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proprio conto, come gli altri prelati lombardi. Quindi il vescovo e la città di Torino rimasero del partito di Federico 1. Dal che si scorge il motivo per cui Federico, dopo la distruzione di Susa, venuto a Torino fu accolto in questa città con dimostrazioni d'allegrezza ed onore; ed egli non palesò alcun risentimento del modo, con cui i Torinesi ricusarono di riconoscere l'esterminata giurisdizione da lui conferita al loro vescovo.

Da questa città l'Imperatore andossene ad assediare Asti, che non ebbe coraggio di resistergli, e rinunziò alla lega lombarda. Egli finalmente mosse più furibondo contro di Alessandria; ma quivi consumò il tempo, e vi perdè quasi affatto la riputazione e l'autorità. Non contava ancora quella città più che sei anni d'origine, avendo essa avuto principio nel 1168, secondo anno della lega lombarda; e pareva che non potesse farvi buona difesa una moltitudine d'uomini che da diversi borghi colà vicini, eransi uniti in quel luogo: certo è che non avean potuto cuoprir di tegole i poveri loro abituri, e in vece di muraglie avean cinta la terra di soli fossi e d'argini naturalmente formati colla terra scavata da questi. Ciò non di meno, tanto potè l'ardore e la pertinacia di gente indurata alla fatica ed animata da fervente amore di libertà, che l'esercito d'un Imperatore bellicoso, sagace ed attento vi consumò indarno molti mesi d'attorno. Pur si credette una volta di venir a capo di quell'impresa per via d'un cunicolo praticato sotto a' fossi, e che riusciva nella città; ma scoperta la cosa per tempo, andò a vuoto l'arte e l'ingegno degli assedianti, quantunque l'Imperatore cercasse d'ingannare gli Alessandrini con una sospensione d'armi che avea loro spontaneamente conceduta, come per riverenza della passione di Gesù Cristo, e della solennità pasquale che correva a quei giorni. Frattanto sopravvenivano gagliardi soccorsi dei collegati all'assediata città, che omai pativa disagio di viveri. Tuttavia i valorosi abitanti in una vigorosa sortita ruppero le schiere degli assediatori, sicchè Federico fatte abbruciare le sue macchine ossidionali, ritirossi verso Pavia, c s'incontrò nell'esercito de' collegati composto di Milanesi, Bresciani, Veronesi, Novaresi, Vercellesi, Trevisam, Padovani. Vicen

tini, Mantovani, Bergamaschi, Piacentini, Parmigiani, Reggiani, Modenesi e Ferraresi. Barbarossa molto inferiore di forze a' Lombardi, diede orecchio alle proposizioni di pace che il lunedì di Pasqua cominciò a portargli qualche religioso, secondato da altre persone neutrali o non sospette, che consigliarono l'Imperatore a non ispargere in si lieti e santi giorni il sangue di due eserciti cristiani. Cedendo gli uni e gli altri a questi primi impulsi che li portavano alla pace, furono finalmente di comun parere eletti gli arbitri per trattarla; ed il compromesso venne sottoscritto alli 15 e 16 d'aprile del 1175. Ivi il nostro conte Umberto Il sostenne le parti di uno de' maggiori principi aderenti dell'Imperatore, comes Savoje, et ceteri principes imperatoris concordes fuerunt cum D. Ecilino, et cum consulibus civitatum. L'Ecilino ivi nominato era uno dei principali rettori della società lombarda. Parimente il conte Umberto sottoscrisse subito dopo l'arcivescovo di Colonia, fratello dell'Imperatore. Tra i consoli e sapienti delle città collegate giurarono Gioanni Benedetto di Vercelli, Cassiano di Tortona, Cavalaccio Pietro di Novara, Succo de Strata console di Alessandria. Da Galvano Fiamma ci si nomina tra i personaggi, nei quali fu compromessa la pace un Guglielmo da Piossasco, capitaneo della città di Torino.

