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Innanzi a tutto ei volle totalmente abolite quelle assemblee nazionali chiamate Stati generali che dai predecessori suoi si conyocayano a certi tempi ed in certe occasioni: per giustificarsi dell'averle abolite soleva dire che in quelle congreghe non si poteva mai fare pulla di buono, perchè i sudditi volevano dettar la legge al Principe, e non erano mai d'accordo fra loro medesimi sulle risoluzioni da prendersi; ma ciò dicendo egli allontanavasi dal vero, e ad un tempo si macchiava d'ingratitudine; perocchè già vedemmo che più volte raunatisi gli stati generali ai cenni dell'infelice suo genitore, a maggioranza di voti gli diedero sempre que' maggiori sussidi che potevano essere acconsentiti dalle pubbliche calamità; e vedemmo eziandio come l'assemblea degli stati cismontanį raunatasi in Torino, mentre questa città era in man dei Francesi, ricorrendo ad Annebaldo luogotenente generale del re di Francia, ne ottenne pronti, ed energici provvedimenti, senza i quali i Torinesi e gli altri popoli subalpini sarebbero periti della fame.

Emanuele Filiberto non solo avrebbe evitato i biasimi della storia, ma ottenuto ne avrebbe i più grandi elogi a questo riguardo, qualora avesse dato ascolto a' suggerimenti più conformi ad una sana politica, coll'ordinare insieme le assemblee in guisa da rassodare i diritti del trono, e i doveri dei vassalli. Il vero è che questo Principe era naturalmente inclinato a scuotere ogni soggezione dal canto de' sudditi, e massimamente da quello dei nobili; e divenne vieppiù sitibondo di assoluto dominio, dacchè beyve alla coppa di Carlo V, e a quella di Filippo 11, il quale per essersi mo strato invaso dal demone dell'orgoglio e della simulazione, fu paragonato a Tiberio.

Per velare alquanto le ambiziose sue mire, ed illudere i meno avveduti, il sagacissimo Sovrano creò un consiglio di Stato, nel quale presiedendo il Principe stesso o a suo nome il gran cancelliere, si riferivano le suppliche di grazia e di giustizia, le appellazioni o revisioni di cause che presumevansi irregolarmente giudicate: vi si trattavano altresì materie di stato, e v'intervenivano non solamente i referendari e consiglieri ordinari, ma ben anche molti ufficiali di. corte o militari. E di questi consiglieri, avendone sul prin-,

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cipio creati alcuni per semplice favore o per ricompensare i servigi prestatigli, se ne accrebbe il numero fino a trenta. Trovando poi questo numero eccessivo e di soverchio carico all'erario per gli stipendi che loro aveva assegnati, ne provvide una parte d'altri impieghi. Certo è per altro ch'ei servivasi delle deliberazioni del consiglio, quando voleva dar aspetto di giustizia a qualche operazione che poteva dispia→ cere o all'universale o a qualche classe particolare di persone, specialmente se si trattava d'imporre qualche dazio: nelle quali occorrenze questo consiglio veniva bensì a far quasi le parti degli antichi Stati generali, ma metteva sopra di sè tutto l'odio che necessariamente nasceva dagli imposti gravami.

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Se non che negli affari più delicati e di maggior momento, Emanuele Filiberto non consultava con altri che con quelle persone medesime, della cui opera voleva servirsi per l'esecuzione; o veramente senza manifestare il proprio disegno fingeva di voler esplorare l'avviso del consiglio, ed eseguiva poi il contrario di quello che vi era stato deliberato; sia che ciò facesse per deludere coloro che avevano interesse di spiare i suoi divisamenti, ovvero per far conoscere ch'egli voleva governare con assoluta podestà.

Or tranné questi fatti che non possono a meno di macchiare la fama di sì gran Principe, ci è dolce di poter dimostrare che la pubblica sua vita fu per molti riguardi degnissima di lode, e che tutti gli altri suoi disegni assai bene coloriti, mentre valsero a ristaurare gli aviti suoi dominii, giovarono in modo specialissimo a rendere sommamente florida la città di Torino, luogo di sua particolar residenza.

