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lib. 3, cap. 20. Gli Agoni abitavano alle radici delle alpi dei Leponzi tra il lago Verbano, e quello di s. Giulio. Inoltre Polibio nel rammentare questi popoli, tenne l'ordine di sito da ponente a levante: così pure nel descrivere i Galli della pianura transpadana, nominò prima i Lai, poscia i Libici, quindi gl'Insubri, i Cenomani, e finalmente i Veneti: laonde avendo prima degli Agoni nominato i Taurisci, dobbiam questi ricercare al ponente degli Agoni, e sono appunto i Salassi, e i Taurini, ch'egli indistintamente appellò Taurisci. Ma egli è certo, che sotto questo nome sempre s'intesero principalmente i Taurini, i quali erano i popoli più possenti e i più celebri della gente Taurisca stabilita nella nostra penisola. Infatti lo stesso dottissimo storico descrivendo la discesa di Annibale in Italia, designò i Taurini col proprio loro nome di Taurisci, onde dimostra, che anche in questo luogo egli comprese principalmente i Taurini. Le altre genti che dopo i Taurisci e gli Agoni ei nominò, erano i varii popoli degli Euganei, e dei Reti. Non puossi adunque dubitare che in quell'esercito de' Galli vi erano certamente alla testa i Taurini.

Tolto di mezzo un tal dubbio, proseguiamo la narrazione delle vicende di quella terribilissima lotta, di cui furono tanto gravi le conseguenze. I Galli, i Taurini, e gli altri loro confederati, come s'è detto qui sopra, avendo dovuto anche troppo fermarsi nell'Etruria, avean dato ai Romani assai tempo ed agio di richiamare le truppe che si trovavano in lontane regioni, e di raccogliere intanto numerose squadre nei paesi vicini; sicchè pervennero avvisi ai Galli che il romano pretore con grandi forze già trovavasi al confine della Toscana; epperciò mossero contro di loro con grande celerità; ma perchè le forze del nimico erano grandi, ricorsero alle astuzie, e simularono la fuga; sicchè il pretore, credendo che i Galli impauriti volessero evitare lo scontro, raccolta tumultuariamente l'oste sua, seguì la traccia dei fuggenti cavalli ; ma giunti i Romani già stanchi, fuor d'ordine e di lena colà dove i Taurini ed i Galli schierati ed ordinati, in sito vantaggioso, ed alle insidie opportuno li aspettavano in agguato, ritrovossi il pretore ravviluppato ed il suo esercito da ogni parte percosso. Sei mila Romani

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caddero morti sul campo, e vi giacque anche il pretore; moltissimi di essi furono fatti prigioni; gli altri malconci salvaronsi appena colla fuga. Se non che quelli de' Romani che poteron campar dalla strage, si rannodarono poscia, e si munirono sopra di un clivo assai proprio a fare una gagliarda difesa. Ardevano i capi dei Gallo-Taurini del desiderio di compiere la vittoria con un subito assalto; ma l'avidità che avevano i soldati di raccogliere il bottino, ricco di danaro, di anelli d'oro, di armille, d'armi, di cavalli; e la necessità di dar riposo alle squadre affaticate dal corso, dalla veglia e dalla pugna, li fece risolvere di soprassedere all'assalimento, e di circuire intanto il colle con un buon presidio di cavalli per custodirlo la notte, con animo di di assaltar gli assediati nel far del giorno, se non si davano vinti. Ma nelle belliche opportunità ogni piccolo indugio è un grande errore. Diffatto mentre dormono i Galli ed i Taurini, non dorme il console Emilio, che col fresco esercito della Liguria veniva seguendo le orme de' suoi nemici ; e poco lungi da quel colle la stessa notte si accampò. Questi era quell'Emilio ostinatissimo, autore della legge agraria e della guerra, epperciò risoluto di sostener l'una e l'altra, o di perire. Giungeva in quel frattempo dalla Sardegna un numeroso corpo di soldati romani condotto dal console Attilio Regolo, antenato dell'altro dello stesso nome, che tanto è celebre nei fasti della sua patria. Quel console era venuto frettolosamente in seguito ad un ordine premuroso del senato. Emilio, desideroso d'ingaggiar la pugna, si appostò co' suoi alleati dietro al retroguardo, che era formato dei transalpini Gesati, i quali perciò trovatisi tra due romani eserciti, si divisero per far fronte ai nemici. I Taurini ed 'i Boi mossero contro il console Attilio, che accelerando le marcie, avea potuto giungere a tempo per salire il colle Telamone. L'impeto dei Taurini fu tanto mirabile, che superato il colle essi ne scompigliarono i Romani, ne uccisero la maggior parte, e trucidarono lo stesso console, di cui portarono la recisa testa nel proprio campo per presentarla ai loro condottieri. Polib. lib. 2.