Federico finse di voler far pace eziandio col Pontefice, e questi gli inviò i suoi legati a Pavia: se non che l'Imperatore studiando solamente di acquistar tempo, e tenendo a bada con esagerate pretensioni il Papa sinchè gli arrivassero i soccorsi di Germania, svani ogni trattato di pace. I collegati che s'avvidero del disegno di Federico, e che sapevano com'egli aspettasse ajuti di Germania, s'ingegnarono di preoccupare i passi, ed impedirne l'unione col resto dell'esercito imperiale. Furono perciò le nuove truppe costrette a scendere per alpestri cammini al lago di Como, dove Federico, si tosto che n'ebbe l'avviso, andò a riceverle sconosciuto.

Di là avanzandosi (an. 1176) verso Pavia, fu incontrato dall'esercito della Lega, e ne seguì la memoranda battaglia tra Legnano ed il Ticino ai 29 di maggio. Rimasero vincitori i Lombardi, e le forze della Lega superiori a quelle di Federico in modo, che non era più dubbio a qual delle parti

s'aspettasse di dar legge all'altra. Federico si vide costretto a domandar la pace, che nell'anno seguente fu stabilita in Venezia dal papa Alessandro III, il quale per altro tenne più conto de' proprii vantaggi, che degli interessi della Lega lombarda, la quale per sostenerlo aveva speso tanto danaro e tanto sangue. Tra le altre questioni fra l'impero ed il sacerdozio, Adriano IV avea ridestata la controversia delle regalie e dei feudi de' vescovi italiani, la quale non si estinse colla morte di Adriano: ciò che per sottili discorsi non ottenne la chiesa da Federico, l'ottenne in parte per la costui sconfitta di Leguano. Le condizioni della sua pace con la chiesa sono riportate dal Pagi; di quel trattato, che si compiè nel 1177, si leggono gli atti presso il Baronio. Tuttavia Federico, tenace delle sue pretensioni, stabilita in Venezia la pace col Papa, non concedette ai Lombardi che una tregua di sei anni, la quale fu come il preliminare della pace di Costanza, sei anni dopo stipulata, per cui Federico dovette piegarsi a riconoscere la libertà legale di una gran parte dei lombardi municipii. Rimasero allora imperiali le città di Torino, Asti, Alba, Ivrea, Tortona, Genova, Pavia, Cremona, Ventimiglia, Savona, Albenga, Casale di s. Evasio, Monteveglio, Imola, Faenza, Ravenna, Forlì, Forlimpopolo, Cesena, Rimini, Castrocaro, il marchese di Monferrato, i conti di Biandrate, i marchesi del Vasto, quelli del Bosco ed i conti di Lomello. Tanto più di buon grado Genova, Asti, e poi Pisa aderirono ai cesari, in quanto che ne ottenevano con facilità molti privilegi mercè delle grandi ricchezze loro procurate dal commercio.

All'opposto le città della Lega lombarda erano Venezia, Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano, Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Carsino e Belmonte, Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, e di più Obizo Malaspina, gli uomini di s. Cassano ; oltre i quali intervennero pure nei sopraccennati preliminari di pace il conte di Bertinero e Ruffino di Trino.

Giunse l'anno 1185, ultimo periodo della tregua, e si fece il primo passo verso la pace col congresso che addì 30 di aprile tennero a Piacenza i Lombardi ed i legati dell'Imperatore. I plenipotenziarii della Lega si recarono poi tutti a

