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Isnardi conte di Sanfrè, Besso Ferrero Fieschi marchese di Masserano, Onorato Grimaldi, Francesco Martinengo ed Enea Pio di Savoja. Con la creazione di questi cavalieri insino al numero di ventidue, l'ordine sacro tornò nello stato primiero, che per la lunga assenza del Principe, diminuito di numero, perduto aveva l'antico splendore. Fu nell'anno 1570, che il magnanimo Duca ristabilì l'ordine di s. Maurizio, a cui riunì quello antichissimo di s. Lazzaro, ch'era stato instituito nella più parte dei paesi cattolici dell'Europa. Egli se ne dichiarò il capo con titolo di gran mastro. <

A primi cavalieri dell'ordine di san Maurizio,ristaurato da Emanuele Filiberto, e riunito a quello di s. Lazzaro con bolla di Gregorio XIII, furono Carlo Emanuele principe ereditario di Savoja, Andrea Provana, Tommaso di Valperga, Giacomo di Savoja duca di Némours, e i figliuoli di esso. Tutti i Sovrani contemporanei facean uso di quelle cavalleresche divise, siccome di stimoli possenti ad eccitare gli animi a meritarle. Dopo avere spogliato quasi intieramente la nobiltà de' suoi attributi politici, dopo averla messa fuori di condizione di ritardare i loro progressi verso il potere assoluto,i Sovrani d'allora dovettero applaudirsi di aver fatto dei nobili uno de' più forti appoggi dei loro troni, al lacciandoli con legami così fragili in apparenza: Sembra per altro che l'abuso dei titoli onorifici conceduti senza misura alle terre feudali, esistesse prima del regno di Emanuele Filiberto; giacchè questo Principe pubblicò un editto, il 31 d'ottobre 1576, in forza del quale niuna signoria potessé nell'avvenire aver titolo marchionale, a meno che la rendita ne fosse di cinque mila scudi di undici fiorini ciascuno, e che niuna terra potesse erigersi in contado, se la sua rendita non fosse almeno di tre mila scudi..

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Abbiam detto che la S. Sede, e i principali potentati di Europa ebbero Emanuele Filiberto in grandissima stima; e gliene diedero una bella prova nell'occasione in cui si fecero le cerimonie battesimali dell'unigenito di lui figliuolo. Aveva questi ricevuto l'acqua battesimale subito nato; ma non se n'erano ancor fatte le cerimonie solennemente al sacro fonte ; cagione della tardanza era stata il non essersi prima del 1567 potuti radunare gli oratori de' Principi, che

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lo volean tenere a battesimo. I patrini furono Pio V sommo` Pontefice, Carlo IX re di Francia, la repubblica di Venezia,' e il gran mastro di Malta; e le matrine Catterina De Medici regina di Francia, e Isabella di Francia regina di Spagna; ministro fu l'arcivescovo Gerolamo Della Rovere. V'intervennero per parte del Papa il cardinale Alessandro Crivellig a nome del re Carlo IX il marchese del Villars grande ammiraglio; per le due regine di Francia e di Spagna, Isabella Gonzaga, moglie di D. Francesco d'Avalòs, marchese di Pescara; per la repubblica di Venezia il suo ambasciatore presso la corte di Torino, e per il gran mastro della religione di Malta il cavaliere Raschierio. Alla grandezza dei personaggi che intervennero, il duca Emanuele Filiberto volle corrispondere con la magnificenza e la pompa nella sacra cerimonia: aprì dalla gran sala del castello che allora era la reggia de' Sovrani una grande strada pensile col mezzo di palchi, la quale conducesse alla chiesa metropolitana di s. Gioanni; il pavimenlo di questa chiesa vedevasi ricoperto di tappeti di finissimo lavoro, e le pareti n'erano vestite di ricchi addobbi, risplendenti d'oro; la corte, tutta messa a gala, circondava il Principe infante; e tutti si condussero al sacro fonte, ove gli attendeva l'arcivescovo ; finita solennemente la ceremonia sacra, nel tornare dal maggior tempio al palazzo ducale, due araldi gettarono largamente al popolo monete si d'argento che d'oro.

