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guerra, e letterato, cioè non privo di qualche cognizione nella giurisprudenza: non poteva essere eletto di bel nuovo che a termine di dodici anni. Durante la sua magistratura, era capo della forza armata. Erano sotto di lui, e lo ajutatavano nell'esercizio della sua importante carica un vicario, che doveva esser uomo di leggi, un cancelliere, varii notai, alcuni altri uffiziali, subalterni, ed un bargello con alcuni soldati di giustizia. Al podestà, e a tutti gli uffiziali da lui dipendenti, era per lo più vietato di condur seco in Torino le proprie consorti. Le porte della casa abitata dal podestà dovevano stare aperte a tutti dal nascere del sole insino al

tramonto.

Dopo l'introduzione del podestà in Torino, dovette necessariamente essere menomata l'autorità de' consoli; e diffatto essi più non ebbero che la presidenza del maggiore e del minor consiglio, a cui per altro rimase il diritto di far leggi, imporre le tasse ed i balzelli, contrarre alleanze, dichiarare la guerra, far tregue e trattati di pace. Ridotte così le cose del popolar governo, i Torinesi popolani più non temettero di essere soperchiati dalla fazione dei nobili, e di vedere che alcuno di essi intraprendente ed audace tentasse d'impadronirsi del sommo potere. Se non che la loro fiducia ben presto falli. Nel 1199 vediamo che Torino era di bel nuovo governata da consoli maggiori, scelti nella classe dei nobili, e da consoli minori tratti dalla classe de' popolari: consoli maggiori erano in quell'anno un Pietro Porcello, un Ottone Duc, un Aimone Della Rovere, un Arrigo Maltraverso, ed un Jacopo Prando; e consoli minori erano Jacopo Silo, Pietro Faraudo, Uberto Bojamondo, Guglielmo Atello. Ma i popolani vedendo che la giustizia era malamente amministrata, e che i nobili divenivano più superbi ed arroganti, fecero tali pubbliche dimostrazioni, che nel 1200 si dovette ristabilire la carica del podestà. I nobili frattanto macchinavano in segreto per poter avere il sopravvento; ed eccitavano il popolo a tumulti; ond'esso, senza avvedersi delle secrete mene a suo detrimento, per interessi che sovente gli erano estranei, gittavasi in balia de' cupidi raggiratori, che lo avevan sedotto, i quali sconvolgendo ogni ordine di cose, tentavano sulla rovina della pubblica fortuna rialzare 22 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

la fortuna propria e privata ; ed intanto pei rinascenti bisogni e per avidità si raggravavano le imposte, l'eccesso delle quali fu sempre il diritto cammino verso la servitù.

XXIII

Torino è occupata dal conte Amedeo III;

lo è poscia dall'imperatore Lotario III,

è di bel nuovo dal predetto conte Amedeo.

Mentre in questa capitale accadevano le cose testè narrate, l'imperatore Arrigo V essendo disceso in Lombardia con un esercito di trenta inila combattenti, il conte di Savoja Amedeo III valle accompagnarlo nel suo viaggio d'Italia, ed assistere in Roma all'incoronazione di esso Arrigo suo cugino, ov'egli si trovò in gravissimo rischio. Il novello Imperatore per rimunerare i servigi resigli da Amedeo, lo creò primo conte e vicario perpetuo dell'impero, e concedette ai Torinesi l'assoluta giurisdizione sopra la strada pubblica, per cui si va da Torino a Susa sino al piè de' monti, passando pel borgo di sant'Ambrogio, siechè loro spettasse il giudicare tutte le differenze de' pellegrini e de' mercatanti che per quella strada passavano. Di gran rilievo fu al certo questa concessione fatta ai Torinesi da quel Monarca; perocchè la giurisdizione assoluta delle pubbliche strade annoveravasi fra i diritti regali; e per lo più eccettuavasi nelle infeudazioni; d'altronde un siffatto privilegio dovea riuscire di gran vantaggio al comune di Torino, a cui così veniva fatto che i mercatanti giunti a Rivoli volgessero alquanto a destra per andarsene con più breve tragitto al ponte di sant'Egidio di Testona, ed arrivare più presto nella città d'Asti, che allora era sommamente florida per le sue ricchezze, e pel suo molto esteso commercio,

