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savano le macchinazioni di Calvino e di Beza per invadere colle false loro dottrine anche la nostra contrada. Il torinese municipio in quel frangente mandò di nascosto a Nizza oratori per congratularsi col duca Emanuele Filiberto del suo felice ritorno ne' suoi stati di qua dai monti; e quegli oratori riportarono la speranza di avere il desideratissimo. Duca fra breve in questa capitale. Ma le restituzioni sogliono andare col passo della testuggine, e quelle specialmente che si fanno dipendere dalla ragione di stato. Nient'altro eravi di posi~ tivo, che moderasse il pubblico affanno se non la pace, dalla quale cominciava nascere l'abbondanza; perocchè dianzi, per cumulo dei mali, che nascevano dalla guerra, vendevasi il grano per ogni moggio sin nove fiorini.

La presenza del legittimo Principe, che potea sgombrare dal cuore de' suoi sudditi ogni tristezza ed ogni timore dell'eresia, fu loro in questi giorni a guisa di un lampo, che nello stesso apparire sparisce. Conducevasi a Vercelli, già soggiorno della Corte nelle passate calamità, Emanuele Filiberto con Margarita di Francia sua moglie, e come fu a Moncalieri trovò il Bordiglione, allora luogotenente del Re, che volle accompagnarlo al Valentino ed ivi trattarlo con grande splendidezza. Saputosi per tempo in Torino, che Emanuele Filiberto doveva passare al ponte del Po, uscì tutta la popolazione fuor delle mura per poterlo rimirare. Se non che non tardarono a farsi sentire i temuti effetti dei rivol gimenti della Francia. Le pratiche di Calvino, il libero traffico della soldatesca ugonotta, il pubblico editto della libertà di coscienza, le scorrerie dei vicini Valdesi, che venivano 'spargendo libelli contràrii alla santa fede per tutto il Piemonte, turbarono grandemente gli animi dei buoni Tori'nesi, e turbarono eziandio il riposo del Duca, già ritornato a Nizza. Questo Principe vivamente dolevasi di non trovarsi in grado di sottrarre colla spada é colla sua presenza all'im'minente pericolo la città di Torino, perchè ancor tenuta dal Are di Francia. Tuttavia venne nella deliberazione di estirpare la mala gramigna dalle radici, assediando Calvino dentro Geneva. Impresa assai malagevole e dispendiosa da non poterla ei condurre a fine da se solo per la fortezza del sito di quella città, e per la lega ond'essa erasi stretta coi cantoni elvetici.

Era venuto il magnanimo Principe dalle Fiandre risplendente di gloria, ma senza danari; onde mal poteva raccogliere le necessarie schiere per la spedizione di Geneva. Gli venne dunque in pensiero, che il sommo Pontefice Pio IV avrebbe volontieri contribuito ad un'impresa di sì grande rilievo alla santa chiesa; e gli spedì Gaspare Ponsiglione suo segretario supplicando quel Papa a volerlo soccorrere al grand'uopo. Pio IV, che, salito poc'anzi alla cattedra di san Pietro, aveva per causa dei passati disordini trovato esausto l'erario pontificio, ben potè commendare assaissimo la generosa risoluzione del Duca, ma non porgergli il sussidio, che questi gli chiedeva. H perchè, in testimonio della paterna affezione, il Papa, dopo avergli protestato grandissime obbligazioni a nome di tutta la cristianità, mandogli Francesco Bacodio vescovo di Geneva a risiedere in qualità di nunzio ordinario appresso la sua persona. Laonde non potendo il Duca colorire quel suo disegno, si limitò a frenare i Valdesi, che, istigati dai Calvinisti e favoriti dagli eretici di Francia e d'Alemagna, non pur non avevano all'arrivo del Duca spediti i loro deputati a prestargli l'omaggio di fedeltà come sudditi, ma, eransi armati contro di lui. Cominciò il Duca a valersi benignamente di tutti i mezzi di persuasione per ridurli al dovere; e vedendo manifestamente che ciò riusciva indarno, mandò con buone truppe il conte Giorgio Costa della Trinità a domare quei ribelli, che dopo inutile resistenza furono costretti a chiedere perdono dei loro trascorsi, e giurar fede al legittimo loro Sovrano.

