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tigiani ed i negozianti erano divisi in varii paralici, ciascuno dei quali aveva il proprio capitano, ed apparisce da alcuni pubblici atti, che i paratici per mezzo dei loro rappresentanti intervenivano alle pubbliche deliberazioni. Il celebre DuCange ingannossi nel credere che la voce paratici significasse nobili. Sotto tal nome erano indicate le società delle persone addette ad un particolar mestiere; vero è per altro che a queste società di artefici di buon grado aderivano i minori vassalli, detti secondi militi, perocchè più non potevano comportare l'arroganza e la prepotenza, con cui i maggiori vassalli procacciavano con ogni mezzo di tenerli avviliti ed oppressi. Subito uomini assennati e non ignari della giurisprudenza si applicarono a compilare un novello statuto; e non v'ha dubbio che gli statuti torinesi riguardanti il diritto civile dimostrano la saggezza di quei legislatori; ma non si può dire lo stesso per riguardo alle leggi penali; perocchè in Torino, come nelle altre città libere del Piemonte e della Lombardia, erano esse anzi barbare, che severe. Un oggetto che fu subito scopo alla sollecitudine dei pubblici magistrati fu l'ordinamento della forza militare. Chè il precedente sistema della milizia più non potea convenire allo stato libero de' Torinesi. Sotto il bizzarro governo feudale la milizia consisteva nell'unione de' vassalli dipendenti dal Principe o dai grandi feudatari, la cui stolta vanità faceva loro anteporre il guerreggiare a cavallo. I baroni, l'autorità de' quali stendevasi su venticinque vassalli minori, o secondi militi, che loro tributassero omaggio, avevano la facoltà di spiegar bandiera; coloro, i quali non avevano giurisdizione che sovra qualche piccolo castello, non potevano innalzare che un pennone.

Allorchè i Principi volevano uscire in campo, mandavano fuori il bando di guerra. A quell'invito tutti i vassalli, laici ed ecclesiastici, i quali possedevano feudi dipendenti dalla corona, nominavano fra' gentiluomini della loro giurisdizione un sergente di bandiera, l'ufficio del quale era di raccozzare il numero de' cavalieri, così in uomini d'arme, che in seguaci, i quali dovevano comporla, conforme alla qualità del feudo; e sembra, da quanto riferisce il Muratori, che ogni uomo d'arme avesse per suoi seguaci due scudieri almeno

ed un paggio. Non solo i minori vassalli in forza degli ultimi bandi erano astretti a fornir genti all'esercito, ma tutti eziandio i posseditori di una terra di mediocre rendita dovevano artuare un uomo di tutto punto. Queste diverse bandiere, pennoni, o drappelli erano all'accennato generale ragunamento raggranellati sotto la insegna del principe. La cavalleria torinese obbediva ad un ufficiale superiore, chiamato capo della torinese nobiltà. Egli aveva sotto il suo governo commissarii incaricati della ispezione delle soldatesche. Se alcuna guerriera fazione richiedeva celerità, staccavansi gli uomini d'arme leggeri sotto l'obbedienza di un momentaneo capo, tratto dallo squadrone, ma senza che i seguaci cessassero dallo appartenere ai medesimi, e dal dipendere dai loro feudatarii. I fanti non erano nè meglio armati, nè meglio ammaestrati nel nostro paese, che il fossero altrove; i terrazzani, che dovevano comporre la fanteria, venivano eletti dai loro baroni, ed eran posti sotto il comando di capitani, ch'essi nominavano a loro posta. 1 diversi drappelli, giunti alla generale adunata, si ordinavano in truppe di tre o quattro cento uomini, il cui supremo comando era dal Principe affidato ad un capo di sua scelta. Allorchè le soldatesche trovavansi divise in più schiere, il superior governo delle medesime era dato dal Principe ad uno dei grandi della sua corte con assoluta potestà, e col titolo di suo luogotenente generale. Le spese per armare o sostentare queste genti erano a carico o del Principe, o de' feudatari secondo i rispettivi signorili diritti: il tempo della milizia calcolavasi sugli stessi diritti; ma ben di rado prolungavasi oltre a sei mesi.