Quantunque nato, per così dire, e cresciuto in mezzo all'armi, e per naturale ingegno e per pratica divenuto grandissimo capitano, seppe tuttavia conoscere quanto migliore e più dolce cosa fosse la pace, che la guerra eziandio prospera e gloriosa. E perchè non era meno accorto politico che prode guerriero, attese con ogni studio, dacchè egli fu restituito a' suoi popoli, ed i suoi popoli a lui, a profittare di tutte le occasioni favorevoli per ristorarsi de' danni che le infelicità de' passati tempi avevano cagionato al suo

padre ed a lui. Non solamente stette fermo ad allontanare dagli stati suoi e dalla Lombardia ogni movimento di guerra: ma trovò anche molto conforme alle sue mire pacifiche it genjo de' tre pontefici che succedettero a Paolo IV, cioè, Pio IV, Pio V e Gregorio XIII, sotto i quali non si ebbero a sentire gli effetti del nipotismo, che da ben cento anni con poco o niuno intervallo avea fornito tanta materia di turbolenze e di guerre in Italia. Un solo pericolo di turba» mento nelle cose dell'italiana penisola, durante il regno di Emanuele Filiberto, procedette dalle discordie che si leva¬ rono tra il popolo e le diverse classi della nobiltà genovese. Ciascuno de' partiti ebbe ricorso a potenze straniere per ottener favore ed ajuti; e se non si trovavano unanimi il Re cattolico e l'imperator Ferdinando a voler mantener pace in Italia, le dissensioni di quella repubblica poteano eccitare grande incendio. Non passarono però due anni che quel fuoco fu spento, per essersi con grande premura adoperati e l'Imperatore e il Re cattolico ed il Papa a trattar la riunione, di cui celebrossi per lungo tempo con grande solennità la memoria.

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Or ciò che torna a maggior lode di Emanuele Filiberto si è che per poter migliorare i destini de' suoi popoli ei volle mantenere la pace quantunque gli si porgesse il destro di acquistare senza grande difficoltà vaste e fertili provincie sulle quali potea credere, non senza buon fondamento, di aver legittimi diritti. Ed invero nacque nei cittadini di Casale di s. Evasio un così ardente desiderio di scuotere il giogo dei duchi di Mantova, che volontieri si sarebbero eglino dati al duca di Sayoja, che pretendeva alcuna ragione sulla marca monferrina; ma egli stette sordo all'invito dei Casalaschi; perchè se avesse acconsentito alla loro brama, avrebbe dovuto necessariamente pigliare le armi, e interrompere la grand'opera della ristorazione de' suoi dominii.

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Con pari generosità e moderazione, o più veramente per egual motivo di sana politica, Emanuele Filiberto ricuso l'offerta che gli si fece di restituirgli il reame di Cipro. Solimano II gran signore de'Turchi, risoluto di muover guerra ai Veneziani, ed informato delle ragioni che aveva la Casa di Savoja sopra quell'isola, mandò due volte per

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mezzo di Pial famoso Bascia un suo uomo chiamato Nicolò Coccino per sollecitare il nostro Duca a confederarsi con lui, come fatto avevano i re di Francia; e fra le prime condizioni vantaggiose che gli fece offerire, fur l'acquisto fa→ eile e sicuro di quel reame. Carlo Emanuele che allora trovavasi con la sua corte in Nizza marittima, pose l'affare in consulta, e tra' suoi consiglieri molti erano d'avviso che non si trascurasse così bella occasione di portare col titolo regio nella sua casa il possedimento di un'isola feracissima. Ma prevalse nell'animo del Duca il rispetto della religione, e Pamore della pace colle cristiane potenze; e prevalse massimamente il riflesso che non avrebbe potuto accettare l'offerta di Solimano senza grave offesa de Veneziani, e che ricusandola sarebbesi procacciato l'amicizia di quella sospettosa repubblica. Ebbe perciò l'accortezza di far subito ringraziare il gran Signore del buon affetto che gli dimostrava ed intanto si affrettò di dare ragguaglio del suo rifiuto al Morosini, ambasciadore di Venezia presso la corte di Torino, e mandò in Ispagna Angelo Giustiniano vescovo di Genova pèr informare il re Filippo di quanto s'era passato.com l'agente di Solimano, e della disposizione in cui questi era di muover guerra alla cristianità; donde ebbe origine la prima e sola confederazione de' Principi cristiani contro gli infedeli che avesse esito felice.

