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l'allegrezza dei Romani per tale trionfo; e fu pur grave lo scandalo fra di loro vedendo ritornar Flaminio, reputato sacrilego da essi, carico di ricchissime spoglie. Fugli tuttavia decretato il trionfo, e con popolari acclamazioni entrò nel Campidoglio traendo prigione il suddetto principe Astrionico, il cui voto sorti effetto contrario; perchè avendo egli promesso a Marte la collana d'un Romano, il romano Flaminio donò a Giove quella che a lui tolse. Vollero con tutto ciò gli Auguri ed il senato questa soddisfazione, per mantener in credito le patrie superstizioni, che Flaminio, sceso dal carro trionfale, deponesse il consolato, e ritornasse dall'impero alla vita privata.

Dopo così fiero disastro parendo agl'Insubri ed ai Taurini che tutti gli dei congiurassero contro di loro, e pensando eglino esser meglio di cedere al tempo che spesse volte agli sventurati torna lieto, ed i più felici abbandona, spedirono ambasciadori a Roma per chiedere al senato onorevoli condizioni di pace. Tenevano allora il consolato due bellicosi patrizii, Gneo Cornelio Scipione, e Marco Claudio Marcello. Questi vigorosamente si opposero a qualunque trattato di pace, e fecero decretare la continuazione della guerra gallica sino all'estremo. Gl'Insubri adunque ed i Taurini, rimasti quasi l'ultimo avanzo della libertà cisalpina, avvalorati dalla disperazione, fermamente deliberarono di vivere o morir liberi; ma perchè troppo assottigliato per le passate sconfitte era il loro esercito, cercarono di bel nuovo mercenarii soccorsi nella transalpina da Viridomaro re de' Gessati, che da Plutarco vien detto Britomaro; questo Re non atterrito dall'infortunio de' suoi antecessori, sceso frettolosamente per le nostre alpi, comparve subito avanti a Torino con trenta mila combattenti. Gessatae, dice Pluitarco, in vita Marcelli, superatis alpibus triginta millia numero erant; questi Gessati vennero meglio in arnesi ed in armi che i primi. Il loro Re, secondo che afferma Floro, fece anche voto di dedicar le armi de' Romani a Vulcano fab-bricator delle armi; onde si vede che tutti i condottieri - Galli usavano cominciar la guerra con un voto a qualche divinità. Viridomaro venne dichiarato supremo direttore della spedizione così dai Taurini, come dagl'Insubri: unite

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insieme le loro squadre, le quali, come scrivono Plutarco e Polibio, oltrepassarono sessanta mila combattenti, andarono dirittamente all'incontro de' consoli, i quali, entrati già nell'Insubria, assediavano Acerra, città allora ricchissima, ora distrutta, che sorgeva sulla sponda occidentale dell'Adda, a poche miglia dal Po. Ma il gallico Re, considerate le forze de' Quiriti, i passi chiusi e ben muniti; e giudicando più sicura la guerra diversiva, che la diretta, fu d'avviso di volgersi all'assedio di Clastidio, opulenta e ragguardevole piazza occupata dai Romani; venne in questo divisamento, perchè punto non dubitò che i consoli avrebbero risoluto di venir prestamente in soccorso ad una piazza vicina, e da essi tenuta. Viridomaro pertanto, lasciate le legioni con una parte de' cavalli per far fronte agli assediatori di Acerra, prese dieci mila de' suoi cavalieri con poca ma spedita fanteria, e corse di là dal Po ad assediare Clastidio. Ma i consoli affidandosi di poter conseguire due vittorie ad un tempo, anch'essi, ad esempio de' Galli, d'un esercito ne fecero due: e fermandosi Gneo Scipione con la terza parte della cavalleria, e con le legioni per istringere la piazza d'Acerra, Marcello col resto de' cavalli, e con alcuni de' migliori fanti, mosse celereinente a soccorrere Clastidio. Viridomaro allora, abbandonato l'assedio, venne intrepidamente contro alle romane schiere; e perchè la cavalleria de' Galli, e massime quella de' Gessati, si reputava invincibile, Viridomaro pien di baldanza già si teneva sicura la palma; e diffatto nel primo scontro i cavalli Romani furono da lui maltrat¬ tati; il perchè venne proposto un singolar certame, che su eseguito tra i due capi dei due eserciti nemici. Viridomaro che di corpo, e non men d'animo era maggiore di tutti i suoi, fecesi avanti sopra un feroce destriero con la lancia in resta, abito regale, arme lucenti d'oro e d'argento; Marcello nell'appressarsegli alzò gli occhi al cielo, e promise a Giove Feretrio le spoglie del Re; si diè principio al singolar certame; Marcello con la sua lancia squarciò il petto al suo valoroso nemico, e lo riversò sul campo. Tutto l'esercito di Viridomaro, impauritosi per la morte del suo condottiero fu agevolmente disperso dalle squadre Romane: quelli che non perirono sul luogo, caddero annegati nel fiume, o a stento