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Costanza, dove intrattenevasi l'Imperatore, il cui figliuolo, che nomossi Enrico IV, desiderando d'essere associato dal suo padre alle due corone di Germania e d'Italia, nella dieta unitasi appunto nella città di Costanza, tanto si adoperò, che si conchiuse il trattato di pace il dì 25 di giugno 1183. I più essenziali articoli di questa pace, che formò la base del diritto pubblico italiano, e con cui si terminò la lunga lotta dell'italica libertà, furono da noi esposti nella storia di Novara Vol. XII, pag. 209 e segg. Sembrava che dopo la pace di Costanza le città lombarde dovessero godersi tranquillamente il frutto di tante fatiche, di tanti travagli, di tanto sangue sparso. Potean esse governarsi a loro talento, scegliere i loro magistrati, far quelle leggi che più fossero opportune, promuovere il commercio, introdurre le arti e favoreggiare ogni maniera di studii. Eppure onde speravano la loro maggiore felicità, indi ebbero appunto, come osserva il Tiraboschi, la loro rovina. Non si erano elle unite con un vero e stabil vincolo federale; erano sibbene libere ugualmente, ma non ugualmente forti; e questa disuguaglianza destava nelle più possenti il desiderio di aggrandirsi, e nelle più deboli il timore di essere soperchiate. Quindi la gelosia da prima e l'invidia, poscia le vicendevoli leghe, finalmente le aspre e sanguinose lotte e la necessità di sottomettersi ai più ricchi e valorosi personaggi, furono le cagioni per cui si stabilirono tante tirannidi, quante erano le città.

XXV.

Grave controversia

tra Milone vescovo di Torino ed il conte Umberto III;
triste conseguenze che ne derivano.

Il conte Umberto III erasi trovato presente alle speciali discussioni, che nella chiesa di s. Antonio in Piacenza venivano fatte sui preliminari della famosa pace di Costanza. Integerrimo, com'egli era, non ometteva nessuno degli uffizi che lo legavano verso l'Imperatore, ma non tralasciava neanco di sostenere con dignità i diritti del suo principesco casate. Non accondiscendeva deboimente alle ingiuste pretensioni de' ministri cesarei; e dovette perciò soffrirne l'aperta ini

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micizia e provarne i funesti effetti, ai quali porgevano occa-
sione in quel secolo infelice le tante divisioni di dominio in
una medesima terra.

Diffatto, trascorso appena un anno dacchè s'era stipulata
la ridetta pace di Costanza, Milone, vescovo di Torino, mosse
una fiera lite davanti a Gotifredo, legato imperiale in Italia,
contro lo stesso conte Umberto, mettendo in campo le ra-
gioni della sua chiesa sovra l'importante luogo forte di Pia-
nezza. Non essendo questi comparso, il castello di Pianezza
fu aggiudicato al vescovo, il quale di ciò ingorgoglito, ed
affidatosi all'assenza di Umberto, che a quel tempo trovavasi
con Federico a s. Salvatore presso Pavia, continuò le sue
querele contro di lui, accusandolo di aver leso i suoi diritti
sopra i luoghi di Torino, Rivoli, Rivalta, Torretta, Avigliana,
e sulla metà di Carignano. Ben vedendo il Principe quanto
gli fossero avversi i cesarei ministri, non giudicò di doversi
assoggettare alla loro autorità; e sapendo ad un tempo che
le sentenze date in contumacia non cangiavano il merito
della causa, procurava di ottener dilazioni a comparire, finchè
il legato imperiale nel secondo giorno di settembre del 1185
proferì un'altra sentenza in odio del conte, dichiarando ap-
partenere al vescovo i castelli e i luoghi di Avigliana, Ri-
valta, la metà di Carignano, il castello di Torretta, e gene-
ralmente tutto ciò ch'esso conte, secondo che pretendeva
Milone, teneva in feudo dalla chiesa torinese. Questa sen-
tenza fu pronunziata dal cesareo legato nel palazzo vescovile
di Torino alla presenza di Pietro arcidiacono, di Gandolfo
preposito, di Amico primicerio e di altri ecclesiastici.

Già il vescovo di Torino Carlo II avea dato grandi molestie, colle sue ingiuste pretensioni, al conte di Savoja. Anch'egli, calcando le orme del suo precessore Carlo I, avea posto sossopra la nostra capitale, e le terre all'intorno per mantenersene l'assoluto possesso; ma il conte avevalo costretto a cedere colla forza delle armi; e fa veramente stupire che il vescovo Carlo II, il quale si mostrò cotanto avido di dominio da volersi impadronire delle ragioni e dei diritti del sabaudo conte, si fosse addì 7 d'aprile del 1168 condotto insieme col collegio de' suoi canonici nella città di Chieri, ed ivi, raunato il popolo a parlamento, lo investisse di tutti

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