Ora un siffatto militare sistema cessò al tutto in Torino, appena che fuvvi stabilito il governo popolare. Questa città fu divisa per quartieri, ed ogni quartiere fu obbligato di fornire un contingente d'infanteria, di cavalleria, o di alabardieri. Ciascun cittadino dagli anni 18 ai 60 fu arruolato all'esercito del comune: i consoli ebbero il supremo comando dell'urbana milizia; gli ufficiali furono distinti in due classi, cioè in quelli dello stendardo del comune, e in quelli del popolo: perchè tutti i militi vieppiù si agguerrise si mostrassero intrepidi ad ogni scontro, venivano

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essi, e massimamente i giovani di continuo esercitati ad ogni ginnastica prova; si addestravano al corso, alla lotta, alla scherma; e quelli fra loro che più si distinguevano in siffatti esercizii, riscuotevano applausi e ricompense. Qualora i consoli volevano che tutto l'urbano esercito si raccogliesse per esercitarsi in militari evoluzioni, ed in finte battaglie, ogni milite al suono della campana del co→ mune armavasi di tutto punto, e seguiva la squadra condotta dal capitano del suo quartiere; ed ivano poi tutti schierati alla Braida, o al campo di Marte, ove facevano a dilungo i bellici esperimenti. Talmente si accese nei Torinesi l'amore dell'indipendenza, che tali faticosi esercizii venivano da loro eseguiti con grande piacere ed alacrità; stavano volontieri di guardia alle porte durante il giorno; facevan di notte tempo la scolta intorno alle mura; pagavano di buon grado al comune le imposte ed i balzelli non solo dei beni stabili, ma anche dei mobili, e persino quelli che loro veui→ vano imposti sulle botteghe e sui fondachi; ne' più malagevoli tempi pagavano anche il doppio della taglia; nè si dolevano i ricchi di fornire, nelle gravi emergenze, cospicue somme di danaro a prestito forzato.

La maniera di combattere dell'infanteria torinese, era di marciare contro il nemico in massa serrata attorno al vessillo del comune. La gloria dei militi cittadini era di conservare il vessillo del comune; veniva riputata come una gran disgrazia il perderlo; e consideravasi come il più gran trionfo lo impadronirsi di quello del nemico. Sotto a questa forma di libero governo, Torino ben presto giunse a un grado straordinario di prosperità; sicchè i gentiluomini delle terre vicine, ed eziandio non pochi baroni, abbandonarono le loro castella, e le loro torri, e sebbene fossero molto gelosi di conservare le loro prerogative, ciò non di meno vennero a rinchiudersi in questa città, e adottarono il genere di vita di questi abitanti. Anzi parecchi di quei nobili, anche senz'esserne costretti, si diedero al comune per assicurarsene la protezione, e si videro grandi vassalli, che ne chiesero con istanza il diritto di cittadinanza.

1 Torinesi al certo si allegrarono, vedendo come i baroni dei circostanti luoghi si mostravano così raumiliati, tanto più

che questi abbassandosi al grado di semplici cittadini, dovean soggiacere a qualsivoglia carico imposto dal comune; ma non tardarono ad avvedersi che avevano accolto nel loro seno i germi delle civili dissensioni; perocchè i nobili, cui fu sempre ben conosciuta l'arte di adulare i principi, non ignorano nè anche quella di piaggiare, ed accarezzare i popolani, per aver nelle mani il regime dei pubblici affari ; e da ciò appunto accaddero a Torino spiacevolissimi effetti, come apparirà dalle seguenti osservazioni intorno alle causé remole e prossime, per cui i Torinesi vennero tra loro a fiere discordie, per sedare le quali fu forza modificare la forma della loro repubblica.

