanza invincibile a trattare con essa; pregare perciò i Principi che sciorre il volessero dai malaugurati lacci, e sofferir volentieri che si facesse un divorzio, il quale desse campo all'uno ed all'altra di legarsi con più felici auspizii ad altro imeneo; che per quello che potrebbesi opporre alla Regina, volendo passare ad altre nozze, cioè l'aver ella perduto il suo verginal fiore nel maritaggio con lui contratto, affermare egli con giuramento di averla conservata vergine e intatta, come gli fu consegnata da Adelaide genitrice di lei.

1 Principi ivi raunati udite siffatte sconvenevoli parole di Arrigo, se ne mostrarono scandalezzati, e ciascuno di loro si credette in obbligo di dissuadere un divorzio tanto men lecito, quanto più bramato dal Re. L'arcivescovo di Magonza non potè a meno di vergognarsi vedendo come ardea vivo in petto a' laici quel zelo di religione, che poco dianzi egli medesimo avea soffocato nel proprio cuore; cominciò a pen

e

tirsi di non avere colla ragione frenato que' sentimenti che gli erano stati inspirati da una vile adulazione, e più ancora dall'avarizia. Ad ogni modo, avendo impegnato la sua parola, volle sostenere per quanto potè l'iniqua risoluzione di Arrigo. Si conchiuse tuttavia, che un affare di tanta importanza si avesse a decidere in un'assemblea più numerosa, di unanime consenso di Arrigo e dei Principi fu stabilito un nuovo congresso da tenersi in Magonza nella settimana dopo la festa di s. Michele. Spirato il termine prefisso, Arrigo mosse frettoloso a quella città; e per istrada gli venne l'avviso che ivi attendevasi a momenti il legato apostolico Pier Damiano, personaggio assai ben conosciuto anche in Germania, il quale vi si recava affine di proibire il divorzio progettato dal Re, e di minacciare delle dovute pene il predetto arcivescovo, che tanto sfacciatamente erasi offerto promovitore della nefanda separazione. Costernato Arrigo all'impensata novella, era già disposto a ritornarsene in Sassonia, dond'era partito; ma tanto seppero dirgli i suoi cortigiani, che, per rispetto di tanti Principi, i quali d'ordine suo dovevano ivi trovarsi a numeroso congresso, fermossi, richiedendo per altro che i Principi si raunassero in Francoforte; e diffatto congregatisi in questa città il Re ed i Principi nel giorno prescritto, Pier Damiano espose a quell'assemblea la sua legazione in questa sentenza: esser cosa odiosissima e molto indegna del nome cristiano, non che di un gran monarca, ciò che Arrigo presumeva di fare così di leggieri; che se niuna legge nè umana, nè ecclesiastica avea forze contro un Re armato, il quale non volesse a quelle sottomettersi, dover egli per altro questo riguardo alla propria fama di non dare un così turpe esempio al mondo cristiano; essere i Re da Dio stabiliti vendicatori delle iniquità, e difensori del giusto, e non autori di fellonie, nè esemplari di scelleratezze: che s'egli, spregiati gli ottimi consigli del santo Padre, non piegavasi alla ragione, tenesse per certo, che le armi della chiesa avrebbero impedito un'azione così nefanda; e finalmente che il Papa giammai non avrebbe posto la corona imperiale sul capo di un Principe nemico della fede cattolica. Udite queste gravi parole del pontificio legato, tutti i Principi pregarono il Re di voler cessare dal

suo malvagio proponimento, tanto più, che incocciandosi a volerlo mandare ad effetto, darebbe giustissima cagione ad Adelaide marchesana di Torino, madre della. Regina, possente custode delle alpi, e ai parenti di essa di ribellarsi, e fors'anche di trarre al partito di lei altri Principi, i quali certamente avrebbero preso colle armi quell'insigne vendetta, che alla grandezza dell'offesa si fosse adeguata. Arrigo, vinto allora da siffatte ragioni, o piuttosto dal timore de' minacciati castighi, assentì che la nostra prinpessa Berta, sua consorte, fosse richiamata al regio talamo; e per segno d'intiera e verace riconciliazione con lei e co'suoi parenti, fu liberale di molte proprietà nel contado d'Acqui ai monaci di Fruttuaria, persuadendosi di non poter meglio cattivarsi l'animo della nostra principessa Adelaide sua suocera, che beneficando quel monastero, ch'ella medesima avea ricevuto, per aderire al desiderio del Sommo Pontefice, sotto il suo specialissimo patrocinio.

Di questa riconciliazione tra Arrigo e la saggia sua moglie fu ben soddisfatto il papa Gregorio VII; ma questi avea ben altri motivi di dolersi di quel Re; motivi che poi ebbero tristissime conseguenze. Durante la minor età d'Arrigo, i suoi ministri e reggenti del regno avean cercato di profittare il più che per lor si potesse dell'autorità che era in loro mano, e specialmente della nomina de' benefizii, i quali per la pietà de' passati Principi erano e molti e doviziosi più che non sarebbe convenuto nè alla chiesa, nè alla repubblica. Non erano ancora a quei tempi andate affatto in disuso le elezioni; e benchè spesso fossero dall'arbitrio e dal volere de' Principi prevenute o impedite, pur qualche parte vi aveva il clero ed anche il popolo, e più di tutti il -romano Pontefice. Ma, comunque si facessero o le elezioni o le nomine de' grandi prebendati, era pur comune usanza che il Re presentasse all'eletto l'anello e il pastorale, e che con questa cerimonia, che investitura chiamavasi, s'intendesse conferito il possesso del temporale delle chiese o badie vacanti; ed in questa occasione dai nuovi provvisti si esigevano grossi regali, ch'erano considerevoli somme di danari. Fecero questo traffico i tutori e consiglieri di Arrigo IV, il quale, uscito di minor età, e preso il governo, volle segui

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