Tuttavia i Torinesi non potevano a meno di rammaricarsi al vedersi celebrare in sugli occhi le cene profane dai ministri eretici: trafiggeva loro il cuore il sapere che quei ministri anche pubblicamente con sacrileghe ed ingiuriose declamazioni inveivano contro i più sacrosanti dogmi della fede cattolica, e contro i ministri del santuario. Il che più non potendo comportare il corpo de' decurioni e tutto il popolo, concordemente deliberarono di ributtare colla `forza i perversi ministri. Questo proponimento fu palesato dal consiglio civico al nunzio apostolico, e questi ne rese partecipe il sommo pontefice Pio IV, il quale rispose: avere con molta consolazione vedute le lettere scritte dal torinese

municipio al vescovo di Geneva, nunzio apostolico, e conosciuto quanto, i Torinesi fossero divoti figliuoli della chiesa, avversi agli eretici, agli apostati, e fermi a sostenere quella fede che i loro maggiori avevano in ogni tempo sostenuto: non potere se non lodar grandemente quell'insigne pietà, e rallegrarsi con loro che dal donatore di ogni bene ricevuto avessero un sì gran dono; e conchiuse con dire che per merito della loro fede sperassero confidentemente que' benefizii e quegli ajuti della Santa Sede, che da una pietosa madre aspettar debbono i buoni e divoti figliuoli.

Diede un così grand'animo a tutti i membri del consiglio della città lo spirito di queste lettere del Papa, che risolvettero di ricorrere immediatamente al re di Francia, affinchè rimediasse alla gravezza di un tanto male, I consiglieri del comune raunatisi in grande numero elessero all'alto scopo Giovanni Antonio Pawopassu, autorevole gentiluomo torinese, cui diedero le analoghe istruzioni, il 29 gennajo 1562, col memoriale indiritto al Re: in questo memoriale fu esposto essersi intrusi nella città di Torino uomini che si chiamano ministri, i quali predicano audacemente leggi nuove, e forme di vivere differenti da quelle, in cui sino allora i cittadini erano stati nodriti; queste pericolose novità poter somministrare manifesta cagione di sediziose divisioni a pregiudizio del comune e del popolo, e fors'anche di S. M. cristianissima, il cui servizio richiedeva una perfetta unione degli abitanti: che essendo questa città un'importante frontiera d'Italia, piena di presidio e di cittadini, non poteva sussistere senza il commercio delle provincie circonvicine, il quale sarebbe tosto interrotto, se in essa per isciagura intervenisse aleuno scambio di religione: supplicavano per tanto S. M. e tutti i regii magistrati a degnarsi di comandare che siffatti ministri immantinente sgombrassero, e di impedire i disordini che nascer potessero dall'ulteriore soggiorno dei medesimi in questa città. Per buona sorte risiedeva in que' giorni appresso del Re in qualità di ambasciatore di Savoja Gerolamo Della Rovere vescovo di Tolone, e nobile cittadino torinese. Questi col molto credito che godeva alla corte di Francia, coll'autorità del suo ministero, e coll'affetto di buon patriota, spianò al Pawopassu ogni

difficoltà di esporre i sentimenti de' suoi concittadini, a tal che gli venne fatto di riportarne le regie provvisioni in questa sentenza: il Re non intendere, nè volere, che alcun ministro della nuova religione sia ricevuto nella città di Torino, e se alcuno vi si fosse introdotto, essere sua ferma volontà che subitamente ne fosse discacciato; sul che si manderebbero gli ordini opportuni al signor di Bordiglione, governatore e luogotenente generale del Re in Piemonte. Nè tutta in questo decreto fu ristretta la soddisfazione che quel Monarca volle dare alla città di Torino in un affare di tanto rilievo; perocchè, in modo conforme al decreto me¬ desimo, si degnò di scrivere ai cittadini che per ovviare ad ogni scandalo, il quale intervenir potesse ai suoi amati sudditi torinesi, per le novità perniciose che cominciavano introdursi fra loro, aveva subitamente dato un ordine espresso al governatore, che niun ministro della pretesa religion riformata osasse far prediche, nè adunanze pubbliche, nè private, nè fuori, nè dentro la città; anzi dovesse loro imporre di uscirne subito fuori, sotto gravi pene ai disobbedienti. Pregava infine i cittadini a credere sopra questo fatto le cose da lui dette al loro deputato come se l'udissero dalla sua real persona.

