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ne usarono sempre ugualmente, vuolsi attribuire alle fazioni, alla superstizione ed ai frequenti tumulti, che loro non lasciavano sempre la libertà di operare.

Molte altre osservazioni appoggiate su fatti storici far potremmo ancora per dimostrare che il torinese vescovo Goffredo, e parecchi de' suoi predecessori, ed alcuni de' successori suoi non ebbero che vani titoli e scolastici sofismi per sostenere le loro pretensioni relativamente a certi possessi temporali di terre e castella, che a buon diritto appartenevano ai principi di Savoja, o per concessione di questi al comune di Torino. Il vescovo Goffredo, checchè ne dica in contrario il buon P. Semeria, avrebbe fatto assai meglio a non isprecare il tempo prezioso a tutti, e massime ai pastori delle anime, ed a non isprecare il danaro della sua chiesa in tanti litigi e in viaggi a Lione ed a Roma per conseguire ciò che ad altri spettava; perocchè l'apostolo delle genti scrivendo a Tito ed a Timoteo, ed in loro persona ai vescovi di tutte le età, insinua ben altre massime, che quelle di agitarsi, travagliarsi e perdere la tranquillità dell'animo per ottenere una qualche porzione del regno di questo mondo, che il divin Redentore affermò non essere il regno suo.

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Tuttavia giustizia vuole, che si narrino i principali fatti di questo vescovo, che, tranne la cupidigia di temporal dominio, mostravasi nel rimanente caldo di zelo pontificio a pro de' suoi diocesani: attentamente vigilava sopra la condotta del suo clero e della popolazione della sua vastissima diocesi di questa sua lodevole sollecitudine abbiamo una prova nel sinodo, che addì 14 di maggio del 1270 celebrò nella sua chiesa cattedrale: diversi decreti egli formò in questo concilio, concernenti la purità e il decoro dell'ordine sacerdotale, il culto e servizio della chiesa, e finalmente la riforma dei costumi, e la salute delle anime. Ai trasgressori di tali decreti intimò pecuniarie multe ed è forse questo il primo esempio che siasi dato nella diocesi torinese di pene di simil natura. Quando egli si condusse a Roma per ottenere una sentenza a lui favorevole nella causa contro i principi di Savoja, si trattava di mandare una legazione in Costantinopoli all'imperatore Michele Paleologo, allo scopo di corroborare l'unione della chiesa

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greca alla latina, ed inoltre di procurare l'accettazione dei decreti che si erano stabiliti nel concilio di Lione, intimato da papa Gregorio X nel 1275. Ora il sommo pontefice Gioanni XXI considerando quai personaggi dovesse presciegliere per così importante legazione, deliberò di spedire, come prelato molto saggio e prudente, il vescovo di Torino Goffredo, ed il vescovo di Ferentino, ai quali aggiunse due dotti domenicani. Partirono adunque da Roma questi quattro legati sul principio del 1277, e giunti alla corte imperiale di Costantinopoli impresero a trattare di tutti gli affari della loro missione, nel maneggio de' quali si comportarono con tale prudenza, che, superate tutte le opposizioni, conseguirono un favorevole risultamento. Così appunto dichiarò il Paleologo in una sua lettera indiritta al Papa, la quale è riferita dal Fleury: in essa l'Imperatore dice d'aver accolto i nunzi del supremo gerarca, Jacopo vescovo di Ferentino Goffredo vescovo di Torino, Rinaldo dell'ordine de'frati predicatori, priore del convento di Viterbo, e Salvo, maestro di teologia, i quali gli consegnarono in mano propria le lettere del predecessore di papa Giovanni XXI, che le baciò divolissimamente, e dopo averle ben comprese provò estrema letizia della riunione delle chiese: soggiunge che avendo trallato coi suddetti legati per quel che rimaneva ad eseguire, confermò in iscritto la professione di fede della chiesa romana e che fecero lo stesso il suo primogenito, il patriarca e gli altri prelati della chiesa orientale. Ritornando a Roma con gli altri legati, il vescovo di Torino trovò la sedia apostolica vacante per la morte del papa Giovanni XXI, ed aspettò l'elezione del successore, che fu Nicolò III. A questo nuovo Pontefice, dopo aver esposto l'esito della legazione a Costantinopoli, parlò dei torti che credeva essergli fatti dall'abate di s. Michele della Chiusa, da Ottone Visconti arcivescovo di Milano e dai principi di Savoja. Dopo ciò ritornossene a Torino dopo un'assenza di più di due anni; ed ebbe la consolazione, che il sabaudo conte Tommaso III ben volle restituirgli Castelvecchio. Nell'anno 1282, addì 13 maggio, celebrò il secondo suo sinodo, in cui fece il decreto, che in tutti gli anni avvenire gli abati, i prepositi, gli arcipreti, i priori, i pievani e paroci della città e della Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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diocesi si radunassero nel martedì avanti le rogazioni pel concilio che sarebbesi tenuto nella chiesa cattedrale.