A

Già le civili guerre di Lamberto e Guido imperatori con Berengario, e poi le orribili invasioni degli Ungheri e dei Saraceni avevano devastata la torinese contrada, e la Lombardia. Questa fu l'epoca dell'erezione del gran numero di castelli, e di fortilizii sì privati che pubblici nelle terre che stanno intorno a Torino. La sicurezza delle popolazioni certamente li esigeva: i vescovi ed i baroni, poichè non era mai stato lecito ad alcun privato di costrurli, ne domandavano la facoltà ai Re ed agli Imperatori, e la ottenevano. In progresso di tempo crebbe vieppiù il numero de' castelli e de' fortilizi dei particolari nell'agro di Torino, e furon cagione di travagli a questa città. Il suo territorio fu diviso e smembrato, e la sua giurisdizione si estese poco più là de' Pomerii sin da quando cominciaronsi a creare i conti rurali o pagensi. Così molti piccoli despoti o a titolo beneticiario di feudo, o a titolo di allodio, sotto i nomi di conti, di castellani, e di cattani, possedevano il territorio, che anticamente apparteneva alla nostra capitale, e che da Carlo Magno in poi formava il torinese contado. Quindi dilacerato il medesimo in varie parti, aveva ciascuna il suo governatore, ed emulava la città medesima; la quale perciò appena postasi in libertà, si vide dintorno l'argine crudele di tante rocche e fortezze, che riempivano le campagne. Contro di quei nobili, che infestavano la provincia, e ne imbarazza→ vano il commercio si volse la moltitudine cittadinesca, C conscia delle sue forze, non ebbe più riguardo nè all'antitichità e chiarezza del sangue che vantavano le famiglie dei

baroni, nè all'autorità imperiale che le aveva investite delle terre che possedevano; ma correndo loro supra popolarmente ne costrinse parecchie ad abbandonare i loro castelli, e rassegnarli al comune, e venir esse medesime ad abitare in Torino; le altre come testè s'è detto vennero spontaneamente a fissarvi il loro domicilio. Vera cosa è che questo soggiogamento de' conti, condotti per forza ad abitare nella città libera, ed aver parte ne' pubblici carichi, fu per un verso utile ai Torinesi, ma divenne assai presto sorgente d'intestine discordie, che guastarono amaramente ogni dolcezza dell'acquistata indipendenza.

1 nobili, che già si trovavano in considerevol numero nella città di Torino, unironsi in società, coll'evidente scopo di occupare le maggiori cariche della repubblica, e principalmente quelle dei consoli; e già ottenevano questo intento, quando la fazione dei popolani adoperò la sua forza per conseguire una mutazione nell'interno regime della città: da principio pare che i consoli torinesi fossero scelti nella classe dei popolani. Di questa classe è probabile che fosse uno Stefano, che aveva la carica di console nel 1172. Un documento del 1176 nomina cinque consoli torinesi senz'accennare se fossero nobili o popolani. Ma una carta del 1193 fa menzione di consoli maggiori, cioè tratti dalla società dei nobili, e di due consoli minori chiamati uno Ansaldo Becco, e Pietro Feraldo. Ora l'ambizione de' nobili, che al supremo onore di consoli aspiravano, fece sospettare ch'essi volessero far risorgere la tirannide, e questo sospetto del popolare partito suscitò civili dissensioni; dalle quali nacque la necessità d'introdur l'uso di far venire dalle città amiche, e della medesima fazione un distinto personaggio, cui si commisero il potere giudiziale, e l'amministrazione delle guerre, che pei pubblici consigli si muovevano. La sua autorità si limitò allo spazio di un solo anno, e poscia a quello di soli sei mesi: gli venne dato il nome di podestà; ed in progresso di tempo egli divise il suo potere con un capitano del popolo, cui assegnossi un proprio palazzo ed una famiglia armata, perchè la plebe omai divisa dalla nobiltà, volle una rappresentanza pubblica che la sostenesse. Si volle che il podestà fosse ad un tempo un uomo di

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