Ed un'altra propizia occasione si offert ad Emanuele Filiberto di allargare i suoi dominii, ch'egli nella sua saggezza eredette di non usare nello scopo di conservarsi l'amicizia della Francia e di fatto avrebbe facilmente potuto, durante le dissensioni che regnavano tra i governatori della marca sáłuzzese, impadronirsi di quella importante contrada, sulla quale non ignorava certamente i diritti che gli competevano; ma ei si era impegnato a guardare e conservar quella marca al re di Francia, e tenne fedelmente parola, cercando per ogni via di quetar gli animi e sedare i tumulti.

Egli è ben vero che questo Duca fu veduto alcune volte usare la forza delle armi, ma solo per domare i ribelli in una parte degli stati suoi, e per far cessare in un'altra gli adegni dei partiti che a vicenda si laceravano. Filippo già conte di Bressa e poi duca di Savoja avea tenuto per

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alcun tempo in freno i Valdesi, che uscivano dai confini loro assegnati, ed insolentivano in varie terre del Piemonte non lontane dalla capitale. Varii vescovi di Torino procurarono d'instruirli e convincerli de' loro errori; e le cose stettero assai quiete e tranquille sino al 1560, quando quegli eretici incoraggiati e sospinti ora dai Ginevrini, ora dagli Ugonotti tornarono più che mai a predicare pubblicamente le loro dottrine, ed anche a mostrarsi renitenti agli ordini del Sovrano. Emanuele Filiberto, innanzi a tutto, mandò a conferire con loro Fra Antonio Possevino commendatore di s. Antonio in Fossano, uomo di molta dottrina e di specchiata virtù; e poichè le amorevoli sollecitudini di questo personaggio riuscirono indarno, per frenare quei, ribelli, spedì con alcune truppe Filippo di Savoja signor di Racconigi, e Giorgio Costa conte della Trinità, capitano che si segnalò nelle precedenti guerre del Piemonte, e dopo varii trattati e combattimenti, alla fine le valli di Lucerna, di s. Martino, di Pragelato e Perosa si ridussero all'ubbidienza civile; tanto più facilmente, in quanto che il Duca nella sua tolleranza permise che continuasser eglino a vivere nella loro religione.

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Ciò non ostante questa guerra contro i suoi sudditi valdesi, il tentativo fatto sopra Ginevra, gli ajuti mandati al re di Francia contro gli Ugonotti, e l'ardente zelo che in egni cosa mostrava per la religione cattolica, procacciarono ad Emanuele Filiberto acerbissimo odio appresso i fautori della nuova dottrina, de' quali gran numero s'era sparso in Piemonte; laonde molti di loro congiurarono contro la sua persona. Il Duca scuoprì quella trama trovandosi con la corte in Rivoli, e la cosa gli parve talmente piena di pericolo, che stimò bene di ritirarsi a Fossano, città allora ben munita, e con la diligenza e le buone guardie rendè vani i disegni de' congiurati. Quando questo Duca potè rientrare liberamente nel nostro paese lo trovò diviso in più fazioni. Regnavano ancora in Piemonte le fazioni de' guelfi e dei ghibellini; ed i principali della sua corte si professavano capi quale di una, quale di un'altra di queste fazioni. Filippo di Savoja signor di Racconigi era capo della parte ghibellina, e Gian Tommaso Valperga conte di Masino lo

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