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congresso, dove molti erano gli avvocati, è nessun giudice: ivi arringarono cinque de' più periti e facondi legisti di quel secolo; per la Francia Antonio Caudone e Pietro Siguerì, e per la Savoja Cassiano Del Pozzo, Ottaviano Osasco e Pietrino Belli: niuno volendosi confessar vinto, e vedendo la contesa sostenuta più dal mal talento de' ministri, che dal volere del Re, dolse loro egualmente per avventura che rimanesse indecisa infine il timore di una nuova guerra assai più che un sentimento di giustizia e di generosità indusse il consiglio del re Carlo IX a compiere, imperfettamente, i suoi doveri verso il duca di Savoja, a cui Filippo II avea già restituito Vercelli ed Asti. Non si volle per altro obbedir subito al rescritto con cui il francese monarca ordinò ai governatori di dover tostamente restituire Torino, Chivasso, Villanova e Chieri ad Emanuele Filiberto, promettendo anche di restituirgli Pinerolo e Savigliano, quando le cose della Francia fossero più tranquille. Per lo spazio di quattro mesi ricusò il Bordiglione di uscir da Torino: egli mandò e rimandò più volte alla corte di Francia persone autorevoli per indurre il Re a ritrattare gli ordini suoi, principalmente per riguardo all'evacuazione di questa città, perocchè egli molto s'invaniva di risiedervi con autorità poco men che dispotica.

La corte di Francia sdegnatasi della pervicace inobbedienza del Bordiglione, incaricò il cardinale di Lorena e Giovanni Morvigliero vescovo d'Orleans, che dovean passare nel nostro paese per condursi al concilio di Trento, di dovere per ogni mezzo procurar la restituzione di Torino al suo legittimo signore. Il Bordiglione, quantunque ricevesse per bocca di que' prelati gli ordini della corte, ciò non di meno niegò ancora di uscire da questa capitale, se dal Duca non gli veniva dato il danaro per le paghe di più mesi dovute alle truppe di Francia. Dura condizione in vero del nostro Principe, che venuto di fresco ne' suoi stati, manomessi dalle guerre e saccheggiati dalle milizie, senza erario, senza sussidii, ben difficilmente potea riscuotere da questo paese una somma così cospicua. L'importanza dell'affare obbligò Emanuele Filiberto a far prova dell'affetto e del buon animo de' sudditi suoi. Manifestata pertanto a quelle per

sone che erano in concetto di doviziose, l'urgente necessità in cui si trovava, pregolle di fargli avere in prestito la somma pretesa dal luogotenente regio: corsero a gara con i più ricchi delle altre provincie non pochi Torinesi a portare nelle mani del Duca quant'oro avean potuto raccogliere; e coloro che eran meno opulenti, non volendo comparire meno affezionati, gli portarono le gioje, gli ornamenti d'oro delle loro mogli, e ciò che avevano di più prezioso ne' loro scrigni. Tanto è vero che ha in sua balia le sostanze de' sudditi quel Principe, che ne possiede il cuore. In men di due giorni ammassò il Duca la somma pretesa dalla rapacità del luogotenente regio, senza toccare alle gemme, che furono restituite ai loro padroni.