Nel 1287 andò a Milano per ivi assistere al concilio provinciale, che l'arcivescovo Ottone Visconti vi aveva congregato. Appena egli era stato promosso al vescovato di Torino, aveva visitato la sua diocesi, ed erasi trattenuto assai tempo nella marca saluzzese; ora intraprese una nuova visita pastorale (1291) nel marchesato di Saluzzo, donde s'innoltrò sino agli ultimi confini della diocesi verso il Delfinato e la Provenza, e provvide da per tutto ai bisogni del clero e delle parocchie.

Caste

XXXV.

Torino sotto il conte Amedeo V.

Questo comune ha gravi controversie con quello di Moncalieri,
e poi coi signori di Beinasco.

sta

Tommaso III lasciò morendo (1282) cinque figliuoli, Filippo così chiamato dal nome del regnante zio, Pietro, Tommaso, Amedeo e Guglielmo, assegnando al primo la sua eredità. Lo zio Filippo conte di Savoja, che già da dieci anni soffriva una dolorosa idropisia, a cui l'arte medica non apportava che momentanei sollievi, fu il primo dei nostri principi, che abbia soggiornato qualche tempo in Torino, sperando di trovarvi un rimedio alla sua gravissima malattia; ma fu nel castello di Rossiglione nel Bugei, che la morte diè termine a' suoi patimenti, il 17 novembre 1285. Secondo l'uso di que' tempi la corona non passò al giovinetto Filippo; primogenito di Tommaso 111, ma sibbene al minor fratello di esso, cioè ad Amedeo, al quale venne conferita dagli stati generali della Savoja, che in lui riconobbero un principe veramente atto al governo; ed in vero questo conte, che prese allora il nome di Amedeo V, dalla sua tenera età avea fatto concepire di lui le più alte speranze; e manifestò poi sempre di aver sommamente profittato delle lezioni che avea ricevuto dal suo genitore. Appena egli salì al trono, volle subito prevenire ogni discordia al suo minor fratello Ludovico signore di Vaud, e al giudizio d'arbitri gli diede in Borgogna ed in

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Isvizzera una porzione in feudo, quasi eguale alla propria, attenendosi alla legge imperiale di Federico I sull'indivisibilità degli stati. Essendo tuttora pupilli i figliuoli di Tommaso II, Amedeo palesò alla tutrice loro madre Guja di Borgogna la necessità che gli stati appartenenti ad essi in Piemonte fossero ben difesi nel continuo moto delle armi de' baroni e de' comuni. Guja dunque, rimanendo in Savoja intieramente dedita all'educazione della prole, addì 9 febbrajo 1286 costituì Amedeo luogotenente generale dei dominii de' suoi figliuoli, in Piemonte; onde d'ordine di essa tutrice fu convocato un parlamento nei prati di Giaveno presso il Sangone, al quale intervennero i nobili vassalli, ed i castellani delle subalpine terre spettanti a quei principi. Ivi alla presenza di Amedeo V furono letti i diplomi di Guja e del principe di Vaud per riguardo agli estesi poteri di quel conte. Ivi addì 14 maggio dai molti personaggi che v'intervennero, Amedeo fu riconosciuto come rettore generale in nome dei pupilli figliuoli di Guja di Borgogna. A rappresentarvi la città di Torino vi si trovarono, un Rodolfo Sarioldi o Sariod, cavaliere, che era vicario di questa città, un Ruffino Borgese, ed un Pietro Ba

racco.

