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sima parte del Piemonte, e di addolcire eziandio le ire dei magistrati di Torino, che vedendosi abbandonati da alcuni de' più forti alleati de' Torinesi, e vedendosi anche nel pericolo d'esser presto assaliti da un esercito poderoso, risolvettero finalmente di venire agli accordi col Conte, il quale s'indusse bensì a fare le più ampie concessioni ai Torinesi, purchè questi gli prestassero, come di fatto secondo che affermano gravi scrittori, fra i quali il dottissimo Durando, gli prestarono come ad alto signore l'omaggio di fedeltà. La pace fu stipulata il 18 novembre del 1235 fra Amedeo IV, il vescovo e il comune di Torino, l'abate e il comune di Pinerolo, i signori di Piossasco, e parecchi castellani e baroni, che tutti erano favoreggiati dalla lega lombarda. Tra gli altri patti dell'accordo, il conte di Savoja per la sua figliuola consorte del marchese di Monferrato rinunziò Collegno, su cui riteneva diritti in tempo di guerra; il vescovo di Torino gli rinunziò il luogo di Avigliana, ed egli cedette Rivoli al vescovo; i castellani, ed i baroni intervenuti at trattato fecero omaggio de' loro feudi al Conte, che subito ne li rinvestì. Per rispetto a Pinerolo si stipularono i seguenti patti che il Conte, ed il comune eleggessero ciascuno dodici borghesi, i quali ne definissero le respettive ragioni, ed ove alcuna delle parti' non s'acquetasse al loro arbitramento, il sig. Grattapaglia, ed il sig. Guido di Piossasco avessero balia di pronunziare, con condizione per altro che niuno di loro dir potesse avere il conte di Savoja l'autorità di carcerare gli uomini di Pinerolo, e competergli l'abbominevole diritto empiamente usurpato sulle novelle spose, al quale si diè il nome di Scozzonaria; e si volle una tal condizione, perchè in quell'età sciagurata certi nobili anzi tiranni che signori di castella e di terre, non contenti di abusare delle sostanze e delle facoltà dei proprii sudditi attentavano anche all'onore delle donne maritate di fresco, pretendendo di usare un loro privilegio, sebben questo fosse vergognossimo, introdotto dal demone della lussuria, e si nefando, che il sol rammentarlo mette il raccapriccio nell'animo.

Siccome i Pinerolesi videro che il diritto di associazione era il fondamento del loro comune e la base della vitalità

di esso, vollero eziandio che in virtù di quel trattato la loro patria avesse piena facoltà di ricevere nuovi borghesi, eccettuandone per altro gli uomini delle antiche terre del conte di Savoja; e siccome questi erasi dato a costrurre fortezze od in territorio non suo, od in tanta vicinanza dei confini, che non potevano a meno di adombrarsene le popolazioni che si erano collegate contro di lui prima dell'ac cordo, così i Pinerolesi ottennero eziandio che il Conte si obbligasse di non erigere castelli, e case forti se non alla distanza che sarebbesi determinata da scelti arbitri.

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Persuasi che non giovi il riferire le più minute particolarità di questo trattato ci limitiamo ad osservare che mentre il conte Amedeo IV parve inchinarsi ad un accordo vantaggiosissimo ai Torinesi, soddisfece così agl'impulsi del suo cuore, come alla sua saggia politica. Lasciò egli è vero al comune di Torino la facoltà di governarsi colle proprie leggi, di riformare le antiche, e farne di nuove; gli lasciò il diritto di far contribuire i cittadini pei maggiori comodi e vantaggi della popolazione, pel lustro e lo splendore necessario a mantenere il suo credito al di fuori; nè cercò di togliergli l'autodicia, cioè il diritro di far la pace e la guerra e di conchiudere alleanze offensive e difensive; ma è certo eziandio che egli mercè di questo accordo ebbè la consolazione di far cessare lo spargimento del sangue dei suoi diletti piemontesi; e intanto ben seppe prevedere che a lui, o ad alcuno di sua famiglia sarebbe poi venuto il destro d'influire senza soggezioni e contrasti sui destini di questa capitale, e sulle altre terre subalpine in modo conforme ai diritti acquistati sull'eredità della grande Adelaide; e queste sue speranze non andarono fallite. D'altronde in quel tempo difficilissimo egli non potè a meno di apprezzare l'omaggio di fedeltà che gli venne prestato dai Torinesi allora tanto vogliosi di libertà e d'indipendenza; il quale bmaggio gli dava se non altro ampia facoltà di stabilire in Torino la sua residenza, e ciò che più rileva, importava riverenza alla sua persona, richiedeva che nessuno potesse attentare contro la sua vita e l'onor suo; e richiedeva eziandio che gli si desse una qualche parte dei proventi del