Ma non fu simile a se stessa la fortuna nell'altra parte agli Insubri, seguiti dai Gesati: siccome questi ultimi

volean sempre spingersi avanti, e combattevano senz'armature, con grandi urli e lunghi dardi, e con piccoli scudi, così l'accorto console Emilio oppose loro i saettatori, che di lontano bersagliando quei vasti corpi, ignudi e mal protetti, co' folti nembi di strali, facean loro così spesse ed irreparabili ferite, che i morti cadean sopra i feriti; ed i feriti urlando, o fuggendo verso gl'Insubri, turbavano gli ordini, atterrendoli con la vista di tanto sangue; o disperatamente lanciandosi semivivi addosso a' nemici, erano da questi facilmente uccisi. Accorsero adunque gli animosi Taurini ed i Boi a sostenere la pugna: si accese un conflitto, di cui niuno era stato fra essi più atroce, nè più generoso; combattendo gli uni e gli altri per odio reciproco. Grande svantaggio ebbero i Romani, mentre si combattè con giusto intervallo tra l'una e l'altra oste: perocchè i Galli di grande corporatura, adoperando le lunghe, pesanti ed ottuse spade facevano grande strage de' nemici; ma venuti più da presso alla mischia, i Quiriti più agili e più coperti da grandi scudi, facean nelle viscere de' nostri con corte ed acute spade più spesse, profonde ferite, e con minor sangue più morti. Sopravvenendo intanto tutta la romana cavalleria, tempestò in tal modo sopra i nemici già stanchi, che la pugna si cangiò in una miserabile carnificina. Quaranta mila Galli furono uccisi, e dieci mila fatti prigioni, uno dei quali fu l'infelice re Congolitano. Il re Aneoresto con alcuni pochi fuggito in un poggio poco discosto, vedendosi venire addosso i vincitori, infierendo contro se stesso si uccise. Per tal modo si conobbe che gli umani consigli acquistano dagli umani giudizii la lode o il biasimo dell'evento. Il re Aneoresto avea dato il consiglio di ricondurre il bottino della prima vittoria nelle terre della Cisalpina; questo consiglio fu primamente da tutti lodato; e dopo l'esito dell'ultima zuffa, fu biasimato; ed Emilio per aver promosso la pubblicazione della legge agraria, ricevette subito il rimprovero universale; e dopo l'ultimo avvenimento fu da tutti celebrato, per aver partorito a' Romani una tanto splendida vittoria. Emilio adunque vincitor di due Re, e di un esercito invitto, sciolse le catene a' cavalieri e alle matrone toscane, ricuperò la preda, restituendola

a' suoi padroni, e portò in trionfo le spoglie de' Galli nel tempio di Giove Capitolino; e quivi ancora per ischerzo del destino si adempiè il voto del gallico duce Britomaro; perchè avendo questi giurato di non deporre il cingolo militare, se non entrato nel Campidoglio, ivi lo depose, entrandovi fra i prigionieri.

