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Galli la libertà, volessero togliere ad essi anche la terra che li nutriva; sicchè aizzarono gl'Insubri, ond'eglino associando fra loro le armi ed i consigli, cospirassero alla distruzione delle due abborrite colonie. Di questi loro sdegnosi divisamenti niente lasciaron penetrare ai Taurini non solamente perchè ne conoscevano la costanza, ma eziandio perchè a quel tempo i Taurini erano stati costretti a mandare le loro truppe contro gl'Insubri, i quali a loro danno cercavano di allargare i proprii confini. La prima deliberazione adunque de' Boi e degl'Insubri fu di chiamare Annibale in Italia, il più fiero e più possente nemico di Roma. Il vittorioso Annibale aveva già espugnato la forte città di Sagonto, dalle cui ceneri avea tratto tant'oro da poter fare ai Romani una lunga guerra, quando i legati de’Boi e degli Insubri giunsero secretamente a lui con le lettere che premurosamente lo eccitavano a scendere in Italia.

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Ai fieri disegni di Annibale non potean pervenire più gradite novelle. Avendo con affettuosi ringraziamenti e con ricchi doni accettato le offerte di quei due popoli, mandò subito secreti messaggi a riconoscere il passaggio delle alpi; e spedì ad un tempo lettere alle altre provincie cisalpine, sollecitandole a prender seco le armi contro i Romani per la causa comune, e giurando ch'egli non già veniva per opprimere la nostra penisola, ma per liberare dalla oppressione della repubblica di Roma i cisalpini che lo chiamavano, nè trarrebbe la spada dalla vagina finchè non si fosse introdotto nelle italiche terre: con questo giuramento e con dolcissime promesse procacciò di ingannare massimamente i Taurini, come più prossimi alle alpi e custodi di esse: ma sebbene le altre provincie secretamente lo favoreggiassero, dagli abitanti di Torino, che non volevano mancar di fede ai Romani, e per nulla si affidavano alla fede punica, non ebbe che risposte equivoche.

In questo mezzo tempo i Taurini più non volendo aver che fare colla sempre molesta gente transalpina, fermarono un'alleanza coi Liguri Délfinati; e gl'impazienti Insubri e Boi, raccesi dalle lettere del conquistatore cartaginese, dichiararono ai Romani la guerra. Già erano fabbricate le due città fatali, e già sui luoghi erano giunti i triumviri per dividene Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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i campi e destinare i coloni che li avrebbero coltivati se non che vedutisi con improvviso tumulto assaliti dai due popoli ribelli, colla più grande celerità sen fuggirono a Modena, dove dagli stessi animosi Galli furono perseguiti, strettamente assediati. I romano senato del proprio fallo tardi avveduto e da due fieri annunzi ad un tempo alterrito, cioè della nuova guerra dei Galli e della venuta di Annibale, mandò ambasciadori a' Boi ed agl'Insubri per trattar della pace, ma questi non solo ricusarono di venire agli accordi, ma tennero prigioni i legati, giurando di non rimetterli in libertà, se Roma non restituiva liberi i loro ostaggi. Allora il senato mandò, senza frapporre indugi, Lucio Manlio pretore con grandi forze per soccorrere gli assediati in Modena, e vendicare i prigioni: ma Lucio Manlio passando incauto per una selva a lui sconosciuta, si trovò avviluppato nelle insidie de' Galli, dove tagliata in pezzi la maggior parte de' suoi, egli con gli avanzi delle sue schiere fuggì a Canneto. Venne allora molto in acconcio ai Romani l'esercito de' Taurini; perchè credendo il console di andar incontro ad Annibale per mare, ed avendo chiamato le armi ausiliari contro i Boi e gl'Insubri, opportunamente profittò delle taurine squadre che contro gl'Insubri già si erano mosse per punirli dei loro soprusi e delle loro ingiustizie.

