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che nelle provincie di ampie e fertili pianure, dove non facea d'uopo di sì grande industria a farle fruttare, le città grandi si trovavano più frequenti, perchè gli uomini, non forzati dalla necessità a sudar del continuo sulle glebe, s'inducevano naturalmente a congregarsi insieme, per godervi più agi e più piaceri. Oltrecchè, la fertilità del paese essendo per se stessa unita_coll'aere più mite, e col clima più tiepido e molle, gli uomini vi sono ancora naturalmente più inclinati all'ozio, ed alla vita effeminata e voluttuosa. Cotali erano i popoli Campani. Ma l'Etruria e l'Umbria, paesi meno caldi della Campania, e meno freddi e più fertili del paese. Latino, Sabino e Sannitico, ritenevano in parte il naturale degli uni e degli altri: e siccome alcuni de' popoli Umbri e Toscani abitavano ancor essi a borgate, così vi avevano non di meno grandi e frequenti città.

Nè già per questo nelle fertili provincie dell'Etruria · si trascurava l'agricoltura. Chè quella nazione fu eziandio celebre per questo riguardo negli antichi tempi, e sembra che appena ne cedesse il vanto a' Sabini, coltivatori senz'alcun dubbio celebratissimi, come si scorge dal lib. 2 delle Georgiche di Virgilio. Del rimanente il vivere di quelle che si chiamavan città, diciamo ancora delle più popolose e principali, non era così opposto alla vita rustica, come ai tempi nostri. Esse erano piuttosto simili a' nostri villaggi (eccettuata la differenza del numero degli abitanti), dove si confonde il rustico col civile; e i terrazzani, uscendo a' loro vicini campi, ne rimenavano la sera entro al recinto delle case il lor bestiame, e le biade, e i frutti raccolti. If che era a quei popoli tanto più necessario, in quanto che essendo quasi del continuo impacciati in qualche guerra coi vicini, troppo importava loro il ritirare dentro alle mura della terra e biade e bestiami. Le case essendovi per lo più umili, anguste, e non regolate da altro disegno, che dalla sola necessità di albergarvi, non si tralasciava di coltivare ogni piccolo spazio di terra che fosse vacuo. Donde ancor ne nasceva, che talvolta una città assediata poteva sostentarsi non pur colle biade già raccolte, e col frutto delle pecore e di altri animali, ma con quello ancora che raccoglievasi dal seminare che si faceva entro alle mura, e durar

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così i lunghi mesi e gli anni interi. Nè di poco rilievo era nelle stesse città l'opera delle donne, le quali facendo domesticamente gran parte di quegli uffizii che or sogliono farsi dagli uomini, rendevano molto maggiore il numero delle persone che potevano attendere alla milizia, ed alle faccende esterne della coltivazione e del commercio. L'arte della lana, che allora dovea supplire a tre o quattro delle arti che oggidì occupano tanto numero d'uomini, come fanno tutti i lavori della seta, dei lini e de' cotoni, era a que' tempi un affar domestico non meno delle femmine, che delle nobili matrone; costume che si mantenne in Italia assai tardi, poichè sappiamo da Svetonio che Cesare Augusto usava di non vestir altre robe, che quelle che gli lavoravano in casa le sorelle e la moglie. In Roma medesima sino all'anno 580, quando già ella era la maggiore e la più agiata delle italiane città, non eravi ancora chi facesse proprio mestiere di fornajo o panattiere; perocchè queste opere si facean dalle donne, come si usa nei nostri villaggi og→ gidì. Non è difficile a computare quante centinaja d'uowini robusti s'impieghino in somiglianti faceende nelle città capitali dell'età nostra, che contino tre o quattrocento mila abitanti, come contava per lo meno Roma in quel tempo; e se si aggiungano e i cuochi e i tavernieri, mestiere poco noto alla più parte degli antichi, e tutta quella moltitudine d'oziosi famigli che occupano le sale de' gran signori, questa sol basterebbe a far un esercito poderoso, o a popolare e coltivare un vasto contado. Del resto grande era l'industria ed indicibile la fatica, con cui si traeva dal seno delle terre anche più ingrate e più sterili, notabil copia di vettovaglie; e la qualità dei cibi che si usavano, e la modestia e semplicità del trattare, per cui la massima parte delle persone impiegar si poteva all'agricoltura. Negli abitanti delle pianure, quantunque il terreno fosse naturalmente fecondo, pure non si rallentava la diligenza del coltivare; nè i montanari tralasciavano la coltura delle loro roccie, per quanto sterili fossero ed ingrate. I Sibariti, per esempio, col vantaggio che seppero trarre dai due fiumi Crati e Sibari che bagnavano il lor contado, vennero a tanta opulenza, che poi la loro vita deliziosa passò in proverbio. E quel che par