Non sembrò per altro nè al senato, nè al popolo romano compiuta questa vittoria, finchè di qua dalle alpi respiravano ancora i Boi, gli Insubri ed i Taurini vinti sì, ma non abbattuti. Elessero pertanto due consoli, fieri nemici del gallico nome, cioè Q. Fulvio Flacco e T. Manlio Torquato, i quali stimando rubato ai Romani tutto ciò che i Romani non avean rapito agli altri, con fresco e numeroso esercito s'introdussero nelle terre de' Boi, ai quali, non ancora ristorati della sconfitta di Telamone, giunsero piaghe a piaghe, spopolandone le ville, e mettendone in fiamme le case; a tal che in breve costrinsero i loro capi a porre il collo al giogo di Romolo, e a dar per ostaggi della pubblica fede i più potenti e doviziosi fra di essi. Altrettanto volean fare a danno degli Insubri e dei Taurini; ma le dirotte pioggie e l'aria corrotta da pestiferi effluvii consigliarono i consoli di ritornarsene a Roma.

Se non che l'anno seguente i Romani avendo eletto due consoli più fieri degli antecessori Cajo Flaminio Nipote e Publio Furio Silò, li mandarono con le più fiorite legioni ad esterminare gl'Insubri ed i Taurini, nei quali tutto il gallico valore, come nell'angolo estremo dell'Italia, omai stava raccolto: erano questi assai più temuti degli altri Galli dai Romani, i quali di loro solean dire, che avevano animo di fiere e corpi più che umani. Ma quando i due consoli furono vicini all'eseguimento degli ordini, gli Auguri interdissero a Flaminio il venir contro ai Galli alle mani, protestando che alla elezione di que' consoli le vittime - erano state funeste, e gli auspicii avversi. Laonde il collegio degli Auguri ed il senato scrissero a Flaminio di ritornarsene subito a Roma, di deporre le armi e di rinunziare al consolato, acciocchè si facesse una nuova e più legittima elezione. Ma Flaminio mostrandosi spregiatore degli Auguri, disse che era sempre ottimo augurio il combattere per la patria; e

superate molte difficoltà obbligò gli Insubri a chiedere la pace: Flaminio, che avea l'ostinazione per gran virtù, ricusò di concederla; sicchè questi soprammodo incolleriti giurarono di avventurare contro ai Romani le vite, i beni ed ogni cosa profana e sacra; e portando seco per proprie insegne i simulacri d'oro, che dal tempio di Minerva non si muovevano fuorchè nei casi disperati, andarono intrepidi a provocare il romano esercito. Più forte assai di quello dei Quiriti era l'esercito degli Insubri, eccedendo cinquanta mila combattenti, il cui capo Astrionico avea fatto voto di appendere al suo Marte la collana di qualche romano campione: Floro lib. 2, cap. 4. Astrionico si presentò davanti ai Romani con tanta celerità, che Flaminio, non avendo spazio nè di tempo, nè di luogo da tirar le sue squadre in sito più vantaggioso, si trovò costretto a schierarle tra l'oste nemica ed il Po, presso il luogo ove l'Adda mette capo in quel fiume, con sì breve intervallo dalla sponda, che in una gran pressa non potevano dietreggiare d'un passo senza annegarsi: ciò non di meno Flaminio, dichiarato sacrilego per non aver voluto prestar fede agli Auguri, combattendo contro a' più forti, contro l'arte e contro gli auspici, riportò la vittoria. Vero è per altro che quella vittoria sembrò men dovuta al valor di Flaminio, che alla prudenza de' tribuni. Questi avean veduto e ben considerata la maniera del com-battere de' Galli con le pesanti ed ottuse spade, e con brevi scudi; avevano inoltre osservato l'indole di quella nazione, la quale pugnando piuttosto con impeto, che con senno e ragione, presto s'accendono e raffreddansi presto; e rattiepidito lo sdegno illanguidiscono; a tal che dei Galli dicevano i Romani, che nel primo assalto son più che uomini, nel secondo son men che femmine, insegnarono a maneggiare contro di loro a principio le lunghe aste, ciò che faticando essi nel frangerle con le pesanti spade consumassero quel primo loro bollore, e dappoi, gittate le aste e tratte le corte spade, venendo alle strette, li trafiggessero ne' fianchi e nel ventre; e secondo il savio consiglio de' tribuni seguì l'effetto; perocchè, secondo Orosio lib. 4, cap. 43, nove mila Galli lasciarono sul campo la vita, diciassette mila furon fatti pri-gioni, tra i quali si noverò il principe Astrionico. Grande fu

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