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si poterono salvar colla fuga. Sceso Marcello dal suo destriero, trasse l'arme e le spoglie al suo rivale, che poi gli valsero per votivo trofeo. La città di Clastidio, che Viridomaro aveva primamente assediata con dieci mila de' suoi cavalli, e con un drappello de' suoi fanti più spediti, è da Livio chiamata ora de' Liguri, ed ora de' Galli. Fatto è che essa sorgeva, ove sta il moderno Casteggio, di cui abbiam dato i cenni storici vol. IV, pag. 86, e seguenti. I Romani l'avevano occupata e ben munita, mettendovi moltissime provvigioni d'armi e di viveri: Annibale poscia l'ebbe per tradimento, corrompendo colla cospicua somma di ducento nummi d'oro quel vile P. Dario da Brindisi, che vi era prefetto del municipio.

Nè più benigna sorte ebbero le altre squadre de' Galli e de' Taurini rimaste sotto di Acerra: udita la morte del loro Re, prima che sopra di loro arrivasse il vincitore Marcello, sen fuggirono celeremente verso Milano; onde Scipione dopo essersi impadronito di Acerra, perseguì i fuggitivi sino alla capitale dell'Insubria, e non potendoli sopraggiungere diè il guasto alle campagne: fece quindi sembiante di volersi ritirare nella sua patria; i Galli, benchè vinti, mossero animosi ad infestare la ritirata de' vincitori, e ripigliarsi la preda a loro rapita. L'astuto Scipione, lusingando la cupidigia dei nostri con alcuna perdita volontaria, quando li vide assai lontani dalla città, fece loro dalla veloce cavalleria racchiudere alle spalle il ritorno, ed assalendoli con tutte le forze, molti ne uccise, e gli altri fuggendo si appiattarono dentro i nascondigli delle alpi. Scipione adunque rimasto padron del campo, sottomise la città di Milano. Il popolo romano applaudi ai due consoli, di cui uno avea salvato una città propria, e l'altro ne aveva conquistato due nemiche. Maggiore per altro fu la gloria di Marcello, ed ebbe gli onori del trionfo, perchè la morte del re Viridomaro fosse giudicata più importante di molti acquisti, o perchè Marcello solo portando sugli omeri suoi nel tempio il trofeo con le spoglie del Re, cui egli trafisse a morte, lo dedicò a Giove Feretrio. Del singolar combattimento, in cui Marcello trafisse a morte Viridomaro, fanno un breve cenno tre antichi scrittori, cioè Floro, Eutropio e Servio, ma diffusamente ne parla Plutarco nella vita di Marcello.

Quest'ultimo disastro fierissimo, dopo la cacciata de' Senoni, dopo la dedizione de' Boi, dopo la rivolta de' Cenomani, sece finalmente parere ai Taurini, che il combattere contro i Romani, era calcitrare contro il destino: risolvettero essi adunque di riconciliarsi colla repubblica di Roma, la quale non esitò a conceder loro la pace con la promessa del di lei patrocinio; locchè sembra essere accaduto sotto i consoli Lucio Veturio Filone, e Lutazio Catulo. Alla pace conceduta ai Taurini plaudì il popolo romano, che, come riferisce Plutarco, mandò, in segno della sua allegrezza, al delfico Apolline una tazza del peso di cento libbre d'oro. Al senato piacque pure sommamente che i Taurini si fossero amicati coi Quiriti; perocchè ben conosceva il maraviglioso valore della taurina gente, è la lealtà di essa; e tinto più se ne rallegrò, in quanto che già sin d'allora agognava il conquisto delle transalpine contrade, e gli sarebbe perciò nociuta moltissimo l'inimicizia dei Taurini, intrepidi custodi delle alpi.