Ricevuto il chiesto danaro se ne uso il Bordiglione da questa città, e con lui ne uscirono tutte le truppe francesi che la presidiavano, non senza loro grande rammarico. Si possono attribuire a questo dispetto del gallico presidio nelFevacuare la nostra capitale, le strane voci che si erano sparse per riguardo alla nascita di Carlo Emanuele 1; voci che tendevano niente meno che a far riguardare quest'unico erede della corona di Savoja come un figlio supposto ; quantunque per togliere ogni sospetto sopra un fatto così importante, Catterina de' Medici, che sotto il nome de' suoi figliuoli governava la Francia avesse mandato una dama della sua corte per assistere al parto della Duchessa, e quella dama, con tutte quelle della corte di Savoja, fosse stata testimone della nascita del pargoletto tanto desiderato. Non faremmo qui menzione di così assurdi rumori popolari, se alcune espressioni degli storici della Savoja e del Piemonte male interpretate non sembrassero avervi dato un qualche credito. Il Papa, dice uno di essi, ricevendo la notizia della nascita di Carlo Emanuele 1, esclamò: Elisabeth peperit, et filius orationis est iste puer. Ludovico Della Chiesa così si esprime: da Emanuele Filiberto e da Margarita di lui consorte nacque miracolosamente Carlo Emanuele serenissimo principe di Piemonte. Il Guichenon colla più grande serietà narra che suora Leona, religiosa d'un monastero di Vercelli, avendo fatto un voto al B. Amedeo per la fecondità e il felice parto della Duchessa, sentì ella sola i dolori del parto,

mentre la madre partoriva senza la menoma doglia nel castello di Rivoli. Questa favola puerile, e massimamente il gran desiderio del Duca di avere un figlio, fecero sospettare qualche cosa straordinaria in un avvenimento al tutto naturale; perocchè Margarita teñeramente amata dal Duca suo sposo, non aveva ancora trentanove anni, e godeva di una complessione robusta e perfettamente sana.

La Francia allora 'restituì sibbene le piazze, ma colla nuova condizione che le fossero lasciati Savigliano e Pinerolo con la valle del Chisone attigua a quella del Po. La Spagna restituendo Vercelli ritenne dal suo canto Santhià. H nostro Duca prima che riavesse la sua capitale percorreva le subalpine provincie, che tutte gli davano le più ingenue testimonianze di amore, di confidenza e di quella venerazione ch'era inspirata dalle eminenti sue qualità. Veramente splendido fu il modo con cui veniva accolto in Vercelli, ch'era stato l'asilo dell'infelice suo genitore: vi furono eretti cinque archi trionfali di differenti ordini d'architettura, ornati di più di cento statue, e coperti di belle iscrizioni obe barravano le gloriose belliche imprese di lui.

Nel duodecimo giorno di dicembre del 1562 Amedeo Valperga conte di Masino pigliò possesso di questa capitale a home di Emanuele Filiberto, il quale due giorni dopo venutovi personalmente, e chiamati a se i sindaci, i decurioni b consiglieri del municipio, volle ricevere il giuramento di fedeltà senza veruna pompa, contento di trionfare con più gloria che strepito ne'cuori dei Torinesi. La lietezza non di meno fu grande, parendo a tutti i buoni che un così gran Principe sarebbesi risolutamente occupato a rimarginare le piaghe della piemontese nazione, ed a procurarle quella maggiore prosperità che i tempi avrebbero acconsentito. Addì 7 di febbrajo dello stesso anno 1562 fece il suo solenne ingresso in Torino Margarita di Francia duchessa di Savoja, e fuvvi ricevuta con la stessa magnificenza con cui ella ed il suo augusto consorte erano stati accolti in Vercelli; perocchè qui pure si alzarono archi trionfali, risuonarono i cantici de' poeti, si lessero pompose iscrizioni, si videro drappelli di eletti giovani a cavallo, e compagnie di balestrieri e di archibugieri attorno alla Duchessa, che venne

introdotta in questa città sotto ad un magnifico baldacchino formato di aurea tela, e portato da quattro distinti personaggi, appartenenti alle quattro principali famiglie torinesi che ne avevano l'antico privilegio. Il fiore delle gentildonne e de' cavalieri, il corpo della città accrebbero colla loro presenza la letizia di tutto il popolo, il quale ben conosceva che la duchessa Margarita era uno dei vincoli della pace universale, ed il fermaglio particolare dell'unione della Sabauda corona con quella di Francia. Il civico consiglio, tutto che, per le passate calamità, si trovasse in grandi strettezze, ciò non di meno fece preziosi donativi agli augusti consorti; offerì un piccolo toro formato del più prezioso metallo al bambino principe di Savoja; e volle anche domare cento scudi alla governatrice di lui, che era la moglie dell'egregio presidente Porporato, quasi per dirle: abbi ogni possibil cura di questo adorato pegno della pubblica sicurezza e felicità.