Emanuele Filiberto sommamente soddisfatto della condotta de' torinesi, cercò sempre di assecondarne lo spirito religioso in essi quasi connaturato, e sempre accondiscese ai desiderii della civica amministrazione, tranne in pochissimi casi, in cui il soddisfarne le brame avrebbe nociuto al generale interesse dello stato. Quando le reliquie dei ss. Martiri protettori di Torino dal monastero di s. Andrea, ossia della Consolata, furono trasferite con grandissima religiosa pompa in un'oratorio uffiziato dagli ignaziani, il Duca volle accrescere colla sua presenza la solennità della funzione, la quale si celebrò il 19 gennajo 1575: egli v'intervenne col Principe suo figliuolo, col nunzio apostolico, e con varii altri prelati, accompagnandolo i cavalieri dell'ordine dei ss. Maurizio e Lazzaro poco innanzi creato: due anni dopo, il 3 d'aprile, avendo monsignor arcivescovo

Gerolamo Della Rovere benedetto la pietra fondamentale della nuova chiesa ai ss. Martiri dedicata, volle il Duca con pari solennità assistere alla sacra funzione: finalmente condotto a termine quel sacro edificio, il religioso Principe volle anche intervenire alla processione delle reliquie medesime, allorchè dall'oratorio degli Ignaziani le portarono alla nuova chiesa il predetto arcivescovo, il cardinale Guido Ferrero vescovo di Vercelli, e Vincenzo Lauro vescovo di Mondovì. Sorreggeva il Duca il baldacchino, sotto cui portavasi la magnifica urna delle reliquie veneratissime, insieme coll'ambasciatore di Venezia, col marchese di Este, il signore di Racconigi, mentre accompagnavali un grande numero di gentiluomini addetti alla corte del Principe. Questa funzione fu celebrata nel modo più splendido, e con grande letizia dei Torinesi, addì 23 dicembre 1584.

Verso la città di Torino si mostrò sempre benevolo il duca Emanuele Filiberto. Uno de' ministri che procurava per obblique vie di cattivarsene la grazia, gli suggerì di eleggere egli stesso il vicario della città, indipendentemente dai voti de' consiglieri; ma il Duca sapendo quanto importi alla gloria de' Principi dominanti il conservare ai municipii de' loro dominii alcun nobile privilegio, non solamente non s'indusse a privarne il comune di Torino, ma confermollo nella libertà, e prerogativa di farne, secondo il costume, la così detta rosa per l'elezione: così fu indarno la lettera, ch'egli ad altrui suggestione aveva scritto alla città, acciocchè fosse confermato un Daierio nel vicariato.

L'avvedutissimo Duca con rescritto del 6 maggio 1564, dopo aver dichiarato essere suo desiderio che gli abitanti. della sua fedelissima città di Torino fossero immuni da ogni fastidio e danno, concedette che niuno andasse esente dagli alloggiamenti; ed ordinò che nè le guardie, nè gli ufficiali di corte abusassero delle concessioni lor fatte a questo riguardo, e dovessero pagar il fitto delle camere da essi abitate, secondo che venisse giudicato dai deputati del comune; nía questi, che sotto il nome di forieri erano incaricati di questo affare, solevano segnare gli alloggi agli uffiziali di nobił nascita secondo il desiderio dei medesimi, che poi pretendevano di ritenere quelle camere delle case assegnate, che

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loro più aggradivano; e poichè per un siffatto disordine interveniva sovente che i padroni delle case si trovavano costretti ad abitare le parti meno comode delle loro abitazioni, il Duca ordinò che non si segnassero gli alloggi militari senza l'intervento di un consigliere della città. Indi a pochi giorni l'amministrazione civica di Torino chiese la conferma de' privilegi, degli statuti, de' buoni usi, e delle immunità che il torinese municipio già godeva da tempi rimotissimi; e il Duca ben volle accondiscendere alla domanda, e s'indusse parimente a concedere alla città di poter crescere i dazi, perchè altramente essa non avrebbe potuto pagare al Sovrano, per un settennio, cinque mila scudi d'oro del sole in ogni anno, come facevasi altrove ne' dominii sabaudi. Quando per sentenza l'università degli studi fu da Mondovì ristabilita in Torino con grande allegrezza de' cittadini, il Duca in seguito ad un memoriale della città, con cui ella chiedeva che i Torinesi fossero preferiti alle cattedre universitarie, il Duca dichiarò, che ad ugual merito d'ingegno e di scienza, anteporrebbe sempre i Torinesi alle cattedre universitarie..