Questo fine fu dato alla guerra de' Galli e de' Taurini contro a' Romani, della quale affermano gli antichi storici, e principalmente Plutarco, niuna essere stata per l'addietro più terribile, nè per l'ostinazione degli animi, nè per l'intrepidezza dei soldati, nè per l'atrocità de' conflitti, nè in fine per la moltitudine de' combattenti e degli uccisi.

Se non che, mentre la città di Torino credea di riposare, e stava medicando le sue piaghe, e si muniva di fortificazioni, ebbe a sopportare una nuova gravissima calamità, non già per colpa sua, ma per la fatalità del suo sito, e per due altre manifeste cagioni, che furono un escusabil voto del fiero Annibale, ed un'inescusabile imprudenza dei Romani dopo la pace.

Annibale ancor fanciullo novenne, con la destra sopra l'altare, ove Amilcare suo padre sacrificava, aveva giurato nimistà eterna alla romana repubblica: il padre aveva COtanto infierito il figliuolo contro a' Romani, perchè questi valendosi del valor della fortuna, avean costretto i Cartaginesi ad accettar vergognose e dure condizioni di pace; e niuna pace fondata su dure condizioni suole esser durevole, sembrando a molti violabile ogni accordo violento; e

per quel violento accordo, aveva Cartagine dovuto rinunziare all'impero del mare, al dominio della Sardegna, e a pagar mille ducento talenti di tributo. Floro lib. 2, cap. 5.

Annibale per adempiere il suo voto, oltre il proprio inef-, fabil coraggio, e l'odio contro di Roma che nel suo animo vieppiù s'infiammava, ebbe anche più propizia la fortuna, per una nuova legge agraria, che venne promulgata poco dopo alla pace dei Romani; legge somigliante a quella di Emilio nel Piceno, di cui abbiamo parlato qui sopra: Tito Sempronio e Publio Scipione, quantunque uomini di gran forza militare, e forniti di molto senno civile, ne furono incautamente gli ultimi esecutori. Persuadendosi questi di rassicurar viemmeglio la fedeltà di tutta la Gallia cisalpina, col fabbricarvi due città, si posero a edificare Cremona e Piacenza, l'una di qua e l'altra di là dal Po, destinate co-: lonie, ciascuna di sei mila valorosi militi. Saggio consiglio per il suo fine, perchè le colonie furono sempre le più salde colonne del romano imperio per la sovverchia grandezza indebolito, ed anche il più duro morso de' popoli per l'amore d'indipendenza indomabili; ma popoli così bellicosi, com'erano i Cisalpini, appena usciti dalla libertà, ritenendo ancor l'odio nel cuore e le armi in mano, non poterono tollerare di vedersi così presto rapire i loro campi, e divorar le loro messi da soldatesche romane. Ciò non volle prevedere il senato, e mostrossi dimentico dello spa-vento di Roma per quella legge di Emilio. Il senato considerò allora soltanto il fortuito successo e non l'antecedente pericolo; seguì quell'esempio che atterrirlo dovea. Così poco profittano i principi della sperienza dei casi altrui ; e tanto inganna gli uomini animosi un solo esempio di temerità fortunata; credendosi ognuno di poter fare ciò che altri fece, senza por mente, che le circostanze variano i fatti, e ciò che jeri fu opportuno, domani sarà intempestivo, siccome avvenne in questo fatto; perocchè mentre si fabbricavano le due città, i Boi, ultimi della Cisalpina verso Roma, epperciò più sospettosi, siccome quelli ch'erano tenuti in maggior sospetto, quantunque in pegno della loro fedeltà avessero dati ostaggi a Roma, non di meno non potevano comportare che i vincitori, dopo aver tolto ai

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