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ai conti di Savoja di restituir quei castelli alla chiesa di Torino fra due mesi. I sabaudi Principi pienamente convinti che le pretensioni di Goffredo erano ingiuste, non posero mente all'ordine del Papa male informato; e furono perciò citati più volte a comparire davanti alla curia romana. Il vescovo Goffredo, sospinto dal suo desiderio di dominare sui predetti luoghi, non dubitando di allontanarsi per una siffatta causa dal gregge affidato alle sue cure, volle andare egli mede simo a trattare la propria causa innanzi al Papa, che allora soggiornava in Viterbo e si trovò infatti all'udienza di sua Santità, addì 12 ottobre dello stesso anno 1268, e fece caldissime istanze, affinchè contro i Principi di Savoja si procedesse subitamente in forma juris. Tutte queste sue istanze non ebbero l'effetto ch'egli sperava; la lite rimase ancora indecisa. Il vescovo di Torino sempre più agitato coglie l'occasione in cui papa Gregorio X viene in Piemonte avviandosi a Lione, ove aprivasi un concilio generale (1275), muove ad incontrarlo per via, si accompagna con la corte pontificia, e vassene anch'egli a Lione, e muove in quel concilio le sue questioni intorno ai possedimenti ch'ei pretendeva spettare alla chiesa torinese, ed erano tuttavia occupati dai conti di Savoja; ma non ebbero l'effetto da lui desiderato le istanze ivi mosse. Quando, dopo la morte di Gregorio X, e d'Innocenzo V, e di Adriano V, fu creato Papa, il 15 settembre 1276, Gioanni XXI, ecco il nostro vescovo abbandonare un'altra volta il suo gregge, ed andarsene a Roma per ottenere finalmente la sentenza della lite, che con tanta sollecitudine continuava contro i sabaudi Principi; ma nè anco questa volta ottenne il suo intento; perocchè il santo Padre altro non fece se non prorogare ai suddetti Principi il termine di due mesi, entro i quali essi dovessero comparire a difendere la propria causa innanzi a tre delegati in Piemonte.

Ora i nostri leggitori vedendo come tanto si travagliò questo prelato per conseguire il suo scopo, brameranno sapere se veramente dal suo canto stesse la ragione. A questo riguardo noi consigliati dai tempi che corrono, dalle presenti vertenze fra l'autorità ecclesiastica e la civil podestà, facciamo le seguenti osservazioni.

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Nei solenni comizi del regno italico tenuti dall'Imperatore Federico I in Roncaglia, i prelati non meno che i vassalli del regno cedettero all'Imperatore tutti i diritti che appartenevano alla maestà del Re, ossia a quella pubblica potestà di esercire tutto ciò che un libero popolo eserciterebbe nell'amministrazione della sua città: cosicchè tali sommi diritti del Re, e del regno chiamati allora regalie, si dichiararono proprii e perpetui seguaci della maestà del principe, come l'ombra lo è del corpo. I prelati che per la maggior parte più non possedevano tali regalie dopo le rivoluzioni delle città d'Italia, più non potevano muovere pretese per riaverle, massimamente perchè le libere città aspiravano troppo a riunirle al loro dominio, come diritti dipendenti dal signore territoriale. D'altronde nella pace di Costanza si rivocarono anche più espressamente gli antichi privilegi, che applicavano una volta ai vescovi la civil giurisdizione delle città e de' contadi, e non si lasciarono ai prelati ed alle chiese se non quei beni che erano compatibili coll'alta giurisdizione, colle regalie e coi diritti riconfermati alle città della lega dentro e fuori di esse, cioè in tutto il loro territorio, comitato o vescovado. L'ultimo articolo di un trattato che stipulossi in Asti nel 1246, addì 6 gennajo, relativamente alla giurisdizione dell'astese vescovo, si stabilì che il comune d'Asti già da alcuni anni avea fatto alcuni ordinamenti contro le pretese immunità del clero, cioè che i poderi acquistati da' chierici nell'astese territorio fossero soggetti al fodro, alla colletta ed a tutte le altre esazioni al pari de' beni posseduti dai laici; che nessuno del contado d'Asti potesse vendere beni stabili ai chierici, se questi non obbligavansi a sottoporli ai suddetti tributi; che il podestà d'Asti non dovesse più compellire alcuno pel pagamento della decima, se non per la metà di essa precisamente; che un cittadino, il quale fosse stato procuratore di alcuna chiesa pe' temporali interessi della medesima fosse condannato alla multa di sessanta soldi; che se un chierico chiamato in giudizio avanti il podestà, non ci fosse comparso, il podestà non potesse più rendergli ragione in quaJunque caso d'ingiuria, di danno e d'interessi di quel chierico. Il vescovo e i chierici ricorsero poi a Federico II af