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rebbe cosa incredibilé a' nostri tempi, vollero piuttosto dividere coi forestieri, cui chiamarono a parte del loro stato, che lasciar in abbandono le terre, o coltivaple con trascuraggine, come si fa per l'ordinario da chi ne possiede ampie tenute: talmente si aveva per fermo in quell'età, che la ricchezza e la potenza di uno stato consistessero nel molto numero degli abitanti; e che per mantenerli giovașse principalmente il promuovere in ogni modo l'agricoltura. Pieni sono i libri di queste voci, che ne' vetusti tempi la vita rurale non toglieva nobiltà e grandezza; e si hanno molte prove per mostrare che tra gl'itali e tra i greci il nobile, il grande, il magistrato, al paro degli uomini privati e plebei, attendevano alla coltivazione dei loro campi, e vivevano assai comunemente di cibi semplici : nè i capitani si nodrivano negli accampamenti in più delicata guisa, che gli ultimi fanti. È noto che gli ambasciadori d'un gran Re furono a visitare e offrir doni e tesori ad un generale dei romani, mentr'egli stava tranquillamente al suo piccolo focolare cuocendo rape per la sua cena. Catone il Vecchio venne lodato singolarmente, perchè essendo pur uomo di tanto affare in una repubblica già signora dell'Africa e dell'Europa, a somiglianza di Curio e di Fabrizio si travagliasse al pari, e mangiasse ad un medesimo desco co' suoi servi. Poteva ciò veramente recar maraviglia ai Romani del tempo di Silla, di Cesare ed Augusto, già altamente immersi nelle delicatezze e nel lusso; ma Catone nato ed allevato nel Tusculo, potè ritener gran parte dei costumi ch'erano poco prima comuni a tutti i popoli del Lazio...

Or non è dubbio che cosiffatti costumi non solamente agevolavano i mezzi di sussistenza alla numerosa popolazione, ma ancora servivano ad accrescerla in infinito; perciocchè in quel tenor di vita che si è mostrato qui sopra, non che fosse frequente, ma non era quasi possibile il celibato, e la stessa vita dura e faticante rendeva sì le donne che gli uomini più generativi.

Del resto, oltre i prodotti dei terreni così diligentemente coltivati, pel mantenimento della crescente popolazione, avevasi ancora il vantaggio del commercio marittimo; ed a questo proposito è assai notevole che i Romani, i quali ap

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pena dopo quattro secoli cominciarono a possedere luoghi marittimi nel Lazio, sin dall'anno 244 avessero porti e fondachi nell'Africa. Perciocchè fin dal primo consolato di Giunio Bruto e Valerio Publicola erasi fatto un trattato colla repubblica di Cartagine a vantaggio dei Romani, e dei loro collegati di Ardea, Anzio, Laurento, Circe, Terracina, e di altri popoli latini, affinchè potessero negoziar nell'Africa immuni da ogni gabella e dazio, toltone la mercede del segretario e del banditor della piazza. (Polib. lib. 3).