Oltre a quelle supplicazioni, la città bramando che si migliorasse la forma delle case, che sino ai tempi, di cui parliamo, non si presentavano per la più parte in vago aspetto per la trascuranza de' possessori delle medesime, Emanuele Filiberto ben volontieri invitò i padroni delle case, che non potessero ristaurarle e rabbellirle, a farne la vendita a chi si mostrasse disposto a ricostrurle in modo più elegante: siccome poi il capitano di giustizia osava alcune volte di turbare la giurisdizione del vicario, la città ne fece forti doglianze al Duca, il quale non frappose indugi a dichiarar nullo quanto si facesse contro gli ordini politici del vicario, al quale ed al suo assessore apparteneva la prima appellazione non che la politica della città. Da tutto ciò ben si vede come quell'ottimo Sovrano ben sapeva esser tirannica la politica di que' Principi, che non vogliono lasciare nessun privilegio ai municipii: ei vide che non infrequentemente vanno in un istante perduti gli acquisti di un secolo, e che la grandezza che fu stabilita dalla violenza suol rompere negli scogli delle popolari sollevazioni. Egli è vero che il

giogo della giustizia è il più forte a tenere nel freno dell'obbedienza i sudditi ; ma è vero altresì che la clemenza e la generosità sono i mezzi che più gli allettano ad obbedire. Un anno prima della sua morte il Duca ordinò la zecca in questa capitale; e così cessarono molti intollerabili abusi intorno alla moneta. Ordinò che gli atti pubblici si facessero in lingua italiana; e siccome chiamò parecchi letterati italiani ad insegnare nella torinese università si può dire che egli fu il primo ad italianizzare Torino e l'intiero Piemonte. Ad Emanuele Filiberto, dice uno scrittore, debbono i posteri una nazionalità che altri popoli invidiano ai Piemontesi. Così questo Duca si mostrò costantemente legislatore, ordinatore, e rinnovatore della sua monarchia.......

Emanuele Filiberto fu istrutto in tutte le più nobili discipline: si mostrò peritissimo della storia, di cui molto si dilettava. Parlava e scrivea correttamente nelle lingue spagnuola, francese, tedesca e italiana; ma sapendo di essere italiano Principe, e mirando ad italianizzare anche per riguardo alla favella i Piemontesi, valevasi continuamente dell'italico idioma. Nella conversazione dava frequenti prove di essersi addentrato in ogni maniera di studi, e secondo le occasioni mostravasi anche eloquente. Delle sue profonde cognizioni nelle matematiche e nelle arti del disegno, valse in molte occorrenze aspro dello stato e massimamente quando si accinse alla costruzione delle fortezze, di cui parlammo qui sopra.

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Nel tempo che gli avanzava dei pubblici negozi, faceva qualche lavoro di sua mano, come statue di cotto o di mel tallo, canne e casse d'archibugi, vasi da mettere » nele suo giardino; stillava`talvolta acque ed olii, e faceva altre siffatte operazioni di chimica.

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Naturalmente inclinato agli atti più benefici e religiosi protesse non con vane dimostrazioni, ma con efficacia dotti ed i letterati. È bello il vedere, come l'illustre Ginguené gli rende, a questo riguardo,i più distinti elogi: Emanuele Filiberto, dic'egli, appena ricúperò il Piemonte e la Savoja, e si vide ben raffermato sull'avito soglio, volle circondarlo di ciò che la coltura delle scienze, e delle lettere aggiunge alla prosperità così dei piccoli stati come dei

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