I sentimenti di questa lettera, e la grande esattezza onde furono incontanente eseguiti dal Bordiglione i comandi del Re, molto rallegrarono i Torinesi: uscì loro dall'animo qualsivoglia timore, quando videro uscire dalla loro città quei perniciosi novatori; ma i cittadini più avveduti non potevano ancora tranquillarsi, e temevano che la calma, che fu conseguenza della pronta esecuzione degli ordini dati dal Re cristianissimo, fosse passeggiera: avevano sugli occhi ancor freschi gli esempi di Francia e d'Alemagna, dove, dopo una breve tregua, ridestatasi nuovamente con più violenza l'audacia de' settarii, aveva fatto molto nocivi progressi: temevano i più oculati fra i Torinesi che gli ordini regi sopraindicati altro non fossero che esterni rimedii, applicati ad un male incancherito, che non servendo a guarirlo, bene spesso lo rendono incurabile: ed in vero, come purgare teramente da quegli empi ed astutissimi dottrinatori una città, dove l'obbligo di governarla teneva un grande novero

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di uffiziali di spada e di toga, i quali, per la libertà di coscienza, conceduta a tutti i Francesi, professavano pubblicamente il calvinismo? Oltre che non si poteva andar securi che gli ordini del Re fossero per avere quella forza di farsi osservare in una città lontana, che non avevano avuta nel cuor della Francia e nella medesima corte.

Fra questi timori si unirono sette zelantissimi Torinesi con fermo proponimento di opporsi alle cospirazioni di Calvino e di Beza: e con tale risoluzione diedero mano alla magnanima impresa, pubblicamente esercitando ogni opera di pietà cristiana, sì che parevano apostoli novelli, inspirati dal cielo ad impedire che il fermento dell'eresia corrompesse questa città, stata sempre fedele a Dio, dacchè per opera di s. Massimo, e forse anche prima di questo gran vescovo, ricevette la luce del vangelo. Tosto si videro dalle loro fervorose parole e dall'esempio, che ha maggior forza di persuadere, accesi di zelo i trepidi, confermati nella fede i vacillanti, ed atterriti gli avversarii: laonde fu da stupire come un piccol novero di risoluti cattolici superò, senza strepito, i maliziosi calvinisti. Imperciocchè dalle sante parole, e dalle continue opere lodevolissime di que' pochi, nasceva il ravvedimento di molti, e omai più non eravi alcuno che ardisse in palese contrapporre a que' fatti pietosi le false dottrine.

Nel 1562 scadeva il termine che erasi fissato per l'intiera restituzione dei paesi del Duca, da farsegli dalla Francia : perocchè in forza del trattato di Castel Cambresì, dovevansi restituire gli stati aviti al nostro Duca, quando, come già si accennò, dal di lui maritaggio con Margarita sorella del Re, nascesse un figliuolo maschio; ed in gennajo del 1562 ne nacque di fatto nel castello di Rivoli un figlio, che dal nome dell'avo, e da quello del padre fu chiamato Carlo Emanuele. Il Duca senza ritardi chiese alla Francia la restituzione di Torino, e delle altre quattro piazze occupate ancora da galliche truppe. Gli accorti negoziati del vescovo di Tolone, a forza di vive ed iterate istanze ottennero, che i deputati del Re e quelli di Emanuele Filiberto convenissero in Lione, conforme all'accordo di Castel Cambresì, per esaminarne le ragioni; ma non si venne a concordia in quel

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