comune.

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Il mantenersi tranquillamente in tal condizione era pur anche troppo malagevol cosa al conte di Savoja. La gran contesa che divideva in due grandi partiti l'Italia, e specialmente la Lombardia, facea spesso cangiar disposizione e partito tanto alle città realmente libere, o pretese tali, quanto ai principi, conti e marchesi, signori, sovrani nei loro territorii, tutti da un canto vassalli dell'impero, ma dall'altro canto ubbidienti e divoti al Papa, emolo degl'Imperatori`nella sovranità temporale d'una gran parte d'Italia. Il conte Amedeo IV, ed il marchese Bonifacio di Monferrato come la più parte dei potenti signori di Lombardia e della Liguria, difficilmente potevano esimersi dal pigliare le parti dell'Imperatore, la protezione del quale era loro necessaria per sottrarsi alle violenze dei popoli, che s'erano impadroniti del governo, e miravano ad esterminare la nobiltà sì forestiera che urbana. Tuttavia mentre un accordo seguito tra il papa Gregorio IX e Federico II ancor sussisteva, almeno apparentemente per gli affari di Puglia, Sicilia, e intorno alla guerra di Palestina, dove le istanze e le minacce del Papa spingevano l'Imperatore malgrado suo, le cose passarono assai tranquillamente in Lombardia, in Piemonte, e nel Genovesato; e quando riuscì a Federico di esentarsi dall'impegno di guerreggiare contro gl'infedeli nell'Asia la ribellione d'un figlio già destinato a succedergli lo chiamava in Alemagna.

Ora sventuratamente si apre una nuova lotta fra la lega lombarda e Federico II, tra l'impero ed il sacerdozio; ma diversi ne sono i casi e le conseguenze. Nella prima i lombardi municipii combattevano per la libertà e l'indipendenza; nella seconda non respinsero l'autorità imperiale che per cadere poi sotto il dispotismo di varii signorolti: in quella furono vittoriosi, ed in questa sconciamente battuti: l'effetto della prima fu l'avventurosa pace di Costanza; quello della seconda fu di dare ai capi dei varii partiti un'autorità illimitata e di far sì che in un gran numero di città succedesse il predominio di piccoli tiranni alla potestà dell'imperatore Federico II.

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Adiratosi questi sommamente contro Milano e le altre lombarde città collegate, perchè avevano partecipato alla

