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eini, gli diede inoltre Cavoretto, Castelvecchio e Moncalieri col ponte e colle torri di esso: dall'altro lato gli diede Collegno, Lanzo, Ivrea col Canavese, quantunque della più parte ne fosse signore il vescovo di quella città, e già sin dall'anno 1227 la tenesse in feudo il marchese di Monferrato; e per non tacere di altri donativi fatti poscia al principe Tommaso dallo stesso Imperatore, rammentiamo che questi, addì 12 novembre del 1248, trovandosi in Vercelli, gli donò varie terre del Vercellese in odio dei monferrini marchesi, che sovr'esse avevano già troppo dilatato il loro dominio; e nel dicembre del seguente anno volle assegnargli ancora i pedaggi regali in Savoja ed in Piemonte, e indi a poco il castello di Montosolo; nè a tutto ciò stando contendo volle confermargli il titolo di conte ch'egli aveva ricevuto in Fiandra, e lo fece suo vicario imperiale in Italia dal fiume Lambro in su; ond'ei si denominò poscia Tommaso conte di Piemonte per distinguersi dal conte di Savoja Tommaso 1 suo padre, con cui tuttavia lo confusero parecchi scrittori, Ma vedremo in appresso che era molto più facile ai cesari il donare i paesi ai principi loro vassalli, che nol fosse a questi il mettersene al possesso ed il conservarli.

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In questo mezzo tempo il papa Innocenzo vieppiù sdegnavasi contro Federico: appena che egli era giunto in Lione, di propria bocca predicando nella chiesa cattedrale di quella città, aveva intimato quivi un general concilio, e citava Federico a comparirvi. Raunato quel concilio, si disputò fortemente intorno a tredici articoli di delitti che si apponevano all'Imperatore, il quale, tosto che ne fu fatto consapevole, mandò per iscusarsene i suoi ministri,. fra' quali era l'eloquente Pier delle Vigne. Niuna difesa, nè scusa trovarono i padri che buona fosse. Andarono anche invano tutte le cure che si prese il santo re di Francia per riconciliare insieme Cesare ed il Papa, le cui discordie recavano infiniti mali alla cristianità. Federico II, quando fu citato da Innocenzo a comparire al concilio di Lione, si condusse a Torino forse per far intendere al Papa, che mettevasi in viaggio per obbedire alla fattagli intimazione. Ricevette al suo arrivo in questa città la più bella accoglienza così dal Principe, come dal clero e dal popolo; ed egli se ne mostrò

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sommamente soddisfatto e contento; ma la sua contentezza
cessò quando un legato del Papa venne qua a renderlo av-
vertito che nel concilio di Lione erasi pubblicato contro di
lui la sentenza di scomunica e di deposizione dal trono; e
che in conseguenza si ribellavano a lui ed al suo figliuolo
Corrado già coronato re dei Romani, i principi d'Alemagna,
e stavano per eleggere a nuovo re un Arrigo Landgravio di
Turingia. Appena Federico ricevette l'annunzio della sentenza
pronunciata contro di lui, parlò agli amici che gli stavano
d'intorno in questa sentenza: H Papa nel concilio pensa
d'avermi fatta cader di capo la corona; essa non m'è certa-
mente caduta; anzi io adesso mi trovo in istato migliore di
prima; perchè insino ad ora io pur era tenuto di prestargli
ossequio ed obbedirgli in alcuna cosa; ma egli stesso volle
ora sciogliermi da ogni vincolo d'obbedienza, di venerazione
e di pace.
Da quel di Federico pose ogni studio nel cer-
car argomenti di nuocere al Papa. Per alienare dall'amicizia
di esso tutti i Principi, loro scrisse lettere piene d'ira e
di detrazioni e di calunnie non solo contro il Pontefice, ma
eziandio contro tutto l'ordine sacerdotale. In Torino, ove si
crede che allora sia rimasto oltre ad un mese, o per gra-
titudine degli onori fattigli poc'anzi, o per averne il Prin-
cipe ed i cittadini favorevoli a' suoi disegni, non lasciò, par-
tendo, alcun vestigio della sua collera, nè della sua barbarie;
ma ben altramente si comportò quindi verso le città lom-
barde, che se gli mostrarono avverse. Frattanto due cardi-
nali legati furono dal Papa spediti in Puglia ed in Sicilia a
pubblicar la sentenza del concilio di Lione e bandir la croce
contro l'Imperatore, il quale per soprappiù di disgrazia ebbe
l'infausta notizia, che la città di Parma, che poco innanzi
era venuta nelle sue mani, erasi pienamente sottratta al suo
dominio dopo averne scacciato ed ucciso Arrigo Testa, che
ivi comandava a suo nome. Federico adunque accorse furi-
bondo col più che potè delle sue genti a campeggiar Parma,
affinchè i nemici, fortificandosi in quella parte, non gli im-
pedissero la comunicazione con Modena e Reggio, e con altre
città ghibelline di Toscana. Per poterla durare con più agio
nell'assedio di Parma, Federico si fortificò nelle vicinanze
fondandovi una gran bastita con torri e fossi e case di le-