Il diploma con cui Arrigo volle tanto favoreggiare i Torinesi, fu allora deposto negli archivii di questa città, e venne per la prima volta pubblicato dall'abate di Lavriano, Esso ha la data del 23 di marzo del 1111. Ivi Arrigo dichiara di aver eiò fatto con l'intervento ed il consiglio di Federico arcivescovo di Colonia, e dei vescovi di Ratisbona, di Vercelli, non che di molti vassalli dell'impero, tra i quali

il marchese Rasneri di Monferrato, Manfredo di Romagnano, il conte Alberto di Biandrate, e Guido de Canavisio. Con tale diploma l'Imperatore prescrive che nessun duca, marchese, conte, visconte, o qualunque altra persona ardisca recar molestie alla città di Torino od a' suoi abitatori; e se alcuno presuma di contravvenire a quell'ordine suo, debba pagare una multa di mille libbre d'oro, di cui una metà sia a profitto della sua camera, e l'altra metà debbasi pagare al comune di Torino, dichiarando ch'ei volle rimeritare così i servigi resi in ogni tempo all'impero da questa nostra città.

Posteriormente, cioè nell'anno 1116, lo stesso Imperatore confermò ai Torinesi i buoni usi e le franchigie che avevano essi goduto sin dai tempi del suo genitore Arrigo IV; e dice che con ciò intende di remunerare i servigi che avea ricevuti da loro; alludendo forse al contegno che una schiera di torinesi assoldati dal conte Amedeo III, e condottasi con esso a Roma, avea mantenuto in quella città nel procelloso giorno dell'incoronazione di Arrigo.

Frattanto Amedeo III, che dovea rimanersene ne' suoi stati d'oltramonti, e avea molto che fare con possenti nemici che volevano toglierli una parte di quegli stati, non potea colorire, senza suo rischio, il disegno di venire ad im→ padronirsi della marca di Torino, che fermamente credeva appartenergli per diritto di successione, e già trovavasi in gran parte occupata da varii usurpatori. Diffatto, circa il tempo in cui Torino sorse a libertà, vennero fuori nella marca torinese alcuni personaggi, i quali cominciarono padroneggiare con illustri titoli, senza che siasi ancor fissato quando essi abbiano avuto origine, o come vi si sieno stabiliti, o per quai gradi la loro potenza s'accrebbe anche a dispetto di alcune libere città che stavano loro a' fianchi. Quella parte della marca di Torino, che or si chiama Piemonte superiore, più d'ogni altra provincia ce ne fornisce esempi. Comparvero nella prima metà del secolo xn alcuni marchesi di nome, e non di dignità, sull'origine de' quali tutto ciò che si disse non servì che a renderla più scura. Essi quasi d'un colpo vi si stabilirono per un buon tratio di paese; non si ricercò mai qual fosse il loro diritto, e

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facilmente si credettero più antichi di quel che sono per esimersi da tale ricerca. Vogliam parlare de' marchesi di Saluzzo, di Busca, di Cova, d'Incisa, del Bosco, di Ponzone e di Cravesana, i quali in un co' marchesi di Savona si fanno discendere per errore dalla stirpe di Aleramo. Nè di ciò solamente avea motivo di dolersi il conte Amedeo II. Chè eziandio il marchese Guglielmo di Monferrato, possente nelle colline che sorgono alla riva destra del Po, cercava di estendere il suo dominio nelle pianure sulla manca sponda del fiume, le quali formavano in gran parte la contea di Torino. Oltrecchè l'avido Monferrino non celava il desiderio e la viva speranza d'impadronirsi di questa capitale ; e forse gli riusciva l'intento se non avesse avuto in mira altre conquiste di maggior convenienza al suo stato. Quali che fossero i suoi titoli e i suoi diritti sopra le città d'Asti e di Chieri, che diffatto allora governavansi a comune foggia di ben costituite repubbliche, non è punto chiaro. Ma Guglielmo vi pretendeva in concorrenza eziandio dei conti di Savoja, e per impadronirsene cercò di profittare delle circostanze in cui si trovava questa parte dell'Italia, per ridurre sotto il suo dominio quelle due città, divenute libere, ambedue confinanti con gli stati suoi, ed una di esse, cioè Chieri, vicinissima a Torino, che vivamente bramava di possedere.