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Frattanto Annibale, che a grandi giornate dirigevasi verso l'Italia, superati i popoli che dai romani storici furon chiamati Allobrogi, pervenne alla Duranza, ad flumen Druentium venit. Nella prima alpe taurina, cioè nel Monginevro, d'onde verso mezzodi quel fiume discende, s'imbatte ne' taurini montani, che dopo avergli intrepidamente contrastato il passo, mostrando di far pace con lui, e di volerlo guidare per quei luoghi disastrosi, lo introdussero per fallaci strade in balze impraticabili; sicchè molti de' suoi cavalieri e fanti caddero rifiniti dalla stanchezza; callide Taurinis ducentibus accolis non recta ratione iler instituit... insuperabile fecit. Amm. Marcell. lib. 15, Livio dec. 3, lib. 1.

Ciò non pertanto il cartaginese condottiero dal Mongi-, nevro potě, dopo infiniti travagli, giungere in val di Sezana, e indi valicare il collo di Sestrières, d'onde sali a quello di Fenestrelle sopra Ocellio, ora Usseau. Colà fece far alto alle

sue truppe; loro additò la bella Italia, e soprattutto le ridenti subalpine campagne di qua e di là del Po: consistere exercitum jussîl, militibus Italiam ostentans, subiectosque alpinis montibus circumpadanos campos. I 'Cartaginesi non potevano certamente in alcun altro passo de' Taurini godere” della stupenda veduta delle subalpine campagne prima di trovarsi al collo di Fenestrelle. Annibale per la più breve é dïritta viá della valle di Perosa discese nelle tautine pianure, e qui fece soffermar le sue genti in uno spazioso campo, ov'esse piantarono le loro tende: superatis alpibus in taurinam agrum descendit ... statuit tentoria. Nel malagevole passaggio della Provenza al Piemonte impiegò Annibale quindici giorni, durante i quali confessò egli stesso a Lucio Cinzio Alimentó cavaliere romano venuto di Spagna prigioniero de' Cartaginesi, ch'egli dopo il passaggio del Rodano avea perduto nei monti taurini trentasei mila uomini oltre una grandissima quantità di cavalli e di giumenti. Circa questo tempo i Romani eransi accinti per la prima volta a passare il Po: dopó aver sottomesso gl'Insubri, domarono anche gli Elvezii loro aderenti, e li posero sotto l'autorità di un pretore. Non sembra che per allora si avanzassero nella contrada de' Taurini; perchè vediamo che questi trattarono di per sè la pace e la guerra coi Vercellesi loro nemici, ed eziandio coi Milanesi già soggetti ai Romani; e vediam pure che mentre gli altri Galli, invitati dal cartaginese Annibale, a lui si unirono, i soli Taurini, quantunque fossero in guerra coi Galli rimasti di là dall'Orco e cogl'Insubri, ben lungi dal voler assecondare i di lui voleri, si trovarono armati per impedirgli l'ingresso nella loro capitale.

Ma egli, quantunque avesse già l'esercito cotanto assoltigliato, e vedesse estenuate dalle fatiche e dagli stenti le rimastegli schiere, che, secondo Polibio, più non sommavano che a venti mila uomini atti alle armi, tuttavia non perdette la sua costanza, sostenuta da due salde speranze; l'una di potersi fra breve vendicar contro Roma, l'altra di aver tosto in ajuto le schiere degli Insubri e de' Boi. Annibale spiegò l'avanzo del suo esercito nei piani campi tra le alpi e' Torino, i cui abitanti, sebbene le loro truppe si trovassero a combattere contro gl'Insubri, pure si armarono in quel