gname a guisa di città, cui diede il nome di Vittoria, come per buon augurio dell'esito di quell'impresa. Uscito egli fuor di Vittoria con molti suoi baroni e famigliari per andar nella vicina campagna a cacciare, di che ei molto si dilettava, i Parmigiani assaltarono improvvisamente con tanto vigore da più parti le genti imperiali, che tutte le misero in fuga. La famosa bastita, o città di Vittoria, fu presa con tutte le vettovaglie, col ricco vasellamento dell'Imperatore, e col ferro e col fuoco fu abbattuta e ridotta in cenere.

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Pel fiero caso di Parma, Federico alquanto umiliato, e rinnovate inutilmente al Pontefice le istanze per essere ribenedetto, partissi di Lombardia; e lasciati in Toscana nuovi segni della sua rabbia contro la parte guelfa, se ne andò nel regno, dove non fece imprese di alcun rilievo; ma Enzo, suo figliuolo naturale, da lui creato alquanto prima re di Sardegna, lasciato suo vicario in Lombardia, venne a battaglia co' Bolognesi, dai quali fu vinto e fatto prigione. 'Niuna offerta o minaccia che facesse il padre per liberarlo, potè muovere i Bolognesi troppo lieti e boriosi di avere un così ragguardevol prigioniero. Il rammarico e l'onta di vedere in quel misero stato un suo figliuolo servì forse non poco ad accelerare la morte all'Imperatore, il quale assalito da una dissenteria nel castello di Ferentino o Fiorentino in Capinata di Puglia, morì senz'essere assolto dalle censure nel dì 15 dicembre 1250. Ricordano Malespini narra che Manfredi, altro figliuolo naturale dell'Imperatore, volendo impadronirsi del suo tesoro, soffocò il padre col carico delle coperte, come a Tiberio fece Caligola; ma Ricordano era scrittor guelfo; e intorno alle vicende ed all'indole di questo Monarca bisogna temperare il male sommo che ne dissero gli storici guelfi col gran bene che ne scrissero i ghibellini, Gioanni Villani, dopo aver detto che molti fecero quistione chi avesse il torto delle discordie della chiesa con Federico, e di chi si fosse la colpa, o di Federico, o della chiesa, finisce con queste parole: « l'Imperatore ebbe il torto palese; e Iddio ne mostrò aperta e visibil vendetta sopra lui e la sua progenie dopo il suo malfare ». Tutti o la più parte dei guelfi scrittori, quali furono per l'ordinario i fiorentini, si accordarono col Villani, accusando Federico II d'irreligione.

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Dante colmò di lodi la munificenza di questo cesare verso le lettere; ma lo chiuse poi nel suo Inferno dentro un sepolcro ardente nel cimitero di Epicuro. Il poeta, dice il Perticari, non frodò Federico II della lode dovuta agli eroi; ma il punì ancora della pena debita a chi fu dispettoso alla religione e stimò l'anima morire col corpo.