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finchè si opponesse all'esecuzione de' sopradetti stabilimenti; e l'Imperatore ben conoscendo i diritti del comune d'Asti, non diè retta a que' ricorrenti, ed il comune continuò a farli eseguire, come risulta da successivi suoi statuti.

Da altri atti, di questo genere, conservati negli archivi d'Asti, possiam raccogliere in qual maniera si aggravasse tuttavia sopra una parte d'uomini lo spirito tirannico del dominio feudale, e qual fosse stata la specie di giurisdizione. de'vescovi e de' baroni sopra i loro uomini e vassalli: vi si vede che la giurisdizione de' vescovi, nel tempo della feu-. dale anarchia, non meno di quella dei sedicenti marchesi conti e castellaui rifletteva su questa specie di uomini, e sugli averi de'medesimi, e non propriamente sul territorio; che fu quindi un abuso ed un massimo errore, cui l'ignoranza, o l'inavvertenza de' passati secoli non diede un diritto di prescrizione, l'essersi trapiantata la servitù personale sui territorii, dopo che la prima erasi estinta o colla morte, o colla libertà delle persone; che fu parimente un abuso tollerabile soltanto ne' barbari tempi in cui nacque, l'essersi trasportato il diritto di proprietà d'un podere sopra chi veniva ad abitarlo, quasi che gli uomini ugualmente cedessero al suolo come cedono gli alberi e le case. Su cotesti titoli era unicamente fondata la civil giurisdizione dei vescovi e de' nobili sulla infelicissima schiatta d'uomini, cui essi tiranneggiavano. Al signor supremo o non conveniva porvi riparo, o nol poteva: il signor territoriale o non sapeva di aver ragione di rimediarvi, o non aveva forze bastanti per sostenere il suo diritto. L'abito inveterato dell'abuso, la superstizione e l'ignoranza avevano perturbato ogni ragione.

Comunque cotesti barbari titoli siano periti affatto verso il fine del secolo iv in un colle barbarie, da cui furono ingenerati, i pregiudizii ne presero in guardia le spoglie e le fecero rispettare. Essi quindi protetti dall'ignoranza della storia e de' costumi dei bassi tempi, furono ricevuti da passati scolastici giureconsulti, i quali, fondandosi anche più sopra documenti, che servono bensì a provare il disordine del sistema politico de' barbari secoli, ma non più la sorgente di quella civile giurisdizione cui speravano di far rinascere, confusero i temporarii personali diritti d'uffizio coi

diritti perpetui che passano nei successori, e le donazioni di cose e di signoria o simulate, o soltanto onorifiche coi titoli reali, che operano il loro effetto. La cessione di tante ville, di tante corti fatte dagli antichi imperatori ai vescovi ed alle chiese si riguardò, come un titolo pieno e perpetuo, che trasfondesse nel donatario tutti i diritti del cedente, tolto il supremo dominio, senza riflettere che tali cessioni o non mai, o ben di rado, o soltanto sopra alcuna di esse corti ebbero effetto; imperciocchè queste o non erano proprie del donatore, il quale per lo più le cedeva su la supplicazione che gli si presentava dal prelato senza saperne altro, od erano al tempo della cessione possedute da altri, da cui difficilmente potevansi strappare, o si cedeva solamente il diritto di riversione, quando ve ne era il caso, o per un simil titolo se ne acquistava alcuna comunque.