Ciò non pertanto Emanuele Filiberto era profondamente afflitto nel vedere come gli stati suoi fossero caduti în rovina. Il Piemonte non meno che la Bressa e la Savoja maucavano di piazze di difesa. Annientato era il fisco; i mobili della casa del Sovrano erano dilapidati; le sue gemme e gli altri più preziosi oggetti stavano nelle mani degli usurai; e ciò che più rileva, la lontananza del Principe e le disavventure di sua famiglia avevano prodotto i più tristi effetti. I nobili per la massima parte ponevano in non cale l'autorità del loro Duca: pretendevano di bel nuovo che tra lui ed essi non potessero esistere che libere confederazioni: pretendevano anzi di essere affrancati dai primi doveri, che come feudatarii avevano verso il proprio monarca, il quale da lungo tempo più non erasi trovato in grado di proteggerli, e ad altro più non pensavano che a rialzare il loro credito particolare, non badandó tampoco al pubblico bene. Eglino per la più parte godevano pensioni dalla Francia o dalla Spagna, e portavano la sciarpa dell'una o dell'altra di quelle nazioni.

Lo stesso popolo era divenuto poco a poco quasi indifferente per riguardo a' suoi antichi dominatori, ai quali mostravasi altre volte affezionatissimo. Si conoscevano ben poche

città nel Piemonte che non si fossero avvezzate ad un giogo straniero. I Francesi per guadagnarsi l'amore delle subalpine genti, negli ultimi tempi, in cui dominarono nel nostro paese, più non imponevano che leggiere contribuzioni, e prendevansi ben poca cura di reprimere la licenza; le leggi' della giustizia e della polizia erano senza forza; ed i magistrati stabiliti a mantenere l'ordine pubblico, soffrivano che ciascuno, seguendo il loro esempio, vivesse di rapina. Tale' è il quadro ebe Marino Cavalli, Andrea Bolducco e Pietro Lipomano, ambasciatori veneziani alla corte di Savoja, fecero delle nostre provincie verso il principio del regno di Emanuele Filiberto. Quei pochi che erano rimasti fedeli al governo legittimo, vivevano nell'oscurità. Il presidente Favre racconta che in quei tempi di corruzione e di rapacità, le monete d'oro acquistavano un prezzo notevolissimo su quelle d'argento, per la maggior facilità che si aveva di sottrarle all'avarizia degli stranieri e degli uomini perversi, che cercavano tutti i mezzi di profittare del pubblico infortunio.

XLVI.

Emanuele Filiberto vuol regnare in modo assoluto;

ma ristaura gli stati suoi, e rialza Torino a grande lustro e prosperità.

Emanuele Filiberto, principe tanto sagace ne' consigli, quanto prode in campo, perchè nella scuola delle sventure ammaestrato, volendo restaurare il governo degli stati, onde il suo guerriero valore gli aveva reso il dominio, si appigliò segnatamente a due norme, a quella cioè di circoscrivere il nerbo dell'autorità nel Sovrano, e di sciogliere le pubbliche entrate da ogni difficoltà. Per consolidare que' due perni della forza del governo da lui immaginato, approfittò destramente dell'estrema inopia, ove così lunghe molestie avevano tuffato i feudatarii, e coll'abolire la fanteria feudale, sgombrò il trono dall'impiccio, che non cessava di cagionargli l'indocilità de' baroni, inquietando tratto tratto la volontà de' principi; operazione, che avrebbe potuto nelle prische età trarsi dietro dannose conseguenze, e che riusol allora felicemente. Sciolse il popolo dal personale servaggio, se così gli venne fatto di affezionarlo alla corona.

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Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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