maggior numero che per loro si potè, risoluti e fermi di fargli la più vigorosa resistenza; ma vinti in un sangninoso conflitto si ritirarono dentro le loro mura, dispostissimi a sostenere l'assedio della loro città, la quale in quel tempo non era per anco difesa da quelle valide fortificazioni, di cui fu poscia munita a sotto il romano dominio, a tal che venne quindi chiamata oppidum munitissimum. Dal che si vede che i Taurini o Torinesi, come d'ora in poi li andrem chiamando, avevano già la loro fiducia nella protezione de' Romani, e non volevano più entrare in nessuna lega contro di essi. Certamente se i Torinesi non avessero creduto di essere soccorsi dalle romane squadre, le quali a gran giornate si avanzavano, così che i Galli non osavano per anco di unirsi apertamente ad Annibale, non avrebbero provocato un nemico, di cui eglino non ignoravan la forza superiore. Ciò tanto è più vero, in quanto che non rifiutarono subito l'invito di Annibale, ma ricorsero all'artificio di rispondere ambiguamente, per tener a bada quel capitano, certamente sino a che giungessero in loro ajuto le romane legioni. Laonde Annibale non avendo per ultimo una favorevol risposta, strinse d'assedio la loro città. Con rara virtù resistettero i Torinesi ai furiosi assalti delle schiere affricane; ma l'audacissimo generale di esse, s'impadroni della piazza, ne sottopose i principali abitatori ai più crudeli supplizii, e ne atterrò le mura e le case, per incutere lo spavento in quei municipii, che volessero seguire l'esempio degl'intrepidi Torinesi; ma tanta moltitudine de' suoi militi Annibale lasciò estinti sotto quelle mura, che se Torino pianse, Cartagine non ne rise. Questo infelicissimo successo, rendette ai Tori nesi memorabile insieme e doloroso l'anno, 218 avanti l'era volgare.

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Da questa vittoria incominciò Annibale il suo corso in Italia con l'esercito ristorato, mercè della preda fatta in più, giorni nel torinese territorio. Seguiremo la sua marcia solamente insino al sito, dond'egli esce fuori del nostro paese,, e così potremo sciogliere la questione, se la battaglia tra i Cartaginesi ed i Romani, che comunemente chiamasi del Ticino, siasi ingaggiata entro i limiti del territorio, o dello stato che ha per capitale l'augusta città di Torino.

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Espugnata la nostra città, riceveva Annibale le sottomissioni de' paesi dipendenti da quella, meditava di collegarsi coi Galli vicini, e non sapea qual cagione ne ritenesse alcuni dall'unirsi con lui. Il console P. Scipione avea già da Piacenza passato il Po, nè ancora credeva di avere così vicino il generale cartaginese. L'uno e l'altro ebbero quasi ad un tempo l'annunzio della loro vicinanza. Scipione per inspirar coraggio alle sue genti, le arringò nel giorno in cui fece costrurre un ponte sovra il Ticino. Nel dì seguente, come narra Polibio lib. 3, i due generali marciarono lungo il fiume dalla parte riguardante le alpi. Nel secondo giorno gli esploratori resero avvertiti i due condottieri della loro vicinanza: l'uno e l'altro esercito si fermò, e trincerossi. Scipione procacciò di rianimare i suoi con un eloquente discorso; Annibale invece di rettorici argomenti fece comparire in mezzo al suo esercito accerchiato, come in un anfiteatro, tutti`i Taurini ch'egli avea fatto prigioni nel passaggio delle loro alpi, ed anche non pochi da lui presi nell'espugnata Torino, i quali carichi di catene erano stati da lui riserbati ad un orrendo spettacolo, che ci parrebbe incredibile se non fosse stato descritto da Polibio coi più vivi colori. Quivi il barbaro conquistatore fe' ignudar quegl'infelici, che pel sofferto carcere, per la fame, per lo squallore parean cadaveri incatenati; e dopo aver fatto stracciare con aspri flagelli le loro misere carni, volle che si portassero nel mezzo le ricche sopravvesti, le dorate armature, e le lunghe spade che i Taurini cavalieri usavano nei combattimenti: quindi ordinò che alle sorti si traessero alcune copie di que' sciagurati, i quali così nudi, come nella arena i gladiatori, fra lor duellassero a paro a paro; ed ordinò eziandio che qualsivoglia prigioniero uccidesse il suo antagonista, avesse in premio la libertà con le spoglie cavalleresche; e gli altri di affanno e di strazio morissero fra le catene. Tutto l'esercito pieno di orrore e di maraviglia vide l'orrendo spettacolo, dopo il quale il feroce Annibale in poche parole ammonì i suoi soldati che nell'esempio altrui considerassero il proprio caso, e pensassero esser loro necessario o vincere per viver felici, o morire per non menare nella servitù de' Romani una vita mille volte più misera della morte.

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