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ribellione del suo figliuolo Enrico, il quale da lui vinto spirò finalmente in un carcere della Puglia, si mosse da Verona contro la lega lombarda nell'anno 1236, e passato il Mincio si unì alle truppe di Cremona, di Parma, di Modena e di Reggio; ma per gravi contrasti che gli nacquero, trovatosi nella necessità di partire per la Germania, lasciò alla testa delle schiere imperiali in Italia quell'Ezzelino - III, che acquistossi colla sua tirannide una funesta celebrità. L'anno dopo, cioè in agosto del 1237, Federico calò nuovamente nell'italiana penisola alla testa di due mila cavalieri, a cui si unirono presso Verona dieci mila Saraceni, ch'egli avea chiamati dalla Puglia: si avvicinò a Mantova, che se gli sottomise, e prese Montechiaro con altri castelli del territorio bresciano. Il nostro conte Amedeo IV giudicò di andargli amicalmente incontro, e di offerirgli un buon nerbo de' suoi militi; locchè piacque tanto a Federico che gli chiese la mano di sua figliuola Beatrice vedova del márchese di Saluzzo per Manfredi suo figlio naturale, a cui promise la Lombardia da stabilirsi in regno, ed anche il regno di Arles e di Borgogna; it che si ridusse quindi al reame di Sicilia e di Puglia. Federico intanto dal territorio bresciano si avanzò in sulle sponde dell'Oglio sino a Pontevico, ove passò il fiume, quasi volesse andare a quartieri d'inverno in Cremona. Così credendo le truppe di Milano, Vercelli, Novara ed Alessandria, le quali erano sotto il comando di Arrighetto da Monza, si erano mosse prontamente contro l'Imperatore, tragittarono anch'esse il fiume per tornarsene alle loro patrie attraversando il Cremasco: giunte a Cortenova si videro prevenute dagl'imperiali: sostennero esse per qualche tempo con mirabil coraggio l'urto degl'imperiali, ma furono alla fine pienamente sconfitte; e una sola loro compagnia detta dei Forti, che custodiva il carroccio, rimase ferma insino alla notte. Non isperando di poter la domane difendere più a lungo il sacro carro, e di trasportarlo per le strade divenute molto fangose a cagione della dirotta pioggia caduta in quel giorno, lo spogliarono di tutti gli stendardi e di tutti gli ornamenti; e confusolo insieme colle bagaglie da lore lasciate sul campo, si misero in cammino fra le tenebre notturne. La mattina

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Federico scuoprì il carroccio, fecelo condurre in trionfo a Gremona, e di là a Roma, ove fu deposto in un recinto del Campidoglio. Le lettere pompose con cui egli accompagnò questo suo trofeo al senato ed al popolo romano si possono leggere nel lib. 2 della raccolta delle lettere di Pier delle Vigne segretario dello stesso Federico. In alcune delle lettere di questo Imperatore, scritte da lui a' principi suoi confederati, ei parlò di questa sua vittoria in modo da far credere che la strage da esso fatta de' nemiei era tale, che in quel luogo non eravi terreno bastevole a seppellirne i cadaveri, soggiungendo che i prigioni erano in così grande numero, che tutta la città di Cremona non avea case sufficienti a capirli.

Tre grandi e principali città del basso Piemonte, cioè Vercelli, Alessandria e Novara, le quali concorsero a formar l'esercito milanese, cui l'Imperatore ruppe e mise in fuga parteciparono a quella memoranda sconfitta; ma tutto il Piemonte superiore dalla Sesia sino alle sorgenti del Po, delle due Dore, del Tanaro e dello Stura, ebbe la sorte di andar esente dai disastri di quella campagna, Le soldatesche di Milano, Vercelli, Novara ed Alessandria, che poterono sottrarsi alla strage di quella miseranda giornata, affretta→ ronsi a giungere ai confini del Bergamasco, ove, ben lungi dal trovare ospitalità, ricevettero i più mali trattamenti. Pietro Tiepolo, figliuolo del doge di Venezia, che era in allora podestà di Milano, e cadde prigioniero degl'imperiali, dopo aver gemuto per qualche tempo nelle carceri della Puglia, morì su d'un palco, vittima della crudeltà, ed anche dell'imprudenza di Federico, il quale ebbe poi a pentirsene.

Poco tempo dopo la vittoria di Cortenova Federico II, passato il Ticino ricevè l'atto di sommissione di Novara, Alessandria, Vercelli, e se ne venne trionfante in Torino nel mese di febbrajo 1258. Non si può esprimere nè la pompa onde fu ricevuto in questa città, nè la splendidezza con cui fu trattato dal conte Amedeo IV, nè l'allegrezza onde lo accolsero, e lo acclamarono i cittadini, che ebbero la contentezza d'averlo parecchi giorni fra le loro mura. Egli ben soddisfatto del conte e della torinese popolazione

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