Ma in quel tempo lo scarso paese che Amedeo V cominciò reggere a nome dei pupilli principi, trovavasi accerchiato dalla vasta dominazione del marchese Guglielmo VII, che se l'era procacciata colle felici sue imprese, e cercava tutti i mezzi di estenderla maggiormente, agognando sopratutto d'impadronirsi di Torino. Il di lui genitore Bonifacio Il avea ottenuto in feudo dal vescovo d'Ivrea la più parte dei castelli del contado eporediese, ed avea dilatato colle usurpazioni il suo dominio sin presso a Torino, oltrecchè usava la sua giurisdizione su due paesi non molto distanti da questa capitale, cioè su Collegno e Pianezza, e sopra la valle di Lanzo. La marca saluzżese estendevasi alla destra del Po sino a Carignano, e alla destra del Maira sino a Savigliano. L'Angioino teneva una parte della Liguria occidentale, un ampio tratto della contea di Nizza, e il contado di Mondovì sino a Fossano. H comune d'Asti estendeva il suo dominio sino a Poirino, e quello di Chieri estendevasi da Trufarello a Montosolo.

op

Guglielmo VII, oltre il capitanato di Milano ch'eragli stato
conferito, signoreggiava Piacenza, Brescia, Cremona, Novara,
Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba, Casale ed Ivrea; ma
si abbandonò a tali eccessi, che le popolazioni a lui sog-
gette pensarono di scuoterne il giogo: a tale generoso scopo
unironsi Milano, Genova, Pavia, Piacenza, Brescia e Cre-
mona: queste città innanzi a tutto, per avere un capitano
che fosse ben perito della guerra, ed avesse interessi
posti a quelli dell'abbominato Guglielmo, mandarono al
nostro conte Amedeo V i loro ambasciatori, i quali ferma-
rono con esso lui (1287) i preliminari del trattato d'alleanza,
Se non che il sabaudo conte non si mosse che due anni
dopo, quando il marchese diede principio alla guerra col
devastare orribilmente le terre degli Astigiani, che perciò
mandarono anch'essi i loro deputati al conte, e addì 25 di
aprile del 1290 stipularono con esso al Borghetto la loro lega.
Dopo ciò Amedeo V, arrivato con quattrocento cavalieri ar-
mati di tutto punto nella città d'Asti, obbligò il marchese a
rivolgersi contro le truppe dell'Insubria; e intanto l'oste asti-
giana coll'ajuto de' Savoini e de' militi torinesi batte Som-
mariva del Bosco, Emanuele conte di Biandrate alleato di
Guglielmo, che solo si rimase contro la forze della confe-
derazione. Quindi Amedeo V con le schiere della confede-
razione ebbe varii prosperi successi, e con un esercito da
lui raccolto in Pinerolo, s'impadroni della terra e del castello
di Pianezza, cacciandone il monferratese presidio.

Durante queste belliche fazioni fervevano gravi discordie tra i comuni di Torino e di Moncalieri, le quali erano insorte per cagion dei confini dei beni che i torinesi possedevano nel territorio di Moncalieri, e di quelli che i Moncaleriesi possedevano nel territorio di Torino: altro motivo dell'acerba controversia era il passaggio delle mercanzie che Conducevansi in Francia, e si facean transitare nei territorii di Torino e di Moncalieri fuori del luogo murato. Dopo molte contestazioni, le parti convennero di commettere la diffinizione delle loro differenze ad arbitri di loro scelta, cioè a due Torinesi, a due abitanti di Moncalieri e al vicario del Piemonte che era Iblone di Challant. Questi arbitri, esaminata bene ogni cosa, definirono che l'alveo

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