Certa cosa è, che se le nazioni dell'antica Italia non praticavano quel vasto commercio che fecero in altri tempi altre genti, fioriva tuttavia presso loro il commercio quanto era opportuno perchè ogni parte di lei potesse procacciarsi non pure il necessario, ma ben anche l'utile e il delizioso secondo le facoltà di ciascuno. Dai porti del mar Tirreno trafficavasi specialmente nella Sicilia e nella Sardegna, ambedue fertilissime e popolose avanti che le guerre tra i Cartaginesi e i Romani le devastassero; e si trafficava ben anche nelle spiaggie dell'Africa e dell'Egitto, donde poteasi ritrar frumento con facilità, ed altri capi di merci, qualunque volta, o per colpa degli uomini, o per natural vicissitudine degli elementi mancassero i viveri alle città italiane.

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Dalle anzidette riflessioni si può agevolmente dedurre che non è esagerata la rassegna di settecento mila fanti, e di settanta mila cavalli, raccolti, secondo che afferma Polibio, dai Romani e dai loro alleati, per opporsi all'impeto dei Galli e dei Taurini in quella lotta terribile; tanto più che intorno allo smisurato novero delle popolazioni d'Italia, che fiorivano in que' tempi, e per cui si potevano da esse ragunare eserciti poderosi, si accordano i più dotti scrittori non che d'Italia, ma eziandio di altre nazioni; ed invero il celebre David Hume nel suo discorso sul numero degli abitanti tra alcune antiche genti, quantunque si mostri inclinato a credere, ed anzi procuri di mostrare non essere stato il mondo antico sì pieno di abitanti, come stimasi volgarmente, si vide costretto di fare in quel suo discorso quasi una continua eccezione riguardo all'Italia, la quale egli consente che ne' primi tempi della romana repubblica do

vesse essere popolatissima sopra tutte le antiche provincie; e vuolsi osservare che Polibio annoverando i tanti armati raccolti allora da tutta Italia, intese di parlare di quella Italia che si stendeva sino all'Arno e al Rubicone, dopo che i Romani avevano conquistato il paese de' Senoni tra i fiumi Esino e Rubicone, mentre dianzi non si stendeva di qua dall'Esino ed Arno, onde i Sarcenati, e una parte degli Umbri prima di quella conquista si consideravano come fuori dell'Italia.

IV.

Continuazione e fine di questa guerra gallica.

Innanzi tratto vuolsi riferire una particolarità, che onora sommamente i Taurini, valorosissimi nostri antenati. Polibio descrivendo l'ordine dell'esercito dei Galli disposto per questa memoranda lotta in modo che formava due fronti dice che alla testa di esso eranvi i Taurisci, cioè i Taurini e i popoli che abitano di là del Po. Questi popoli erano i Libici, e i Levi, cioè i Vercellesi, Novaresi e Pavesi. Certamente gl'Insubri erano posti dietro ai Gesati, o Gessati, i quali formavano il retroguardo. Nondimeno si potrebbe da taluno dubitare se i Taurisci nominati da Polibio, sieno veramente i Taurini, oppure altri alpini popoli. Il dubbio si scioglie dallo stesso Polibio, il quale prima di descrivere la guerra de' Galli, viene a trattare della situazione del luogo, non che de' popoli gallici stabiliti in Italia, e dopo aver parlato generalmente della fertilità e popolazione dell'Italia, dice che i Galli appellati transalpini abitano le alpi che sono volte a settentrione, ed al Rodano; ma dalla parte di esse alpi riguardanti le itale pianure, abitano i Taurisci, gli Agoni, ed altre barbare genti. Gli abitatori delle alpi settentrionali, che riguardano il Rodano, erano i Viberi, i Seduni, i Veraghi, ed alcune altre genti. Dalla parte opposta, cioè dalle alpi riguardanti l'Italia, v'erano appunto i Taurisci, che tutti così indistintamente son da Polibio nomati, ma dagli altri autori si distinguono coi loro nomi particolari di Taurini, Salassi e Leponzi: i Leponzi ed i Salassi erano anche Taurisci, come afferma Catone presso Plinio

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