Certo è che Federico diè leggi a tutto il regno di Puglia; e di Sicilia buone per quel tempo, ma che improntate di feudalità mantennero colà più a lungo che in altre parti d'Italia il feudalismo. Ivi costrusse varie fortezze; ed una principalmente ne edificò in Napoli; ove fondò eziandio uno studio generale, che pareggiasse l'università di Bologna fondata più d'un secolo prima; gli piacquero smisuratamente le donne, e sfogò con parecchie di esse la sua libidine; amò la poesia; favoreggiò i poeti che verseggiavano in lingue romanze o volgari, e scrisse egli stesso alcuni versi nella lingua nostra che allora sorgeva. Non v'ha dubbio che Federico sortì dalla natura grandi facoltà; le quali furono appunto quelle che facendolo più pericoloso, il fecero più odiato fu uno di quelli che sprecano i talenti, l'attività, la fortuna propria contro l'onnipotenza dell'opinione dei più.

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Dopo i disastri e la morte dell'imperatore Federico II, nostro principe Tommaso fu sollecito a riconciliarsi con Innocenzo IV. Questo Papa volendo far ritorno dalla Francia in Italia, discese (1251) a Marsiglia, da dove per la via della Liguria venne a Genova; ed indi traversando una parte del Monferrato si condusse a Milano, ove stette due mesi. Molte città del Piemonte e della Lombardia gli mandarono a Milano i loro ambasciadori per fargli omaggio. Vi andarono da Torino il vescovo Arborio ed il conte Tommaso II, il quale non poteva a meno di essere indegnato contro quel vescovo, da cui era molto mal corrisposto, dopo averlo ajutato col suo danaro a potersi riscattare dalla sua prigionia. Gioanni Arborio presentossi in Milano ad Innocenzo IV per supplicarlo a far sì che Tommaso II gli restituisse tutti i possedimenti che diceva essergli stati rapiti; ed il conte Tommaso andò dal Papa per giustificarsi di certe accuse che gli erano state fatte, principalmente intorno alla riedi

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ficazione del castello di Montosolo, ed inoltre per essere prosciolto dalle censure, nelle quali si voleva che fosse incorso.

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Innocenzo IV diede al vescovo di Novara la facoltà di poterlo assolvere dalle medesime, ed insieme di convenire sulle differenze del vescovo di Torino col conte; ma pochi giorni dopo spedì una bolla al conte medesimo, esortandolo all'amichevole composizione di quelle fastidiose controversie; e finalmente delegò due cardinali perchè mettessero un fine ad esse. Il Papa sebbene vedesse la miglior causa essere dal canto di Tommaso II, tuttavia risolvette di far proferire una sentenza da due sommi prelati, i quali, esaminata ogni cosa, pronunciassero coll'appoggio di salde ragioni in modo che risultasse chiaramente la verità sulla proposta quistione. Ma il vescovo, che facea consistere tutto il valore delle sue pretensioni in alcune investiture, concedute per certe passioni ai vescovi suoi predecessori dai Cesari, pensò di dover prevenire la sentenza dei giudici eletti, e di farsi ragione con le armi del popolo. I Torinesi a quei tempi, e tutti gli altri popoli del Piemonte lasciavansi facilmente sedurre contro i principi di Savoja, sui quali si veniva inspirando una gran diffidenza per cagione del loro crescente potere: ora per altro, essendosi rimesse le cose al giudicio di gravi personaggi, la cui rettitudine toglieva ogni sospetto di parzialità, il nostro principe Tommaso, sarebbesi creduto tutt'altro del prelato suo avversario ma una gran forza ebbe sempre la cupidità di regnare per trasportar un uomo all'eccesso, tanto più se all'ambizioso non sembra del tutto irragionevole la sua pretensione. Ri¬ mase adunque attonito il conte Tommaso, quando, non ancor giunti da Roma i due giudici eletti, fu dai partigiani del vescovo ributtato violentemente all'entrare della città, come se non fosse più di suo dominio. Se ne dolse dunque amaramente Tommaso al Papa, il quale scrisse immantinente agli Alessandrini suoi devoti, per indurgli ad ajutare il conte a ripigliar colla forza ciò che per forza eragli stato preso, Senza frapporre indugi vennero gli Alessandrini in soccorso del conte, il quale, senza lo spargimento di molto sangue, ricuperò in breve non solo la città di Torino, ma più

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