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Più aperta per altro che tra il marchese di Monferrato e il conte di Savoja, era la differenza vertente tra il conte Amedeo II ed Alberto od Arberto vescovo di Torino, durante la vacanza dell'imperio. Dopo la morte di Lotario II, e poi sotto il debole governo di Corrado II, i vescovi e le città prendean vantaggio sopra i conti e i marchesi; perchè i papi tanto più possenti nel temporale, quanto più gl'imperatori eran deboli, o l'imperio più lungamente vacante, favorivano piuttosto i vescovi e i comuni, che i principi. Il conte Amedeo III si vide perciò divenuto manifestamente rivale d'autorità del vescovo nel cuor del Piemonte quasi tutto compreso nella diocesi di Torino; ma distratto da gravi cure nella Savoja, non era in grado di scendere le alpi, e ricuperare colla forza delle armi quanto gli veniva usurpato nella torinese contea. Una delle principali cause per cui

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dovea rimanersene ne' suoi stati d'oltramonte, era la terribile lotta che dovea sostenere contro il re di Francia. Trovandosi egli privo di figliuoli, Alice sorella di lui, e moglie del re Luigi il Grosso, avea persuaso il suo marito a mandare, come fece, un esercito nella Savoja, il quale s'impadroni delle principali fortezze di quella contrada. La guerra fu orribile finchè Iddio concedette al conte Amedeo un figliuolo, e permise la morte del Re, ed alcune turbolenze in quella corte, che diedero occasione e facilità al conte di ripigliare tutte le terre e fortezze che gli erano state dai francesi occupate: laonde il giovine successore del re Luigi il Grosso, dubitando che il nostro conte, memore delle offese, intraprendesse alcuna cosa contro di lui, si rivolse sollecitamente al venerabile Pietro abate di Clunì, acciocchè gli procurasse la riconciliazione col conte.

L'interposizione del venerabile Pietro riuscì conforme i desiderii del Re, essendo grandissima la stima che il conte faceva di quel santo abate. Ristabilitasi adunque la concordia tra i due Principi, Amedeo III apprestavasi ad intervenire con seguito numeroso di cavalieri e di gentildonne alla consecrazione di un votivo tempio da lui eretto in onore di s. Sulpizio, quando gli giunse l'avviso che Alberto vescovo di Torino, deposto ogni riguardo, audacemente perturbava la giurisdizione di questa città. Sebbene di ciò fortemente si sdegnasse Amedeo, ciò non di meno fece proporre all'usurpatore vescovo di Torino un aggiustamento, che questi ebbe il coraggio di rifiutare. Indarno l'arcivescovo di Lione, legato apostolico, offrì la sua mediazione. Il conte adunque, sebbene mal volentieri impugnasse la spada contro un ecclesiástico, massimamente costituito in dignità, pure giudicò di raccogliere un grosso corpo di truppe, e scendere con esso le alpi, sperando che gli riuscirebbe agevole il ridurre il vescovo Alberto ai termini della ragione col terrore delle sue numerose soldatesche, o con l'opera del legato apostolico: ma gli fu d'uopo usare anche la forza. Si appressò con le sue truppe a Torino; entrovvi senza incontrarvi altra resistenza, che quella oppostagli dai pochi partigiani del veScovo; e nient'altro desiderando che vendicare l'autorità usurpatagli, stelte contento a scacciare da Torino il vescovo

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