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Ora conviene osservare che l'anarchia feudale si mantenne in Piemonte più lungamente, perchè più tardi e con minori forze insorsero i comuni ad opprimerla; quindi i vescovi, i baroni, i castellani del Piemonte superiore, senza negare apertamente il supremo dominio dell'imperio e del regno d'Italia, opposero un immemorial possesso di libertà al diretto dominio che i re d'Italia e gli Imperatori ebbero una volta sulle terre di questa provincia, che perciò divennero allodiali. Ne i vescovi di Torino ed Asti, nè gli altri prelati del Piemonte ebbero giammai una giurisdizione territoriale. In quella tumultuosa anarchia i diritti ch'essi vantavano erano ugualmente prescritti dal possesso diretto e dalla forza dei castellani e de' piccoli comuni, e non bastavano a reintegrarli i nuovi diplomi degli Imperatori, la debolezza dei quali ed il tumulto universale assicuravano abbastanza i possessori. Così l'imperatore Federico II con diploma del 1.o marzo 1219 dichiarava nulla l'alienazione del castello di Montosolo fatta dal vescovo di Torino al comune di Chieri, perchè il pretendeva feudo dell'imperio, e perchè l'alienazione era seguita senza il consenso di Cesare i Chieresi seguitarono a ritener Montosolo, e più non fuvvi quistione sopra di questo luogo.

Il comune di Chieri andò poco a poco tralasciando tutti i riguardi, che per le cose temporali dimostrava per l'ad

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dietro almeno in apparenza ai vescovi di Torino: riconobbe che i pretesi loro diritti ebbero alcuna forza in tempo della feudale anarchia, ma che erano veramente periti insieme con essa. Quindi ne' suoi trattati più non si curava di riservare tra' suoi nemici la persona del vescovo. Così in un atto del 51 di luglio del 1255, col quale dava la cittadinanza ai castellani di Baldissero, di Montalto, di Pavarolo e di Marentino, sottomettendo quei nobili al suo dominio, il podestà e giudice non fa neppur cenno del torinese vescovo; e intanto il comune si pose affatto sotto la protezione dell'Imperatore, e si liberò così dalle obbligazioni e società contratte colla chiesa di Torino e colle vicine comunità, come ricavasi dalle lettere di Federico II, gli originali delle quali conservansi nell'archivio di Chieri.

In queste lettere, di cui abbiamo sott'occhio esattissime copie, l'Imperatore ci fa sapere che aveva eletto Chieri per camera sua particolare e per camera dell'impero, locchè vuol dinotare, a nostro avviso, il fuogo dove avea stabilito la sua tesoreria per i proventi regii di questa provincia. Così andarono a finire i diritti del vescovo di Torino e dei conti di Biandrate sopra di Chieri; nè questi pretendenti più osarono di richiamarli, ancorché nel lungo interregno dopo la morte di Federico il popolo di Chieri sia ritornato a governarsi da se con eleggersi i suoi podestà: esso non potea far di meno in quella dissoluzione universale, vieppiù accresciuta in questa parte d'Italia dopo l'elezione di Alfonso re di Castiglia a re dei Romani, e tanto più dopo che questi dichiarò nel 1271 suo vicario in Italia il marchese Guglielmo di Monferrato. Le interne discordie delle città e dei comuni aumentarono allora i tumulti e le guerre, e si andavano così abbassando l'orgoglio e le pretensioni ingiuste de' feudatari ecclesiastici e laici. Fatto è che il comune di Chieri sul fine del secolo xi e sul principio del xiv si era posto in tale indipendenza, che occupava anche il diretto dominio dei feudi, de' quali i vescovi di Torino si ostinavano a voler dare, senza giusti titoli, l'investitura. Questa è una prova, che il comune di Chieri e quel di Torino, e tutti gli altri del Piemonte e della Lombardia conoscevano molto bene l'estensione della loro giurisdizione territoriale, e che se non

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